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Lorenzo Bartolini: quando succede questo, son felice! – Dialogo con Dimitri Ruggeri

Lorenzo Bartolini: quando succede questo, son felice! – Dialogo con Dimitri Ruggeri

 

Dimitri Ruggeri dialoga con Lorenzo Bartolini, artista che fa della parola il suo mestiere.

D.R. Come mai hai avuto la necessità di “emancipare” la poesia portandola a teatro?

L.B. Urca! No, no. Io alla Poesia non ho fatto niente.
La Poesia è un’anziana, elegante signora millenaria che non ha assolutamente bisogno di emanciparsi. Sono stato io ad aver bisogno di lei.
A un certo punto mi sono trovato a scrivere diverso. A scrivere in versi.
Faccio teatro-canzone o canzone-teatro, a seconda degli spettacoli, da 15 anni. Prima omaggiando Giorgio Gaber e poi con spettacoli originali con il duo Formazione Minima in cui canto e recito.
Poi, dal punto di vista della scrittura, ho messo per un po’ da parte le canzoni e ho cominciato a scrivere poesie.
In realtà me l’hanno detto che erano poesie: io avevo molta paura a chiamarle così.
A un certo punto, nel 2015, mi son preso la responsabilità di quello che stavo facendo e ho costruito e cominciato a proporre il mio primo spettacolo di teatro-poesia dal titolo “Anche se”.
Mi presentavo alla mia piccolissima fetta di pubblico e a un pubblico tutto nuovo con una forma d’arte non ancora sviluppata in Italia. L’ho fatto mettendo, in qualche modo, le mani avanti. Per questo “Anche se”. Anche ora non siamo in tanti a fare questo tipo di spettacolo.

Mi ha insegnato
Che non si porta
il rancore.
Verso quelli
che gli vuoi bene
non si porta.
T’arrabbi
sì,
sbatti gli sportelli
della cucina,
sì,
le porte,
fai gli urli
forte,
sì,
ma il rancore
non si porta
verso quelli
che gli vuoi bene.
Non si porta
perché
pesa troppo.
Che non c’è
bisogno
di fare il muso.
Si porta
il perdono.
Senza dir niente.
Senza tante
parole.
Che il voler bene
si fa
più che
si dice.

Questo
m’ha insegnato
la Leonarda,
la mia mamma.
E non me l’ha
mai detto.

D.R. Nei tuoi spettacoli, il teatro è solo un luogo fisico oppure influenza anche il linguaggio/struttura della rappresentazione?

L.B. Il teatro per me non è mai solo un luogo fisico. Anzi. Il teatro per me è innanzitutto una relazione fra persone in ascolto. Uno spettacolo si fa sempre insieme. Si può far teatro in un prato in montagna se c’è un pubblico che ha voglia di ascoltare e un attore che ha voglia di darsi. Esiste una scenografia migliore?

D.R. Il teatro si compone di spazio, tempo, gesti, corpo e di molte altre discipline. Come strutturi i tuoi spettacoli di Poesia? Qual è il processo creativo? Ti avvali di una regia, sceneggiatura o cosa?

L.B. Parto sempre dalla poesia. Poi costruisco un monologo che la anticipi, che possa preparare il pubblico alla miglior fruizione di quel testo. Il monologo è al servizio della poesia. Il tutto sta dentro a un discorso più ampio, a una narrazione che lega: c’è una sorta di drammaturgia. Non è un semplice reading, dunque. L’alternanza di monologhi e poesie mi permette, poi, di utilizzare ritmi differenti al fine di rendere lo spettacolo più dinamico.

D.R. Raccontaci qualche aneddoto che ti ha particolarmente segnato in questo percorso.

L.B. Uno su tutti. Spettacolo all’aperto, d’estate, nel giardino di una villa contadina sui colli romagnoli.
Scenografia: le mie poesie appese a un filo teso fra due alberi; sullo sfondo, antico monastero diroccato, in lontananza, illuminato da una luna splendida.
Faccio lo spettacolo. Pubblico caloroso ed entusiasta. Anche io felicissimo.
Una ragazza mi chiede se può “rubarmi” una poesia. I fogli sono per terra, sull’erba. Su quello che era il mio palco.
Altre persone, vedendola raccogliere il testo, si accalcano per raccogliere a loro volta.
Mi portano via tutte le poesie: rido!
La prima ragazza torna da me e mi chiede se può ricontattarmi via mail. Le dico: “Certo, con piacere!”
Da quel giorno comincerà una collaborazione che porterà i miei testi a essere studiati alla Duke University, negli Stati Uniti, da più di cento studenti per il corso di italiano di primo e secondo grado. Poi si è fatto anche l’incontro con l’autore via skype: un’esperienza incredibile che ancora mi imbarazza e mi emoziona.

D.R. La tua esperienza nei poetry slam si può dire che è ritornata utile per maturare questo percorso o lo hai intrapreso da prima?

L.B. Io facevo teatro-poesia prima di partecipare a uno Slam. Il poetry slam è una forma d’arte affascinante e complessa. Molto utile a chiunque voglia salire su un palco e voglia scrivere testi da recitare. A me è servita tanto. Lo Slam ti costringe a ritmi e tempi che ti permettono di comprendere quanto un tuo testo sia, più o meno, efficace. Scrivere a voce alta è molto difficile. Le parole dicono quello che vogliono, non quello che vogliamo far dire loro. Il Poetry Slam è bello per questo. Ti ridimensiona. Ti costringe per poi, eventualmente, darti i mezzi per imparare a liberare le parole a voce.

D.R. Cosa ti ha fatto decidere di pubblicare “Senti cosa ho scritto”? Sono testi scritti per essere rappresentati “vocalmente” nei reading?

