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Karel Čapek – focus sull’autore ceco del professore Alessandro Catalano su Modus legendi

Karel Čapek – focus sull’autore ceco del professore Alessandro Catalano su Modus legendi

Karel Čapek e la pandemia letteraria del 1937 come sintomo della catastrofe incombente

“In Cina, caro mio, quasi ogni anno spunta fuori qualche nuova malattia interessante” è la battuta, dal tono vagamente premonitore, pronunciata da un cinico personaggio del testo teatrale Bílá nemoc (La malattia bianca), portato sulle scene a Praga nel 1937 da Karel Čapek (1890-1938). Come in tutte le opere dello scrittore ceco che, tra le altre cose, ha creato il personaggio letterario del robot, il fantastico irrompe nella quotidianità con tutta la sua carica di devastazione, come purtroppo avviene in occasione di ogni pandemia imprevista e sconvolgente. Dopo un sofferto dialogo con pesanti toni da tragedia medievale tra tre appestati, il vanitoso consigliere di corte Sigelius, nel corso di una autoreferenziale intervista propagandistica, spiega a un giornalista la natura della pandemia in corso: la malattia infettiva morbus tschengi (dal nome del medico cinese che l’ha descritta per primo), trasmessa “da un agens ancora ignoto”, contagia le persone con più di 45 anni, si manifesta con l’insorgere di macchie bianche sul corpo e ha già portato alla morte “almeno cinque milioni di persone”. Legata alla cupa atmosfera della fine degli anni Trenta, La malattia bianca rappresenta molto più che la dissoluzione di una società, affrontando il complesso problema del legame tra pandemia e svolta autoritaria. Čapek cerca affannosamente un artificio letterario per combattere la vertiginosa ascesa della dittatura militare in un bellicoso paese limitrofo, ricorrendo a un sofisticato rovesciamento del tema della degenerazione della razza, visto che a venire colpiti dal nuovo morbo sono proprio gli uomini dalla pelle bianca.

Il caso dello scrittore ceco non è certo nuovo e, com’è noto, le epidemie hanno offerto ripetutamente, nella storia recente e più remota, lo spunto per raccontare il crollo delle società e la disperazione individuale di fronte all’improvvisa diffusione di un nemico subdolo e invisibile. Spesso portata dall’esterno da inconsapevoli untori, poi liquidati come capri espiatori, la pandemia si è dimostrata uno strumento letterario potente per disegnare mondi distopici attigui al nostro, senza dover inventare complesse società sviluppatesi dallo sfruttamento di mirabolanti scoperte scientifiche o in conseguenza di incredibili viaggi intergalattici. Spesso metafore di derive ideologiche e sociali, le epidemie sono state sfruttate da scrittori molto diversi tra loro, da Daniel Defoe ad Albert Camus, passando per Edgar Allan Poe, Alessandro Manzoni, Jack London e molti altri. Ma, nelle società occidentali, in tempi recenti le pandemie sono tristemente tornate di attualità anche come fenomeni reali, rendendo nuovamente attuali testi e pellicole di molti anni fa.

Non c’è troppo da meravigliarsi che uno scrittore come Karel Čapek, da sempre legato al tema del difficile rapporto tra scienza e potere, abbia sentito, nel 1937, l’esigenza di scrivere un’opera teatrale in cui l’epidemia si fa metafora delle preoccupanti pulsioni totalitarie della vicina Germania. Sintomatiche delle preoccupazioni di molti intellettuali cechi, dopo l’ascesa di Franco in Spagna e la generale militarizzazione europea, sono anche le illustrazioni, opera del fratello dell’autore, il pittore Josef Čapek, tratte dal ciclo Gli stivali del dittatore, anch’esso del 1937. Nella Malattia bianca il tema della contrapposizione tra dittatura e democrazia si fonde in modo originale con quello della diffusione incontrollata della pandemia e della lotta per il dominio del pianeta per sollevare un profondo e sostanziale interrogativo: è lecito sottoporre i potenti del mondo a un “ricatto pacifista”, negando loro la cura di una malattia spaventosa, a meno che non rinuncino alle guerre?

