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Giangilberto Monti è uno dei massimi conoscitori di Boris Vian. Con il suo nuovo lavoro – Boris Vian, il Principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés – ha scelto la via del docu-romanzo per raccontare un artista unico (scrittore, poeta, autore di canzoni, musicista: ma soprattutto un genio di un’epoca irripetibile) che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento per molti.

Monti, perché oggi Vian è ancora così importante?
«Per la contaminazione tra le arti, la capacità di anticipare la realtà, la lucidità intellettuale. E la grande sperimentazione linguistica».

Qual è stato il tuo primo incontro con Vian?
«Erano i primi anni Novanta. Mi trovavo a casa di Riccardo Pifferi – autore e regista – con il quale stavo scrivendo uno spettacolo. A un certo punto mi ha consigliato di leggere Textes et chansons, un tascabile antologico di Vian. Da lì ho iniziato a interessarmi ai suoi lavori e mi sono reso conto di quanto la mia carriera fosse affine alla sua».

A quali conclusioni sei giunto?
«Intanto che lui è molto più bravo di me… (risata). Diciamo che è diventato una sorta di alter ego intellettuale. Le sue idee sulla musica, sulla politica, sull’arte in genere, sono quelle che ho sempre avuto io. Una specie di specchio. Ma molto più bravo di me…».

Se dovessi indicare a chi non lo conosce come accostarsi a Vian, cosa suggeriresti?
«I romanzi La schiuma dei giorni e Sputerò sulle vostre tombe. E poi ascoltare del jazz. E non avere preconcetti, essere politicamente scorretti. Come diceva Jobs, essere molto affamati».

Vian era affetto da una cardiopatia congenita: sapeva che la sua vita era a tempo. Pensi che questo abbia inciso nel suo inesauribile attivismo?
«Quando hai la percezione della malattia e che il tuo tempo è molto importante, cerchi di riempirlo in tutti i modi possibili perché ogni minuto è prezioso».

Artista ma anche dirigente del reparto discografico jazzistico della Philips: come vivono queste due anime in Vian?
«Un artista vero delega molto difficilmente. Michelangelo trattava personalmente col Papa la propria paga quando gli chiedeva di finire il Giudizio universale. Ma credo sia normale, perché si vuole avere il controllo totale: un artista desidera che appaia esattamente quello che lui ha pensato di far arrivare».

Boris Vian è anche al centro di un tuo spettacolo…
«Sì, riprendo canzoni che ho tradotto e registrato e racconto la sua vita in uno spettacolo di narrazione musicale».

Operazione che stai portando avanti anche con le canzoni di Dario Fo: un libro, pubblicato l’anno scorso, e un disco, che uscirà a marzo.
«E’ la mia cifra stilistica. Sul Dizionario della canzone italiana diretto da Renzo Arbore e edito dalla Curcio, alla voce Monti Giangilberto si legge: Non è mai diventato famoso per la sua scelta di sperimentare continuamente generi e stili musicali e in questo rispecchia la sua generazione, quella cresciuta artisticamente negli anni Settanta. La mia è una concezione totalizzante dello spettacolo: la performance è un evento unico, che mescola tutto. Una sorta di comunicazione incrociata: contaminata, come si usa dire adesso. Ma noi lo facevamo già quarant’anni fa…».