L.B. In realtà non avevo mai pensato alla pubblicazione. I ragazzi di Miraggi mi hanno contattato e chiesto se potesse interessarmi. Ho tergiversato un po’. Poi, dopo un anno di lavoro sui testi che già avevo, è uscito il libro. Il libro è diviso in tre sezioni a seconda della lunghezza. E’ un libro che finisce. Per capirci: nell’ultima sezione ci sono haiku. A parte questi, tutti gli altri testi sono scritti per essere detti. Sono testi per il mio teatro-poesia. Hanno il ritmo della mia voce, del mio recitato.

D.R. Cosa intendi quando si parla in generale di “performance” poetica o poesia performativa?

L.B. Ci sono tanti e diversi modi di dire poesia. Io li intendo tutti. A me interessa soprattutto la bellezza. Stimo performers molto diversi fra loro. Faccio alcuni nomi, in ordine sparso: Mercadini, Petrosino, Agrati, Sandron, Tricarico, Fabiani, Burbank, Miladinovic, Gironi, Balestra, Racca, Monti, Bravuomo, Cancian, Savogin, Di Genova, Garau, Socci, Catalano.
Sono poeti performers distanti nella scrittura e nel modo di stare sul palco.
Quello che mi importa è la relazione. E’ l’effetto emergente della relazione messa in atto con parole belle. Quando succede questo, son felice!

*
Lorenzo Bartolini scrive canzoni, monologhi e poesie. Dal 2004 è cantattore dei Formazione Minima, duo di teatro-canzone.
Fa spettacoli di teatro-poesia in solitaria o in compagnia. Fa monologhi e reading. Tiene corsi di Scrittura A Voce Alta. Hanno inserito le sue poesie nel programma di studi di Lingua Italiana alla Duke University (USA), Department of Romance Studies, Fall 2016.
Ad Aprile 2017 è uscito il suo primo libro di poesie, “Senti cosa ho scritto”, per Miraggi Edizioni. Nel 2018 è relatore al Convegno “Crescere attraverso il Teatro” dedicato a Gianfranco Zavalloni. Ha una rubrica su YouTube dal titolo “ESPRESSO POESIA”.

Articolo originale qui: https://slamcontempoetry.wordpress.com/2019/06/06/lorenzo-bartolini-quando-succede-questo-son-felice

L’ossessione degli amori impossibili – recensione di Angelo Mastrandrea su Il Manifesto

L’ossessione degli amori impossibili – recensione di Angelo Mastrandrea su Il Manifesto

Narrativa. «La realtà pura», il romanzo di Riccardo De Gennaro per Miraggi Edizioni

di 

La realtà pura dell’omonimo romanzo di Riccardo de Gennaro (Miraggi edizioni, pp. 125, euro 12) è una stanza completamente bianca, inondata di una luce abbacinante, nella quale il protagonista Carlo Gozzini, un economista dai ragionamenti molto razionali, viene a trovarsi in un finale che ribalta il punto di vista sul quale è costruito il libro.

È IL PUNTO D’ARRIVO di una storia che si costruisce tutta attraverso il filtro della finestra di un’abitazione affacciata sul Tevere capitolino, attraverso la quale si snoda una spy story tutta immaginaria, fatta di pedinamenti e controlli ad opera di un’Organizzazione misteriosa che ha sede in una fantomatica «Casa al di là del fiume» che vuole impedirgli l’amore per una donna di vent’anni più giovane, attrice di bella presenza ma senza talento.
Il romanzo è la storia di un amore impossibile, il racconto lucido di un’ossessione che sfocia nel delirio, dove il protagonista arriva a determinare ogni situazione attraverso il suo immaginario, finendo per ritrovarsi invischiato in una prigione mentale simboleggiata dalla casa sul Tevere dalla quale osserva il mondo così come crede di vederlo.
Gozzini, in un gioco di proiezioni estreme, ne attribuisce la costruzione all’Organizzazione, si mette in testa che Blandine – questo il nome della ragazza oggetto dei suoi turbamenti – è stata ricoverata in una clinica psichiatrica, arrivando ad attribuire a lei, che non corrisponde ai suoi sentimenti, i propri disturbi mentali. Il protagonista del romanzo, che ricorda il Joseph K. de Il processo di Kafka, in un disperato tentativo di razionalizzare il proprio malessere interiore, finisce per costruirsi un mondo immaginario che dà forma al suo stato mentale.

DE GENNARO – firma nota ai lettori di Alias domenica e del manifesto, autore di una biografia dello scrittore Lucio Mastronardi (La rivolta impossibile, uscita per Ediesse) e fondatore del trimestrale Il Reportage – costruisce un congegno narrativo che non è altro che una metafora dell’impedimento, di quelle forze interne che bloccano ogni spinta a realizzare i propri desideri e, in fin dei conti, ci impediscono di trasformarci in quello che vogliamo essere.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://ilmanifesto.it/lossessione-degli-amori-impossibili/

Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks – Recensione a cura di Loredana Cilento su Millesplendidilibri

Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks – Recensione a cura di Loredana Cilento su Millesplendidilibri

“Il futuro è sempre incerto. Nessuno sa che cosa ci aspetta o ci toccherà, l’unica certezza che abbiamo nella vita, è la morte”

Karel Kopfrkingl, il protagonista creato da Fuks nel 1962 nel grottesco e quasi surreale libro Il bruciacadaveri, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1972, e oggi con una nuova traduzione a cura di Alessandro De Vito, per Miraggi Edizioni, è semplicemente geniale!

Fuks ha racchiuso nel morigerato e premuroso padre di famiglia e marito amorevole – al limite dello stucchevole – tutta l’atrocità e la contraddizione di uno dei periodi più abietti della storia: la follia delle persecuzioni naziste.