Gli stivali del dittatore

Va ricordato che Karel Čapek aveva scritto un primo “ciclo” di opere a carattere distopico tra il 1920 e il 1924, in cui scoperte di carattere scientifico-alchemico alteravano l’ordine naturale delle cose, provocando la rovina del mondo. Nella fortunatissima opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), di recente pubblicata in una nuova traduzione da Marsilio, aveva presagito l’introduzione nel mercato dei robot (in realtà sotto forma di androidi) che avrebbero dovuto affrancare l’uomo dal lavoro, creando un neologismo, in verità coniato dal fratello Josef a partire dalla parola ceca robota (lavoro servile, fatica) destinato a un incredibile successo.Poco dopo i palcoscenici mondiali hanno accolto con favore anche Věc Makropolus(L’affare Makropulos, 1922), messo in scena con grande successo anche in Italia da Luca Ronconi, in cui la scoperta dell’elisir della lunga vita rappresenta in realtà un pretesto per indagare i problemi connessi al desiderio di liberare l’uomo dalla morte. Nello sperimentale romanzo-feulleiton Továrna na absolutno(La fabbrica dell’assoluto, 1922), di cui Voland ha appena proposto una nuova traduzione, protagonisti sono invece degli stupefacenti “carburatori” nucleari che producono come materiale di scarto nientemeno che l’assoluto, la divinità, con il conseguente stravolgimento di ogni valore umano. Questa serie è stata chiusa da Krakatit (Krakatite, 1924), che finalmente Miraggi ha presentato per la prima volta anche ai nostri lettori sanando uno dei maggiori debiti dell’editoria italiana. Quest’ultimo romanzo vede il febbrile protagonista Prokop, scopritore di un devastante esplosivo basato sulla fissione nucleare, alle prese con la concreta opportunità di poter dominare il mondo. Se in tutte queste opere l’unica possibile soluzione al conflitto era la distruzione della scoperta che aveva provocato lo stravolgimento dell’ordine e il conseguente ritorno alla vita “naturale”, molto più cupo sarà il finale del secondo ciclo di opere utopiste della seconda metà degli anni Trenta. Del romanzo 1936 Válka s mloky (La guerra delle salamandre), uno dei testi in assoluto più noti di Čapek, esistono varie edizioni della stessa traduzione italiana, particolarmente preziosa è quella del 1961, arricchita dalle curiose illustrazioni di Tono Zancaro. Il romanzo riprende in una nuova forma sperimentale la formula dei robot, dando vita però all’evoluzione di un nuovo alter ego dell’uomo dalle caratteristiche ridotte e alterate, ideale per essere sfruttato a fini lavorativi e bellici. Il fossile di una grande salamandra estinta, all’inizio erroneamente attribuito da Johann Jacob Scheuchzer, nel 1725, a “un uomo che fu testimone del Diluvio universale” offre a Čapek la straordinaria opportunità di analizzare il totale fallimento dell’uomo nel rapporto con questo essere dalla “natura golemica e diabolica” (G. Giudici), che lo priverà progressivamente di ogni spazio vitale.

La malattia bianca, pubblicata dalla rivista Sipario nel lontano 1966 in un numero speciale dedicato al teatro cecoslovacco e mai più riproposta in italiano, porta invece sul palcoscenico un insolito scontro tra le pulsioni totalitarie della società e il curioso tentativo di imporre l’utopia della pace. Il medico Galén, ennesimo nome “parlante” dell’opera di Čapek, è infatti l’unico in grado di curare la pandemia ma, in cambio del siero, pretende dai potenti del mondo l’impegno a rinunciare alla guerra (“E io non la darò finché… finché non mi prometteranno che non si ucciderà più”). L’irremovibilità del medico, in evidente contrasto con il suo giuramento, incontra comunque il netto rifiuto del dittatore: “Non possiamo mica permettere che un qualsiasi utopista c’imponga le sue condizioni!”.

In un’atmosfera di febbrile militarizzazione e fabbriche a pieno servizio dell’industria bellica, di produzione di gas tossici e proposte di rinchiudere i malati in campi di concentramento, un inquietante Maresciallo vuole realizzare la sua “missione superiore” nell’interesse del suo popolo, e sta per proclamare la guerra contro “quel piccolo, miserabile staterello che aveva creduto di potere impunemente provocare e offendere il nostro grande popolo”. Il contesto non può naturalmente non richiamare la contrapposizione tra la piccola Cecoslovacchia democratica e la Germania nazista, che da lì a poco avrebbe portato alla fallimentare Conferenza di Monaco, che Čapek ha commentato infatti con queste amare parole: “non ci hanno venduti, ci hanno dati in regalo”. Non stupisce dunque che La malattia bianca, in modo alquanto inconsueto rispetto alla produzione dell’autore ceco, si chiuda senza alcuna speranza: quando il Maresciallo malato sembra deciso a proclamare la pace, Galén resta schiacciato nella ressa mentre sta andando a portargli la medicina. Il passo indietro del dittatore è quindi impedito da una folla ottusa che grida “Un traditore di meno. Gloria al Maresciallo!”.

Se Krakatite è un romanzo-mondo, che attira il lettore in un vortice di temi e stili diversi, anche La malattia bianca, diviso in tre atti intitolati “Il Consigliere di Corte”, “Il barone Krüg” e “Il maresciallo”, è un’opera che osserva le vicende da punti di vista divergenti e con cambiamenti di scena repentini. I tre atti possono essere infatti letti come i frustranti incontri/scontri di questo “bambinone”, com’era scherzosamente chiamato Galén da giovane, con la scienza, la grande industria e lo stato militare, in un momento di evidente deformazione del funzionamento delle società moderne. E qui il Maresciallo, il grande imprenditore Krüg (dal tedesco Krieg, la guerra), lo scienziato Sigelius (dal tedesco Siege, la vittoria) e la folla ideologizzata testimoniano il fallimento di un’intera società, chiaramente modellata su quella tedesca, anche se in Čapek non mancano mai i riferimenti al modello originale delle dittature degli anni Trenta, il fascismo italiano. Con grande gusto l’autore ceco si sofferma in particolare sulla malleabilità della scienza di fronte alle pulsioni totalitarie, offrendo una mordace satira del servilismo e sciovinismo di quelle classi intellettuali che, in un articolo, ha definito “prostitute dei regimi contingenti e delle loro ideologie”, vendutesi per “un piatto di lenticchie”. Ciò che sta a cuore all’autore è infatti il confuso legame tra populismo, potere e malattia, che tristemente vediamo all’opera anche nel tempo presente.

