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Un’opera prima, un titolo intrigante. Nicola Manuppelli nella vita è un traduttore che si definisce “talent scout”: si imbatte in un autore (rigorosamente anglofono) e lo spinge, se gli piace. Come fanno gli osservatori per le squadre di calcio, gente che trascorre il tempo a scoprire buoni calciatori sui terreni della provincia. Stavolta, però, Manuppelli è sceso in campo in prima persona. Con le poesie e con quel titolo, che non passa inosservato: “Quello che dice una cameriera”. Il motivo? Eccolo spiegato: “Ho scelto il titolo come facevano i cantautori per gli album, dandogli quello di una canzone contenuta nel disco. La cameriera è una figura che ritorna in tanti pezzi, l’ho incontrata in tante cose che traduco. Io stesso sono stato un cameriere. C’è tutta una filosofia dentro questo mestiere, un mondo che mi affascina molto”.

Per quale motivo?
Perché è un figura femminile e perché vive in un universo di cose fuggitive. Mi piacciono i luoghi di passaggio, come gli alberghi e gli aeroporti. Il cameriere è un lavoro di passaggio. Lo fai per un attimo. Però dietro c’è sempre una possibilità, nasconde altre storie. Una sospensione che mi affascina”.

Come è nato il libro?
Ho cominciato a scrivere quando avevo 18-20 anni, io sono del 1977. Oddio, chiamarle cose del secolo scorso mi fa un certo effetto. Ho iniziato dopo aver letto Yeats. Si tratta di materiale distribuito nel tempo, alla fine avevo 400 brani tra cui scegliere. Sono partito suonando a casa di Fernanda Pivano per farle leggere alcune cose. Doveva essere una cosa da una decina di minuti, si è trasformata in giorni e giorni trascorsi da lei. Un’educazione sentimentale che dura fino a Blue John, scritta poco prima di sposarmi a marzo e prima di un lungo viaggio negli Stati Uniti”.

C’è un filo conduttore?
Mi piace molto immaginare, non raccontare cose mie. E’ una ricerca della bellezza intera, della bellezza pacifica non tormentata. Con un sottofondo molto hollywoodiano, all’inseguimento del lieto fine. Mi ritrovo poco con alcune tendenze attuali, che privilegiano il cinismo. E’ un atteggiamento che non amo. Cerco la bellezza come la descrive Yeats in suo verso: Come posso distinguere la danza da chi danza?”.

Ti piace confrontarti con il pubblico?
L’obiettivo è suscitare emozioni. Avrei voluto fare il cantautore, ma non so suonare. Allora ho usato le parole. Il sogno della mia vita era leggere e scrivere, lavorare con le parole, valorizzarle come facevano le vecchia compagnie di teatro. Leggere la letteratura è la forma di espressione che amo di più: vai in giro, incontri la gente. Questi sono per me i reading, un modo per fare effetto sulle persone: colpire una donna, rendere allegro un amico, avere un pubblico”.