Praga 1938-39, Kopfrkingl è impiegato nel crematorio comunale, il suo Tempio della Morte, ama il suo lavoro a tal punto da giudicarlo un aiuto necessario a Dio per estirpare il male definitivamente, e far tornare in polvere, ciò che il Creatore ha disposto. Ma Karel, come dicevo, è anche un marito presente e innamorato della sua celeste moglie dai capelli neri (un particolare che spesso ritorna nelle sue affermazioni). Ossessivo, logorroico, abitudinario e maniacale, in cerca della perfezione estetica, ama adornare casa con ninnoli (di dubbio gusto), passeggiare con la famiglia, e recarsi spesso da un dottore, suo vicino di casa, specializzato in “malattie veneree”. Ma nell’epoca dei grandi movimenti nazisti per ristabilire e ripulire la razza ariana, Roman/Karel, si lascia soggiogare dalle idee nazionalsocialiste tanto da prendere in considerazione il divorzio da Lakmè/Marie, di origini ebraiche. La sua goccia di sangue tedesco ribolle, mostrando un angelo nero, che armato di cappio, ucciderà la sua celestiale moglie, mentre risuona la grande aria di Lucia.

“Quando Lakmé salì sulla sedia, il signor Kopfrkingl le accarezzò il polpaccio, le gettò il cappio al collo e con un tenero sorriso le disse:

« E se ti impiccassi, cara? »

Lei gli sorrise dall’alto, forse non aveva capito bene le sue parole, anche lui sorrise, calciò via la sedia ed ecco fatto.”

L’atto criminoso di Karel completa la trasformazione, il nazista che è dentro di lui implode, la follia ha raggiunto l’apoteosi riservando un destino crudele  al resto della famiglia.

Fuks ha rappresentato il male in tutto il suo orrore, ha creato un personaggio vestito da uomo perbene, zuccheroso oltremodo ridondante, che si lascia accarezzare dal diavolo (Willie Reinke) persuaso dalle ideologie di purificazione, (in seguito con la creazione delle camere a gas) calandosi, ad esempio, nei panni di un mendicante per spiare i nemici ebrei, inculcato dal suo serpente tentatore.

Sottilmente, Fuks sparge tanti piccoli particolari che riportano al periodo nazista, persino i solenni rituali di Karel, come leggere sempre lo stesso libro sul Tibet, per poi sfociare nella pazzia; anche l’ossessione della stanza da bagno, l’arredamento…

…e ancora, i nomi non hanno valore, la simbologia degli animali, dei capelli neri delle donne tutto meticolosamente orchestrato per dar vita alla morte, una macabra pantomima che porta in scena la ferocia di un leopardo e la subdola destrezza di un serpente, il tutto scandito dall’orario di viaggio della morte.

“La morte libera l’uomo dal dolore e dalla sofferenza”

 Il bruciacadaveri non risponde a nessuna domanda, anzi ne pone come tanti capolavori letterari. Inquietante e stupefacente!

 Ladislav Fuks è stato uno dei più noti e rappresentativi scrittori cechi del Novecento (Praga 1923 – 1994). La nuova traduzione è affidata ad Alessandro de Vito, mentre la

postfazione al noto boemista Alessandro Catalano.

Articolo originale qui: Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks

Uniche… le LAMPADE LIBRO di Miraggi

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POESIE DAL CAMPO DI CONCENTRAMENTO di Josef Čapek (Miraggi Edizioni 2019) a cura di Nicola Vacca su Liberi di Scrivere

POESIE DAL CAMPO DI CONCENTRAMENTO di Josef Čapek (Miraggi Edizioni 2019) a cura di Nicola Vacca su Liberi di Scrivere

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Poesie-dal-campo-di-concentramentoJosef Čapek appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka. È morto da poeta e da combattente antifascista e antinazista in un lager. Durante la sua detenzione nel campo di concentramento scrisse poesie.
Questi versi rappresentano una testimonianza e un paradosso. Il poeta – intellettuale – prigioniero scrive dal terribile baratro dell’universo concentrazionario con l’intenzione di scavare nell’impossibilità della parola e allo stesso tempo è vigile e presente davanti al terrore dei suoi aguzzini.
L’editore Miraggi pubblica una scelta delle poesie dello scrittore boemo. Poesie dal campo di concentramento (traduzione di Lara Fortunato) è un viaggio nel calvario di un uomo privato della sua libertà. La poesia di Čapeck affonda i suoi artigli nella rappresentazione più feroce che il male ha raggiunto nel secolo breve.
Dall’inferno del campo di concentramento il poeta scrive del baratro senza fine, perde il sonno per scrivere poesie come tracce di bene davanti all’orrore del sangue.
La poesia per Čapek è l’unica istanza di verità. Nella poesia la parola rimane viva e sveglia. È proprio grazie alla sua lucidità che il poeta è in grado nei suoi versi di catturare nell’essenzialità l’inferno mortale del campo di concentramento.

«A tratti i componimenti – scrive Laura Fortunato nella prefazione – si fanno cronache condensate dello sterminio in atto, riuscendo a ignorare del tutto la miseria degli aguzzini, per porre invece al centro la condizione dei prigionieri».

Josef Čapek prese apertamente posizione contro l’avanzata del nazismo, nel 1939 fu arrestato e deportato in un campo di concentramento.
Qui scelse la poesia per cantare la disgrazia, il lutto e il dolore dei giorni infernali trascorsi nell’orrore terribile del campo di concentramento dove «le cose umane si sgretolano» e l’angelo della morte arriva in volo per oscurare con le ali il palpito della vita.
Nel campo di concentramento, dove il nulla fiorisce e gli uccelli non cantano e primavera e inverno sono una catena di giorni di pena continua e tristezza, Josef Čapek scrive poesie chiedendo alla parola di donargli tutto il suo impeto per descrivere dal vivo e nel vero tutto il turbamento dell’orrore.
Il 25 febbraio del 1945 Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen –Belsen, dove morì qualche mese dopo.
Consapevole di andare incontro alla morte scrisse la sua ultima struggente poesia.
Si congedò dal mondo con Prima del grande viaggio:

«Difficili momenti, giorni difficili / non vi è scelta, decisione, / ultimi giorni scuri, / siete giorni di vita o di morte? / Indietro alla vita o nelle fauci della morte / – cosa vi sarà alla fine del viaggio? / A migliaia vanno, non sei solo… / Avrai, non avrai fortuna? / Sorto è il giorno del grande viaggio / – da tempo vi sei preparato: / messe di vita o di morte / – tanto vai verso casa – tu torni a casa!».