A questo piano della “grande storia” si alterna la storia privata di una famiglia normale, grazie alla quale l’autore, attraverso il carrierismo del padre, può rappresentare la pandemia anche come bieca occasione di guadagno economico e sociale. Non a caso alla fine proprio il figlio sarà uno dei capi della folla che provoca la morte di Galén, questa sorta di Don Chisciotte dell’epoca totalitaria. Figura dai tratti di un messia, obiettore di coscienza a qualsiasi costo, quest’ultimo è un cittadino greco naturalizzato, ex assistente universitario, ora medico della mutua per via della sua origine sospetta, non è un grande arringatore di folle, anzi spesso si limita a ripetere frasi semplici («ma davvero non è possibile»), e si comporta come uno straniero che osserva, suo malgrado, una società malata. La sua scoperta del siero permette a Čapek di sviluppare il tema del singolo che tiene in scacco l’intera umanità: nella prefazione ha ricordato che era stato un amico dottore a suggerirgli l’idea di un medico che scopre nuovi raggi potentissimi in grado di distruggere i tumori, cosa che dà presto allo scienziato un potere assoluto. Quello della responsabilità della scienza è del resto un tema che Čapek ha affrontato ripetutamente, in quest’opera rovesciando l’assunto di Krakatite: se lì era stato tratteggiato l’angosciante dilemma interiore di chi potrebbe diventare dittatore assoluto del mondo, qui è invece un medico che cerca di utilizzare il suo potere per il bene dell’umanità intera.

Se nella versione manoscritta dell’opera il medico si chiamava Herzfeld ed era ebreo, a testimonianza della critica espressa nella prefazione (“non più l’uomo, ma la classe sociale, lo stato, la nazione o la razza è ora portatrice di tutti i diritti”), nella versione definitiva il rimando è stato spostato dall’autore verso la cultura greca. Com’era già avvenuto in R.U.R. e Krakatite, la perdita dell’eredità classica segna infatti, nella nostra storia e nella nostra cultura, una cesura di tali proporzioni da spalancare la strada alla barbarie. L’ingenuo tentativo di Galén di sfruttare l’influenza sociale delle élite per ottenere la pace a ogni costo, contrapponendosi al vero dittatore ed ergendosi a medico-dittatore e fanatico della pace, termina però con un completo fallimento. Come purtroppo vediamo anche ai giorni nostri, conoscere i sintomi di una malattia, come a volte la letteratura è in grado di fare con grande anticipo rispetto alla scienza, non significa certo aver trovato una cura. Da questo punto di vista Galén è stato quindi giustamente considerato la «prima vittima della Seconda guerra mondiale».

Come spesso avviene nel caso delle opere letterarie dense e polisemiche, anche La malattia bianca assume oggi una serie di nuovi significati e si colloca in modo originale nella linea di opere letterarie centrate sulle pandemie che abbiamo tratteggiato. L’intera opera di Karel Čapek è infatti a lungo rimasta nell’ombra di una precisa linea evolutiva della distopia che, per semplificare, viene di solito descritta lungo la direttrice Wells-Zamjatin-Huxley-Orwell. Lo sperimentalismo con i generi letterari, il rifiuto del finale distopico e la mancata descrizione della società del futuro, collocano di per sé l’opera di Čapek in una posizione diversa. Anche se naturalmente non sono pochi i punti di contatto con molte importanti distopie della cultura occidentale, merita qui di essere citato almeno il film Vita futura (1936), con sceneggiatura di H.G. Wells, in cui un mondo distopico sconvolto dalla seconda guerra mondiale è attraversato in un lontano futuro da un’epidemia devastante («la piaga errante»).

Va inoltre ricordato che La malattia bianca rappresenta per Karel Čapek un ritorno al teatro dopo una pausa di vari anni, legato evidentemente alla necessità di far tuonare nuovamente la sua voce sul palcoscenico, nella sua concezione dello spazio teatrale come un pulpito da cui ammonire l’umanità. Le prime notizie su una nuova opera teatrale risalgono al dicembre del 1936, e il testo è stato pubblicato e messo in scena per la prima volta, a Praga e a Brno, nel gennaio del 1937. La rappresentazione ha suscitato, anche per l’attualità internazionale del tema, un’eco notevole, seguita poi dal conferimento del premio di stato per la letteratura. Uno dei grandi promotori della letteratura ceca all’estero nel periodo tra le due guerre, Max Brod, ne ha subito predetto il sicuro successo internazionale e Thomas Mann ha poi parlato di “successo trionfale” e di una fusione di elementi fantastici e simboli realizzata “con la maggiore vitalità e plasticità possibili”. Meno entusiasta è stato Karel Čapek rispetto alla messa in scena londinese del 1938 (con il titolo Power and Glory), in cui il regista ha deciso di far recitare i ruoli del dottor Galén e del Maresciallo allo stesso attore. Nella rassegnata riflessione affidata a una lettera inviata al Manchster Guardian, Čapek, pure avvezzo al continuo fraintendimento delle sue intenzioni, si è rammaricato della stravaganza di alcuni registi, paragonando l’intervento sulla propria opera a una rappresentazione in cui Otello e Desdemona venissero impersonati dallo stesso attore.

Senz’altro con maggiore interesse deve avere invece accolto la riuscita trasposizione cinematografica, realizzata in tempi brevissimi con gli stessi attori della messa in scena teatrale, anche se con un’importante modifica del finale: il Maresciallo infatti firma la pace e Galén, prima di morire, lascia a un collega la formula della medicina (il film si può vedere sul canale dei classici cechi: https://www.youtube.com/watch?v=HJMUIBEzYnI). La prima proiezione ha avuto luogo il 21 dicembre del 1937 ed è stata seguita, due giorni dopo, dalla vibrante protesta dell’ambasciata tedesca. Non c’è quindi da meravigliarsi se, dopo la conferenza di Monaco, nel novembre del 1938, il film sia stato immediatamente bandito dalle sale cinematografiche, anche se per fortuna, grazie a una copia portata all’estero, siano state poi prodotte le versioni francese e inglese.

Il tentativo di Karel Čapek di richiamare l’attenzione sui cambiamenti antropologici in atto nelle società occidentali e impedire la caduta della Cecoslovacchia era ovviamente destinato al fallimento, come hanno da lì a poco sancito le lugubri parole di Chamberlain nel suo discorso Peace for our Time, in cui, lasciando mano libera a Hitler, rifiutava la guerra “per una lite in un paese lontano, di cui non si sapeva niente”. La morte di Čapek, che ha assunto nel contesto ceco una chiara valenza simbolica, è apparsa qualche settimana dopo, davvero come la fine di un’epoca, anche se forse ha evitato all’autore una fine ancora peggiore. Qualche mese dopo infatti il fratello Josef, uno dei pittori cechi più significativi della prima metà del XX secolo, sarebbe stato arrestato e trascinato nei campi di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen, per morire poi a Bergen-Belsen poche settimane prima della fine della guerra.

Come dimostra la sensazione di assoluto pessimismo con cui termina La malattia bianca, in Karel Čapek si era indebolita la fiducia nella gente comune e nella reale possibilità di fermare l’avanzare del totalitarismo. Anche se la situazione storica è oggi completamente diversa, si tratta di temi tornati di grande attualità ed è sempre più necessario tornare a interrogarsi su quali siano i rapporti tra potere, populismo, fanatismo e pandemia. Il grande potere della letteratura è in fondo proprio quello di anticipare molti problemi prima della loro esplosione e Čapek, negli anni Venti e Trenta, ha sollevato delle questioni nodali che hanno poi angosciato l’immaginario delle nostre culture per tutto il XX secolo. Nel 1937, agli occhi di un autore ceco sulla soglia di una catastrofe che sta per inghiottire tutto il mondo, la risposta è tristemente univoca: nemmeno una pandemia è in grado di bloccare la deriva militarista della società europea e, una volta linciato Galén, il corteo prosegue urlando i suoi triti slogan, “Viva la guerra! Viva il Maresciallo!”.

Karel Čapek (Malé Svatoňovice 1890 – Praga 1938), giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento ed è stato ripetutamente tradotto in italiano fin dagli anni Venti. Grande sperimentatore di nuove forme e generi letterari, ha affrontato nella sua opera temi di grande attualità: l’intelligenza artificiale, l’energia atomica, la diffusione di epidemie etc. Deve la sua consacrazione internazionale all’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), che ha introdotto nella cultura mondiale il termine “robot”. Molto noti sono anche l’opera teatrale L’affare Makropulos (1922), i Racconti da una e dall’altra tasca (1929) e i romanzi La fabbrica dell’assoluto (1922), Krakatite (1924) e La guerra delle salamandre (1936).

QUI l’articolo originale:

https://www.moduslegendi.it/apparati/viscerale/karel-capek-e-la-pandemia-letteraria-del-1937-come-sintomo-della-catastrofe-incombente/

LANGHE INQUIETE – citazione di Enrica Torchio su Un libro a colazione

LANGHE INQUIETE – citazione di Enrica Torchio su Un libro a colazione

“Mio nonno è un uomo giovane e forte e su quella piazza gioca alla palla. La palla si batte col pugno, la palla è grande quanto un’arancia ma pesa come un melone, e mio nonno e gli altri uomini sono a messa e dal fondo, quando il parroco si dilunga, fanno vedere la palla e il parroco si sbriga, conclude in fretta, un pater e un’ ave veloci, poi tutti sulla piazza per la sfida degli uomini giovani e forti.”