Poesie dal campo di concentramento è un libro da leggere. Solo un poeta poteva lasciarci in eredità la testimonianza straziante e viva dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani.

Josef Capek (Hronov, 23 marzo 1887 – Bergen Belsen, aprile 1945) è stato un pittore e scrittore ceco, e appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka.
Fratello di Karel Capek, fu autore di varie opere in collaborazione col fratello (tra cui Della vita degli insetti, 1925), ma ne scrisse anche altre autonomamente. Tra queste Lelio (1917) e La terra dei molti nomi(1923). Fu l’inventore della parola “Robot”.
Morì nell’aprile del 1945 nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania, dove venne deportato a causa del suo atteggiamento ostile nei confronti della politica di Hitler e del Führer stesso. Durante la prigionia scrisse Básne z koncentracního tabora, una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946.

Source: libro del recensore.

Leggi l’articolo originale qui: https://liberidiscrivere.com/2019/05/07/poesie-dal-campo-di-concentramento-di-josef-capek/

Pontescuro di Luca Ragagnin – Recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

Pontescuro di Luca Ragagnin – Recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

«I veri pericoli a Pontescuro sono sopra, nella ricerca difettosa di pulizia e ordine.

Preferisco il popolo delle radici. Lìalmeno nessuno ammazza nessuno. Nel carnaio di sopravvivenza e nutrimento, dove sto io, nessuno farebbe quello che hanno fatto a Dafne. »

Dafne Casadio, figlia del signorotto di Pontescuro viene ritrovata morta con stretto al collo un nastro rosso: è facile incolpare lo scemo del paese, Ciaccio l’ amico sincero della scandalosa e spudorata  ragazza.

Pontescuro di Luca Ragagnin, edito da Miraggi Edizioni, è una favola noir, dove il male dimora nelle persone,  dove la nebbia, il fiume, una blatta e lo stesso cadavere di Dafne danno voce al male.,

« Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore.»

Immaginate ora di essere nel lontano 1922 in un  piccolo paese di campagna dove il tempo resta sospeso, un paese diviso a metà da un ponte dove la continuità di questo luogo è data dall’interruzione, come le persone che sono nate e cresciute  qui, interrotte dai lori segreti o da peccati inconfessabili, ma del resto negli anni Venti tutto taceva sotto una coltre di piccoli e nefandi segretucci di paesi.

Un paese che non risente dei tempi che stanno cambiando, le case restano di paglia e pietra, il cuore di cento anime, poco più, è di paglia e pietra.

Tutti colpevoli, ma solo uno pagherà, l’unico innocente.

Una narrazione, quella di Pontescuro, semplice e diretta, ma che ti stupisce: un coro di voci astanti a dir poco  inconsueto, si fanno carico  di raccontare la morte e la vita della sfrontata Dafne.

Una ragazza nata con la luce nei capelli, un affronto per quel paese incolore e nebbioso.

Per le donne che chiudevano gli scuri al suo passaggio, per gli uomini che la desideravano, ma a Pontescuro i desideri non sono contemplati.

Pontescuro è una storia di male viscerale, di uomini e di donne, di bigotti che non percepiscono la vera essenza del bene, inneggiando senza scrupoli, puntando il dito, e sentenziando dal pulpito o dal banco di un tribunale di anime nere. Una bellissima storia amara, la spinta della gelosia fa commettere crimini orribili, oscurando il cuore degli uomini, che saziano la loro sete di vendetta, stringendo un nastro rosso, non di seta, non sarebbe stato adatto a sgualdrina. E infine l’amicizia tra Ciacco e Dafne e di una bellezza straordinaria…come straordinarie sono le pagine di Pontescuro che via via si lasciano leggere e amare…ti lasciano sospesi felicemente.

«Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, uno di quei dipinti che le gallerie importanti delle grandi cittàrifiutano perché ce ne sono di migliori, nel genere, e nessuno ha bisogno di un paesaggista ubriaco. «Ma non eravamo ubriachi, soltanto sospesi, e nella sospensione, felici.

« Felici di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felici di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno del tonfo che fa,

cadendo a terra. « Non piacevano a nessuno, quei due, ma a me sì»

 Luca Ragagnin è scrittore e paroliere.

Inizia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna.

È autore di romanzi (“Marmo rosso”, “Arcano 21”, “Agenzia Pertica”, “Pontescuro”), racconti (tra gli altri, “Pulci”, “Un amore supremo”), testi teatrali (“Misfatti unici”, “Cinque sigilli”) e poesie (tra le altre, le raccolte “Biopsie” e “La balbuzie degli oracoli”), tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.

Nelle vesti di paroliere ha scritto testi di canzoni, tra gli altri, per Mina, Antonello Venditti, Garbo, Subsonica, Delta V, Totò Zingaro e Mao e la Rivoluzione.