Marco Giacosa – Langhe inquiete

“Ma se noi ogni estate continuiamo a mandarlo sulle langhe, per forza finirà col farsi un’anima Fenoglio, anche se alla nascita non ce l’aveva. Quanto a me debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia, nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, quando a scuola ci accostavamo a parole come “atavismo” e “ancestrale” il cuore e la memoria mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.”

Beppe Fenoglio – Ma il mio amore è Paco
ScoutINK 2021 – Primo contest per disegnatori di fumetti – MIRAGGI EDIZIONI

ScoutINK 2021 – Primo contest per disegnatori di fumetti – MIRAGGI EDIZIONI

Contest per 10 tra i migliori talenti emergenti del fumetto italiano, scadenza 31 marzo 2021

Il disegno è la tua passione e hai bisogno di nuovi spazi per esprimere la tua creatività? Sei un autore, sceneggiatore e disegnatore di fumetti? Ecco il modo migliore per valorizzare le tue creazioni ed essere finalmente pubblicato da una casa editrice affermata.

Sono aperte le iscrizioni alla prima edizione del Contest nazionale ScoutINK, la selezione indetta da Miraggi Edizioni, per la collana MiraggINK, che premia 10 tra i migliori talenti emergenti del fumetto italiano. Le 10 storie vincitrici saranno pubblicate in un volume raccolta, distribuito a livello nazionale.

“Una sezione dedicata a tutti i disegnatori, autori e appassionati di fumetti.

Un’occasione unica per mettere in mostra le proprie abilità nell’arte del fumetto!”

QUI per leggere il REGOLAMENTO e fare ISCRIZIONE > https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/scoutink/

Il 10 aprile 2021 saranno proclamate le 10 storie selezionate e il volume sarà ufficialmente presentato in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2021.

Possono partecipare al Contest gli autori/disegnatori maggiorenni (anche in team) la cui opera (storia a fumetti) sia originale. Per iscrivere l’opera al Contest, gli autori dovranno accettare integralmente le condizioni del presente regolamento. Ciascun autore può partecipare al Contest anche con più di un’opera, purché sia autore o co-autore, dell’opera presentata e sia titolare, in via originaria, di tutti i diritti di utilizzazione e sfruttamento, anche economico, dell’opera presentata per le finalità del presente Contest.

Musica solida – estratto sulla Numero Uno su Rockol

Musica solida – estratto sulla Numero Uno su Rockol

Numero Uno: 1969-1974, la storia di cinque anni di successi

La storia della Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti, raccontata da Vito Vita

di Franco Zanetti

Ma questa Numero Uno, nei suoi cinque anni di vita, cos’era, chi c’era, come funzionava? Ce lo racconta Vito Vita, grande esperto di discografia e autore del fondamentale “Musica Solida”, che Rockol ha recensito qui.

Nel 1969 alcune tensioni createsi in seno alla Ricordi tra la sua dirigenza e la coppia formata da Mariano Rapetti e il figlio Giulio, responsabili delle edizioni musicali, condussero alle dimissioni dei Rapetti e di altri personaggi attivi in vari settori della Dischi Ricordi, che fondarono una nuova casa discografica: la Numero Uno. Fu coinvolto anche Lucio Battisti, la cui produzione era stata negli ultimi tempi la maggior fonte d’incasso per la Ricordi: il successo al Disco per l’estate 1968 con Prigioniero del mondo e al Cantagiro nello stesso anno con “Balla Linda”, la partecipazione a Sanremo nel 1969 con “Un’avventura” e il primo posto in hit-parade con “Acqua azzurra, acqua chiara”, senza contare gli hit scritti
per altri artisti dell’etichetta, in primis i Dik Dik e l’Equipe 84. Battisti aveva tuttavia un contratto con Ricordi che sarebbe scaduto solo due anni dopo, per cui – pur facendo parte della proprietà della nuova etichetta – non entrò a far parte degli artisti in catalogo fino al 1971.
La sede fu stabilita in Galleria del Corso 2 a Milano, e per la distribuzione venne effettuato un accordo con l’Rca Italiana.
Il logo verde dell’etichetta, con il numero 1 in bianco su campo arancione, fu disegnato da Guido Crepax, fratello del discografico della Cgd Franco. 


Subito la Numero Uno cercò nuovi artisti da mettere sotto contratto, sia con proposte inedite, sia convincendo artisti già noti a passare sotto la nuova etichetta. Nel primo gruppo rientrava la Formula 3, un complesso appena formato con tre musicisti di esperienza quasi decennale: il romano Alberto Radius, il livornese Gabriele Lorenzi e il turnista napoletano Tony Cicco. Il primo 45 giri della Numero Uno fu il loro “Questo folle sentimento”, brano rock scritto da Mogol e Battisti, che li portò subito in hit-parade, arrivando a vendere 350000 copie.