 

Qui l’articolo originale: https://millesplendidilibriblog.wordpress.com/2019/05/16/pontescuro-di-luca-ragagnin-recensione/

LA CONFUSIONE NON È MAI STATA COSÌ BELLA recensione di Mariangela Taccogna su Mangialibri

LA CONFUSIONE NON È MAI STATA COSÌ BELLA recensione di Mariangela Taccogna su Mangialibri

Davanti al mare crollano le barriere e si apre lo scrigno delle emozioni. Tra il desiderio di essere trascinati via dall’amore e la realtà, restano le domande e la nostalgia. Nostalgia di un amore intenso fatto di piccoli gesti, di quotidianità. A nulla serve cancellare ogni traccia se nella mente indelebili restano i ricordi. Fuggire via ma insieme, godersi il mare, i baci e gli abbracci, le risate e gli sguardi. Passeggiare mano nella mano, dormire teneramente vicini e struggersi dal desiderio. Nottate ad occhi spalancati e cuore ferito, pensare e ripensare a chi è lontano ma non smette di essere lì, nello stesso letto che odora ancora d’amore. Un amore che non è mai abbastanza, una fame di baci che non saziano, un desiderio di ‘per sempre’ che ritorna prepotente ad ogni sguardo. L’amore è tutto ciò che serve, è il luogo dove far riposare il cuore dalle scorribande della giovinezza, è il sogno che si avvera, è un corpo da esplorare. Ma anche vuoto da colmare, dolore che non permette di reagire, attendere e sperare in un ritorno. Ritrovarsi a cercare ancora lei e illudersi di trovarla in una bottiglia di Jack Daniels o nelle braccia di un’altra. Fermare il tempo nel ricordo dell’ultimo bacio fino a smettere di aspettare…

Quattro capitoli (Il mare, Io e te, Il cuore spezzato e Il tramonto) per dipingere, attraverso più di cinquanta poesie, una storia d’amore contemporanea, fresca e giovane come i protagonisti. Stefano Colucci, classe 1995, rappresenta certamente la “generazione 2.0” e racconta, con una scrittura liquida e veloce (espressione di una instancabile frequentazione di numerosi social network), l’amore attraverso gesti, luoghi ed oggetti anche banali: le sigarette, le felpe oversize, il Mc Donald’s. Un autore giovane e molto ‘social’, un linguaggio schietto e concreto, un tema evergreen, una pioggia di ‘like’ sui social che precede la pubblicazione e la raccolta di poesie è presto fatta. Successo garantito tra i giovani lettori che possono rispecchiarsi in un linguaggio fatto di brevi, lapidarie frasi (lo stesso che sperimentano quotidianamente fuori e dentro i social network) e di uno stile con interessanti potenzialità ma che risulta ancora acerbo. Esattamente come la generazione che rappresenta. Istantanee di una quotidianità che chiede di andare oltre e di sperimentare sentimenti ed emozioni che non hanno tempo. La raccolta si conclude con un monito che diventa quasi uno slogan, un consiglio, una speranza: “Innamorati di tutto”. Più che una dichiarazione d’amore, una dichiarazione all’amore.

La confusione non è mai stata così bella

IL LAGO nella recensione-musicale (playlist) di Lorenzo Lampis

IL LAGO nella recensione-musicale (playlist) di Lorenzo Lampis

IL LAGO – Bianca Bellová, edito da Miraggi Edizioni.
Tutti serbiamo dei ricordi della nostra infanzia che custodiamo gelosi nello scrigno della nostra memoria. Ricordi che divengono veri e propri luoghi dell’anima, e in cui ci rifugiamo nei momenti in cui la vita ci sembra insopportabile.
Ricordi che possono essere una stanza, una canzone, uno sguardo, o semplicemente un profumo.
Nel caso di Nami son tre macchie rosse di un costume, e quella voce muliebre che lo placa, lo rasserena.
Nami vive in una piccola e sconquassata casetta di Boros, piccolo villaggio affacciato su un lago ove si vive principalmente di pesca. Vive insieme ai nonni materni. Dei suoi genitori non sa quasi nulla, e quando chiede qualcosa tutti cambiano discorso.
Ma lui ricorda, ricorda sempre quelle tre macchie rosse, e quella voce.
Nel frattempo il lago, mese dopo mese, si ritira, in una sorta di bassa marea senza fine; lago che provoca rush cutanei con talvolta conati di vomito a chi ci si immerge per un bagno. Anche i pesci cominciano a scarseggiare.
Lo Spirito del Lago è infuriato, si dice.
Boros lentamente cade nella miseria.
(Il lago, seppur nel romanzo non venga mai citato, è il Lago Aral, che infatti sotto l’occupazione russa si prosciugò quasi totalmente in quanto i russi deviarono i corsi di alcuni fiumi immissari per irrigare immense piantagioni di cotone, provocando così un’immensa catastrofe ecologica, forse una delle peggiori del novecento)
Dopo la morte dei nonni, mentre il Lago prosegue nella sua disastrosa ritirata, deglutendo e trascinando via vite, sogni, oggetti e segreti, Nami, malgrado non abbia indizi, decide di partire per andare alla ricerca di quelle tre macchie rosse e di quella voce che da piccolo lo coccolava.
Nel suo rocambolesco viaggio vedremo Nami farsi uomo (da Larva a Imago) e di peripezia in peripezia, infine, sanguinante, scalfito, levigato, lo vedremo tornare a Boros, per poter chiudere così il cerchio della sua affannata ricerca.
Lo stile è accuratamente asciutto, rugoso, frutto di un raffinato lavoro di erosione e affilamento, che accresce la forza narrativa del testo; il tutto accompagnato da una dose, mai eccedente, di lirismo.
Insomma: solo come i grandi autori sanno fare, Bianca Bellovà, resta in ombra facendosi serva della storia, in un libro che ha la potenza del romanzo storico, seppur non essendolo affatto, e l’affilatezza del romanzo di denuncia, senza mai essere pedante.
Insomma. Un romanzo che è un piccolo capolavoro. Che farei leggere in tutte le scuole e che consiglierei a chiunque, a prescindere dai gusti e dall’età.
(I complimenti alla traduttrice Laura Angeloni, immensa; e grazie a chi questo libro lo ha portato in Italia, Alessandro De Vito e Mendo Fabio Mendolicchio; e infine grazie ad Angelo Di Liberto, che come al solito consiglia e spaccia libri pazzeschi).

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La playlist che ho associato a questo romanzo, come sempre spazia diversi generi. Ci tengo a precisare che non ho preso in analisi il significato dei testi delle canzoni, ma mi sono lasciato ispirare solo dalla musicalità, considerando la voce come uno strumento.
Inoltre vi avviso che nella didascalia canzone per canzone vi sono numerose anticipazioni.

Ecco dove ascoltare la playlist: https://open.spotify.com/user/11138896871/playlist/2SMZcXurr11uZo3kdALKgO

1) Outro (Preludio al ritorno) – Nefesh: Questo brano a mio avviso s’intona bene al romanzo. E’ un preludio. Tutto deve ancora accadere. Cinematograficamente è come se stessimo vedendo il Lago dall’alto, ancora immenso, prosperoso, che bagna la Capitale brulicante di vita e tutti gli altri villaggi sparsi sulla riva. Le case, viste da quassù, son puntini. Poi lentamente la cinepresa scende, sino a lambire la superficie increspata del Lago, e comincia a muoversi a fior d’acqua alla volta di Boros. Raggiungiamo così le barche attraccate nel porto, troneggia la rupe di Kolos, e cominciamo a risalire la via centrale, polverosa, che risale la collina dove sorgono le casupole dei pescatori, case in muratura, solide, di solito a un piano solo, tranne un paio che ne hanno due. Ed è proprio su una di queste che la ripresa tergiversa, sino a fermarsi sull’uscio. E’ la casa ove Nami vive insieme ai nonni. E con la fine della traccia, il video sfuma.
2) Gobi road (acoustic) – Tengger Cavalry: Minuscola cavalcata sonora vagamente nostalgica e vagamente noiosa (come possono essere noiosi certi pomeriggi d’estate in un minuscolo villaggio di pescatori) con la quale si entra nel vivo della narrazione. Con questa traccia in sottofondo Nami lentamente da Uovo si fa Larva, e flash veloci si rincorrono. Le prime immagini sono di un Nami fanciullo, è tra le braccia del nonno che immergendolo nel Lago quasi lo affoga, poi le favole che gli narra la nonna sullo Spirito del Lago, il Giorno della Pesca interrotto da un nubifragio, il nonno disperso insieme ad altri pescatori, la scuola, le prime scaramucce fra compagni, Zaza, il primo invaghimento, e la nonna issata su una zattera data in pasto al Lago, il presidente del kolchoz che s’impossessa della casa ove vive Nami, i colpi a sangue, le notti nel pollaio, i russi che violentano Zaza sotto gli occhi impotenti di un Nami adolescente, e infine la decisione di quest’ultimo di partire per la Capitale, alla ricerca, senza un indizio che sia uno, di quelle tre macchie rosse di un costume.
3) Aerials – System of a down: Nami, dopo un viaggio di nausea e febbre a bordo di un battello, giunge nella Capitale. E’ lì, in piedi, Larva, appena sbarcato. Davanti a sé un mondo nuovo. Sbalordito spaurito spaesato speranzoso, comincia a muovere i primi passi. Ma presto la Capitale lo inghiotte, e di nuovo flash rapidi che si rincorrono. La fila alla Borsa del lavoro, notti trascorse all’addiaccio, l’attesa, poi lavori estenuanti che lo riconsegnano alla vita sfinito, senza più forze, il Bordello Sinfonia, le lunghe passeggiate senza meta alla vana ricerca di quelle tre macchie rosse di un costume, un collega che diventa quasi un amico, ma che presto perde, come perde diversi lavori tra cui quello di tuttofare di Johnny, esperienza lavorativa che si conclude quasi tragicamente e da cui viene salvato da Vaska che lo consegna, infine, alla Vecchia dama che, commossa dalle sue gesta, raccoglierà informazioni intorno a sua madre e gli indicherà la via per ritrovarla.
4) Arto – System of a down: Kuce, con questa traccia siamo improvvisamente in mezzo al deserto, in un minuscolo villaggio dedito alla raccolta del cotone. E Nami, Crisalide, qui la ritrova, riabbraccia lo sguardo di sua madre, un madre che stenta a riconoscere, e si abbandona febbricitante alle sue cure. Ma presto la pace raggiunta e quel barlume di felicità si disperdono al vento, come polline. Nami sente che deve tornare a Boros, vorrebbe tornarci con sua madre, ma lei no, al Lago non vuole e non può tornarci, e così, da solo, intraprende il viaggio a ritroso.
5) Summon the warrior – Tengger Cavalry: Un Nami Imago dunque fa rientro nella Capitale, che nel frattempo è sfigurata, ammutolita, con carcasse di automobili bruciate al bordo delle strade e pattuglie russe che han dovuto sedare rivolte autoctone. Il Lago continua la sua inesorabile ritirata, mentre tutto si fa decadente, compresa la villa della Vecchia dama, dove Nami alloggia per un po’, il tempo di farle fiorire una rosa bianca per poi ripartire alla volta di Boros. Questa volta a piedi, masticando forse rabbia, pensieri, e poco cibo; Quando giunge però (ri)trova una Boros che sotto le sferzate inesorabili del tempo quasi non riconosce. Sconforto, rabbia, impotenza, stanchezza. Rivede anche Zaza, incinta, che nel frattempo s’è fidanzata con Alex, suo ex-compagno di scuola, e infine, tornando nella sua vecchia casa vi trova ancora il presidente del kolchoz. Sta poco, giusto il tempo di raccogliere informazioni sul suo presunto nonno paterno, e riparte.
6) Ceasuri Rele – Negura Bunget: Con questa traccia m’immagino Nami, di notte, davanti al Lago. Non vi è alcuna descrizione di questa scena nel libro, è mia immaginazione. Ma mi sembra di vederlo, Nami, innanzi a questa entità sempre presente nella sua vita, il Lago, un protagonista a tutti gli effetti (che a tratti sembra quasi il suo antagonista), che respira davanti a lui, tenebroso, emaciato. E Nami piange, singhiozza, si lamenta, gli parla, e urla, liberatorio, disperato, rabbioso, rivolgendosi allo Spirito del Lago, o forse a sé stesso. O forse a nessuno.
7) Against the nature – Gogol Bordello: Infine, il finale. Anche questo di mia immaginazione. Capita infatti che finito di leggere un libro, di quelli che restano e sedimentano, si continui a fantasticare intorno a questo, abbozzando finali quando questi son aperti, o semplicemente fantasticando sul futuro dei personaggi. Io, finito di leggere questo libro, mi sono immaginato questa scena. Mi sono immaginato che Nami, dopo averlo conosciuto, resta a vivere col presunto (anche se poi non sembra esserlo) nonno paterno. E mi sono immaginato che quasi tutti i giorni, dopo essersi immersi insieme nel Lago alla ricerca di oggetti, corpi, ricordi, frammenti di vite, e dopo aver mangiato insieme pane fritto e uova strapazzate, si siedono in riva al Lago, al tramonto, suonando e canticchiando insieme questa canzone: Against the nature.