Fu invece particolare il primo album pubblicato dall’etichetta: “E poi domani ancora”. Anche in questo caso era un’artista debuttante, che però eseguiva testi in piemontese firmati dal giornalista Piero Novelli, cugino del futuro sindaco Diego Novelli, con tematiche legate alla malavita, e musicati dal fisarmonicista Mario Piovano. La sua interprete era Luisella Guidetti.

Come responsabile della promozione della Numero Uno venne assunta Mara Maionchi, proveniente dalla Ariston. Il suo primo incarico fu quello di promuovere il 45 giri della Formula 3 “Questo folle sentimento”, che riuscì a far scegliere da Vittorio Salvetti come sigla del Festivalbar 1969 e da Renzo Arbore come disco da far ascoltare tra le novità a “Per voi giovani”, contribuendo così al traguardo delle 350000 copie vendute.
Tra gli artisti sotto contratto nei primi mesi dell’etichetta ci furono poi Tony Renis dall’Rca Italiana, gli Alpha Centauri, gruppo veronese, Bruno Lauzi dalla Ariston, gli Anonima Sound di Ivan Graziani provenienti dalla CBS, Edoardo Bennato, La Verde Stagione, in precedenza alla Equipe con altre denominazioni, Annamaria Rame dalla Italdisc, i Computers, duo formato dai fratelli Gabriele e Mario Balducci, i Jumbo, Sara (Sara Borsarini), Adriano Pappalardo, Mario Berto e Oscar Prudente, mentre su iniziativa di musicisti all’interno dell’etichetta (Mario Lavezzi, Damiano Dattoli e Sergio Poggi) si formarono i Flora
Fauna Cemento.
Come assistente della Maionchi fu assunta una giovane ragazza, Manuela Mantegazza, che in seguito entrò per un certo periodo nei Flora Fauna Cemento. 
Antonella Camera, segretaria di Mogol alle edizioni Ricordi, fu assunta come responsabile dell’Ufficio Stampa insieme a Claudio Bonivento, mentre il responsabile dell’Ufficio Amministrativo era Antonio Coni, ragioniere proveniente dall’Rca e trasferitosi da Roma a Milano; il grafico di riferimento era Cesare Monti, ma i dipendenti della Numero Uno
non erano certo una moltitudine, come ricorda Franco Daldello:


“Nel momento di massima espansione della casa discografica e delle edizioni musicali, penso al biennio 1971-72, non eravamo in tutto più di dodici persone, e parlo di un periodo in cui, in certe settimane, nella hit-parade di Lelio Luttazzi c’erano quattro o cinque canzoni nostre, tra Battisti, Formula 3, Mina con brani Mogol-Battisti, Lauzi, perché con noi Lauzi vendeva, cosa che non gli era riuscita prima con le altre etichette, ed altri artisti, o comunque canzoni nostre a livello editoriale, come “Vendo casa” dei Dik Dik o “Io vagabondo” dei Nomadi o “La prima cosa bella” di Nicola Di Bari, che è una produzione Numero Uno. Noi, con una struttura tutto sommato esigua, facevamo un fatturato annuo di cinque miliardi e mezzo di lire, ma di lire del 1971-72, che rapportati al giorno d’oggi fanno una cifra enorme, e che non era solo dovuto a Battisti, ma a Lauzi, alla
Pfm, alla Formula Tre, a Pappalardo, nonché alle edizioni”. 

Nella primavera del 1971 Colombini abbandonò la Numero Uno (vendendo le sue quote a Battisti). Colombini portò con sé alla Ricordi Edoardo Bennato, che alla Numero Uno aveva inciso solo tre 45 giri. Nel settembre 1971, scaduto il contratto che lo legava alla Ricordi, Battisti passò alla Numero Uno, debuttando con il 45 giri “La canzone del sole/Anche per te” e registrando negli anni seguenti album e singoli entrati nella storia della musica italiana.

Alla fine del 1971 firmò con l’etichetta la Premiata Forneria Marconi, gruppo nato dall’incontro tra i Quelli, transfughi dalla Ricordi, composto da alcuni tra i più noti session-men milanesi e il flautista Mauro Pagani, proveniente dai Dalton; il debutto della Pfm, così venne chiamato da subito il gruppo dalla stampa, fu con il 45 giri “Impressioni di settembre”/”La carrozza di Hans”, due brani epocali con la collaborazione di Mogol al testo del lato A, a cui fece seguito a gennaio ’72 l’album
“Storia di un minuto”. Il gruppo fu il primo tentativo della Numero Uno di lancio internazionale di un artista, grazie alla collaborazione con la Manticore, l’etichetta fondata in Inghilterra da Emerson, Lake & Palmer.