PONTESCURO secondo la lettura di Carlo Borgogno della libreria Milton di Alba

PONTESCURO secondo la lettura di Carlo Borgogno della libreria Milton di Alba

Era da tanto tempo che leggendo un libro non mi ritrovavo a sentire nitidamente dei rumori. Luca Ragagnin è riuscito a restituirmi questa bellissima sensazione. In Pontesuro tutto parla, direttamente, o come nel mio caso, lasciandoti una sensazione. Così la nebbia, gli uccelli, il ponte il fiume, gli insetti mi restituiscono un mondo, un tempo, rumori e colori che incoraggiano la fantasia e mi guidano nel loro universo. Ne riemergo commosso e scosso.

Un gran bel corollario è costituito anche dai disegni di Enrico Remmert. Semplici, divertenti ed efficaci!

Pontescuro è una favola nera, indaga la malvagità dell’animo umano senza sconti; la scrittura di Luca è precisa e potente, colta e avvolgente. Come i suoi personaggi ti accompagna senza ergersi a protagonista e, lasciandoti cullare, ti ritrovi a piangere e ridere, ad amare e a odiare.
Si potrebbe pensare ad un mondo senza luogo e senza tempo, ma un luogo ed un tempo ci sono eccome, seppur non invadenti, ad ammonirci col ricordo di tempi scuri.
Un’ultima cosa: non avessi saputo l’identità dell’autore avrei attribuito questo romanzo a Leskov o a Gogol, e per me beh…

Vi lascio con un consiglio: Pontescuro a differenza di tanti libri si può leggere anche la sera, prima di addormentarsi, perchè accende sogni pieni di gioie e di lacrime che fanno bene al cuore.

Carlo Borgogno

Libreria Milton
Via Pertinace 9/c
12051 Alba (Cn)

+39 0173 293444

LA REALTÀ PURA – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

LA REALTÀ PURA – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

AUTORE: RICCARDO DE GENNARO
GENERE: ROMANZO
EDITORE: MIRAGGI
ARTICOLO DI: RAFFAELLA ROMANO

Carlo Gozzini riflette sulla sua relazione con la bella e provocante Blandine: se ne rende conto, è un cumulo di macerie. Hanno trascorso insieme cinque anni, tra pochi alti e molti bassi, hanno costruito qualcosa solo per poi distruggerlo, hanno corso insieme, a perdifiato, solo per ritrovarsi improvvisamente e inevitabilmente al punto di partenza. Alla fine, soli. E infelici: lei sicuramente dato che si trova in cura presso una clinica psichiatrica. Lui non la può vedere, ma se la immagina camminare tra le altre pazienti afflitta e incompresa, senza mai rivolgere la parola ad alcuno, mantenendo quella freddezza da attrice consumata che tanto ha amato Carlo. A lui non va certo meglio. Non fa che pensare a Blandine, alla sua bellezza e a quanto gli manca, ai momenti passati insieme; in più, anche lui è controllato. Non da medici ed infermieri come la sua amata, ma da un Uomo che da qualche tempo lo sta pedinando. L’Uomo indossa una giacca di pelle nera, occhiali con la montatura argentata, una berretta di lana ficcata in testa, spesso ha un giornale sotto il braccio. Non fa molto per nascondersi, e Carlo lo spia a sua volta, dalla finestra di casa; crede che la base dell’Uomo e della organizzazione di cui fa parte sia proprio quell’edificio di fronte alla sua abitazione…

Annoso problema quello della realtà. Esiste una realtà oggettiva e veritiera, indipendente dal soggetto che la osserva oppure esistono tante realtà quante sono i soggetti pensanti? Ed è la mente che crea quanto ci sta intorno, la cultura da cui proveniamo, le nostre esperienze oppure dovremmo, al contrario -o proprio per questo- affidarci ai nostri sensi e alle nostre percezioni, le uniche che possono svelarci ciò che siamo e cosa stiamo vivendo? Se cominciamo a riflettere su cosa sia La realtà pura , entriamo in un vortice di pensieri dal quale difficilmente usciremo con la soluzione in tasca. La stessa sensazione estraniante e di appannamento la si prova leggendo questo romanzo di De Gennaro – fondatore e direttore della rivista trimestrale “il Reportage” – non a caso presente nella sezione Scafiblù di Miraggi (collana dedicata a romanzi italiani disobbedienti e controcorrente). E non è la scrittura a creare questo senso di annebbiamento, che al contrario è essenziale, pulita, diretta, ma i significati sottesi alla trama, anch’essa semplice ma impregnata di significati a diversi livelli di interpretazione. Il romanzo ha un finale ad effetto, piano piano si capisce quanto siamo artefici della nostra felicità e nello stesso tempo avversari di noi stessi, protagonisti e antagonisti del romanzo della nostra vita.