Il 1972 vide anche la pubblicazione di un 45 giri dell’ex cantante dei Ribelli, Demetrio Stratos, con due brani cantati in inglese “Daddy’s Dream”/”Since You’ve Been Gone”, di cui il primo fu inciso nello stesso anno da Mina con un testo di Lauzi, “L’abitudine”. E proprio alla Numero Uno nacque in Stratos l’idea di formare gli Area, registrando una session per l’album di Alberto Radius da solista del ’72 insieme a Giulio Capiozzo, Patrick Djivas e Gaetano Leandro in un brano intitolato appunto Area.

Nel 1973 Mogol decise di acquistare un vecchio mulino ad Anzano del Parco in provincia di Como, e lo fece ristrutturare per allestire in gran parte di esso uno studio di registrazione all’avanguardia, e nel resto della costruzione le stanze da letto per gli ospiti, i saloni e la cucina, data in gestione ai genitori del batterista Gianni Dall’Aglio: nacque così lo studio il Mulino, che divenne il riferimento per la Numero Uno ma fu usato anche da artisti di altre etichette, come i Pooh. Lo stesso anno debuttò con l’etichetta il cantautore milanese Eugenio Finardi, che pubblicò il suo primo 45 giri con due brani rock in inglese, “Spacey Stacey”/”Hard Rock Honey”, per poi passare alla Cramps. Nello stesso periodo si sciolse la Formula 3 e Radius e Lorenzi diedero vita a un nuovo gruppo, Il Volo, con Dall’Aglio, Bob Callero al basso, Vince Tempera e Mario Lavezzi; vennero pubblicati due album, il primo cantato e il secondo strumentale, ma le vendite non furono soddisfacenti anche per la scarsa promozione.

Alla fine del ’74 Mogol scelse di cedere interamente la Numero Uno all’Rca per 400 milioni di lire e alcuni personaggi dello staff decisero quindi di abbandonare l’etichetta e accettare le proposte di altre label portandosi dietro alcuni artisti: Mara Maionchi passò alla Ricordi e la seguì Gianna Nannini, che era appena entrata come cantante nei Flora Fauna Cemento facendo in tempo a incidere un 45 giri e a partecipare nel ’74 a “Un Disco per l’Estate” con “Congresso di filosofia”; Franco Daldello si trasferì alla Cgd convincendo anche il chitarrista-cantante Umberto Tozzi, che aveva appena inciso con la Numero Uno un album con il suo gruppo, i Data.

Negli anni seguenti la Numero Uno, di fatto diventata una sussidiaria dell’Rca, continuò a pubblicare i dischi di Battisti e di qualche nuovo artista, come il cantautore triestino Gino D’Eliso e Mara Cubeddu, ex cantante dei Daniel Sentacruz Ensemble, ma i più rilevanti furono senz’altro il percussionista napoletano Tony Esposito con “Rosso napoletano” (1975) e “Processione sul mare” (1976) e Ivan Graziani, ex Anonima Sound, con i suoi album storici: “I lupi” (1977), “Pigro” (1978) e “Agnese,
dolce Agnese” (1979).

QUI l’articolo originale:

https://www.rockol.it/news-718206/numero-uno-1969-1974-la-storia-di-cinque-anni-di-successi?refresh_ce&fbclid=IwAR0-0unOyKv9BrcVbRx83hdObV7UBjN1LzveWNsbGUJKDBzjnruKqG-n87o

FRANCESCO FORLANI su Libération (articolo di Claire Devarrieux)

FRANCESCO FORLANI su Libération (articolo di Claire Devarrieux)

FRANCESCO FORLANI, UN POÈTE EN CLASSE TOUS RISQUES

Le «communiste dandy» dévoile son quotidien de prof d’italien dans des collèges d’Eure-et-Loir

Francesco Forlani à Rome, le 11 mars 2012.
Francesco Forlani à Rome, le 11 mars 2012. Photo Marcello Mencarini. Leemage  

Francesco Forlani est un poète italien qui vit en France. Il a fondé une somptueuse revue internationale, SUD, et participe à l’Atelier du roman. Il écrit dans les deux langues. Il est aussi traducteur. Il est vraiment ce qu’on appelle, d’un terme un peu dévalué tant il a été utilisé, un passeur. Entre un passeur, ou un éclaireur, et un pédagogue, il n’y a pas trop de différence, parfois. Par-delà la forêt met en scène Forlani dans le rôle de professeur d’italien qui est le sien depuis trois ans. Le récit, composé de 24 chapitres comme autant de nouvelles, parcourt le petit monde scolaire, de la cour à la classe en passant par la salle des profs, avec un amour du langage qui est poétique, bien sûr, mais, profondément, qui est une forme d’altruisme, d’amour de son prochain. Sans excès, sans démagogie. On ne va pas se plaindre, on va plutôt plaisanter, et jouer le plus sérieusement du monde, pour mieux se faire comprendre.