Qui l’articolo originale: http://www.mangialibri.com/libri/la-realtà-pura

A Praga la banalità del male s’incarna nel travet dell’ufficio cremazione – di Steve Della Casa su TUTTOLIBRI La Stampa

A Praga la banalità del male s’incarna nel travet dell’ufficio cremazione – di Steve Della Casa su TUTTOLIBRI La Stampa

Nella città che prepara l’annessione alla Germania nazista, un bonario impiegato diventa un serial killer del regime trovando giustificazione nella cultura tibetana: uscito ai tempi della Primavera cecoslovacca, il romanzo divenne celebre anche per il film di Jurai Hertz

STEVE DELLA CASA
Categoria: Narrativa
Titolo: Il bruciacadaveri
Editore: Miraggi
Traduzione: Alessandro De Vito

Se in Italia si conosce Ladislav Fuks, uno dei nomi più importanti della cultura mitteleuropea del 900, questo è dovuto soprattutto a due fattori. Uno è lo straordinario film L’uomo che bruciava i cadaveri, girato nel 1969 da Juraj Herz, vincitore del primo premio al festival di Sitges e uscito da noi quando l’attenzione di tutti era puntata su quell’esperimento di «primavera praghese» interrotto dai c…continua

Pontescuro – Le verità nascoste nella vita di un paese – di Angelo Di Liberto su La Repubblica Palermo

Pontescuro – Le verità nascoste nella vita di un paese – di Angelo Di Liberto su La Repubblica Palermo

Billy e Pontescuro”

Gentili lettori,
quanti modi ci sono per raccontare un luogo? Forse sarebbe necessario comprendere cosa sia in realtà un luogo al di là della sua posizione geografica e della cultura che lo permea. Arrivare alla conclusione che si tratti di una dimensione evocativa ancor prima che manifesta, così come la scrittura, la cui grandezza consiste nel riuscire a evocare l’assenza di ogni cosa.
Secondo Borges qualsiasi luogo è archeologico, perché se scavassimo vi ritroveremmo tutte le rovine di costruzioni antiche e i sedimenti del pensiero di chi lo ha abitato. Va da sé che anche il corpo sia il luogo dell’archeologia, con il suo corredo cromosomico, semantico, simbolico.
Non esiste dunque un posto in cui non sia chiara la connotazione umana di chi lo ha attraversato, almeno nella letteratura.
Per far sì che ogni vita non sia confine ma linea infinita, i luoghi cambiano non solo in virtù dell’occhio dell’osservatore, ma soprattutto nella penna di chi li ricompone. La semiologia di uno spazio diventa l’anticamera del reato e l’emblema di chi lo attraversa o lo abita.
Ma come si può riuscire a rappresentare la sempiterna coscienza degli sterminati orizzonti della colpa che nascono a partire da “quel” luogo? In fondo ogni paese è la sintesi della sua capacità a rigenerarsi, a rendersi competitivo, epitome di un cambiamento di prospettiva.
“Pontescuro era il mondo configurato dopo la fine di ogni mondo conosciuto”, scrive Luca Ragagnin in un libro dal titolo, per l’appunto “Pontescuro”, edito da Miraggi edizioni e candidato in prima istanza al Premio Strega 2019.
Si tratta di una storia corale in cui il luogo è sostanza di ogni atto formale, di ogni più piccolo anelito. Pontescuro nasce, prima ancora che come paese, nella struttura di un ponte insicuro. L’uomo che l’aveva costruito è pervaso dai dubbi sulla sua stabilità e il diavolo, messosi a servizio, ne garantirà la tenuta.
“La tua opera si chiamerà Pontescuro”, gli disse “e così il paese che gli sorgerà intorno. A nessuno dei tuoi uomini capiterà nulla di male. Moriranno di vecchiaia e di stupidità, e tu non farai una fine diversa. Io posso aspettare le nuove generazioni”.
Pontescuro nasce con queste prerogative e la nebbia che lo avvolge è protagonista delle vicende. Ogni voce che l’io narrante sgranerà sarà la posta di un rosario di perdizione. Tutti i personaggi sono Pontescuro e Pontescuro è tutti i suoi personaggi. Persino Dafne Casadio, la figlia del ricco Cosimo Casadio, che conoscerà carnalmente gli uomini del paese, prendendo da loro il piacere e la rudezza.
Persino la ghiandaia, lo scarafaggio, il vento e il fiume parlano agli uomini, perché ciascuno di questi elementi è il mondo. Sottoterra le creature striscianti, nel cielo i volanti, per mare i nuotanti. Vite che analizzano altre vite; esistenze impercettibili che contrappuntano uomini e donne e fungono da presagio.
Un giorno Dafne viene trovata morta strangolata e al collo è stretto un nastro rosso, uno di quelli che Ciaccio, lo scemo del villaggio, utilizza per adornare i rami degli alberi, tanto che da lontano il verde delle foglie è imporporato dalla stoffa.
Inutile dire che i sospetti ricadranno su di lui e che verrà chiamato l’ispettore Eugenio Romanelli per fare luce sull’accaduto.
“Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore. No, non quel sentiero, prendete a destra. Sì, questo. Fate attenzione, si scivola. No, non è ancora acqua, gli argini del fiume tengono bene. E anche se mi piacerebbe, se farebbe di me ciò che in vita non sono riuscita a essere, non sono nemmeno le mie lacrime”.
Ma se pensate che il fulcro della vicenda sia lo scioglimento dell’enigma, vi sbagliate.
Luca Ragagnin scrive un libro di inquietante bellezza in cui ogni cosa non è ciò che sembra e utilizzando la potenza della parola per semantizzare il destino.
L’epica della sua narrazione si snoda in un’inarrestabile caduta libera di gesti, azioni, pensieri nitidi, immagini rarefatte in cui il giudizio è sospeso e la lingua, semmai, funge da strumento ottico d’ingrandimento dell’umano.
E mentre Ciaccio è introvabile, i suoi passi sono conferma di un’avvenuta liberazione dalla colpa. La memoria di ciò che è stato servirà, perché “tutto ciò che si smarrisce o si vuole dimenticare, le parole scartate, i passi non compiuti, le scelte non fatte, un giorno emergeranno dalla corda dell’orizzonte e prenderanno il posto del sole”.
L’Antiquario vi saluta.

Angelo Di Liberto