Après avoir enseigné la philosophie en terminale au lycée français de Turin, Forlani découvre les collèges. «Mon appareillage théorique et didactique avait subi la même révolution qu’un char d’assaut russe transformé en foodtruck après la chute du Mur», écrit-il, sans être pour autant en train de dévaluer la tâche qui se présente. Il s’agit d’un poste réparti sur deux établissements d’Eure-et-Loir, à Dreux et à Anet. Comme il lui manque le permis de conduire qui lui permettrait d’utiliser la voiture qu’il n’a pas, rejoindre les deux endroits où il a été nommé est compliqué. Des collègues secourables – bêtise et inélégance n’ont pas droit de cité dans cette histoire, pas plus que la fatigue ou le découragement – un usage efficace de l’autostop également, pallient l’absence de transports en commun.

Photocopieuse.L’auteur habitant à Paris, les journées de cours commencent avec le premier métro. Les travailleurs de l’aube comme lui, et les exclus qui restent à quai, peuple de la nuit, sont évoqués dans Penultimiles Pénultièmes, un recueil bilingue (1) publié en 2019. «Sur le chemin de la maison j’ai croisé deux pénultièmes. Il y en avait une qui dormait dans la soute, tandis que l’autre scrutait la mer d’asphalte comme un naufragé fouille l’étendue d’eau du regard dans l’attente d’éventuels secours.» Dans Par-delà la forêt, pas le temps de rêver, il faut ruser avec le début et la fin de la sonnerie, parier que la photocopieuse va marcher si on s’en sert au dernier moment. Et, plutôt que s’attarder à contempler ses contemporains, il convient d’abord de maîtriser sa classe, cette forêt de jeunes adolescents.

Forlani a recours à un interlocuteur qu’il tutoie : «Tu sais que je ne te juge pas, et pourtant je sais que tu me juges. Beaucoup de choses ont changé depuis le temps où j’avais ton âge.» Naguère, l’élève craignait de se faire mal voir. Aujourd’hui c’est le contraire. «Car chacun de nous sait très bien que si l’un de vous l’a catalogué comme antipathique, il est fort probable que l’année à venir ne sera pas une promenade de santé, et cela, indépendamment de la matière enseignée.» Autre terrain miné : les parents. «Du jour au lendemain, les parents d’élèves se sont transformés en ennemis du corps enseignant.» Un chapitre attristé est consacré à la tendance à «l’inquisition».

Acronymes irrésistibles. Par-delà la forêt, qui tient son titre des trois mille hectares de bois qui séparent les deux collèges, est sous-titré «Mon éducation nationale». Il peut arriver à Francesco Forlani de philosopher à partir des arbres, mais il ne généralise jamais. A Dreux, il enseigne dans un REP + (Réseau d’éducation prioritaire, les acronymes sont irrésistibles pour le poète), et à Anet dans un collège normal, où les élèves sont majoritairement blancs. Sans se faire d’illusion sur sa mission, il préfère, c’est évident, la mixité du premier.

Un atelier pâte à pizza, un marathon de lecture du Petit Prince dans toutes les langues enseignées dans l’établissement, l’étude comparée de «ta gueule» et «vaffanculo» en passant par «mal di gola», mal à la gorge, qui permet à chacun d’envoyer son voisin se faire foutre en se touchant simplement le cou ou en toussant : le professeur d’italien est apprécié. Il a obtenu de l’inspection le droit de faire cours en chapeau. Il porte un costume clair et une cravate rouge. Il a 50 ans quand le plus vieux des enseignants en a 30. Il se présente volontiers comme un «communiste dandy». Dans la «police familiale» que représente la vie scolaire, il est «l’oncle fantasque venu d’un pays exotique», explique le collègue d’histoire.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://next.liberation.fr/livres/2020/06/19/un-poete-en-classe-tous-risques_1791800

DI SANGUE E DI FERRO – presentazione alla Libreria Milton di Alba in collaborazione con Book Advisor (la voce di Alba.it)

DI SANGUE E DI FERRO – presentazione alla Libreria Milton di Alba in collaborazione con Book Advisor (la voce di Alba.it)

Sabato 27 giugno, alle ore 21, la libreria albese sarà invece in diretta dal cortile interno della libreria con gli amici di Miraggi Edizioni per l’evento Mira-Book, in collaborazione con Book Advisor, per la presentazione dell’ultimo romanzo di Luca Quarin “Di sangue e di ferro”. I partecipanti alle dirette potranno richiedere di ricevere una copia con dedica autografa dell’autore da ritirare direttamente in libreria.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lavocedialba.it/2020/06/22/leggi-notizia/argomenti/eventi-17/articolo/alba-alle-dirette-della-milton-gli-scrittori-niccolo-targhetta-e-luca-quarin.html

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI vincitore del Premio Più a Sud di Tunisi 2020

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI vincitore del Premio Più a Sud di Tunisi 2020

Angelo Orlando Meloni s’impone nella categoria “Calcio e narrativa”

Anche la XV edizione del Premio Nazionale “Più a Sud di Tunisi”, in programma a Portopalo dal 21 al 23 agosto 2020, conferma il binomio tra calcio e letteratura, potenziato a partire dal 2017 dall’appuntamento con l’Osvaldo Soriano Futbol Fest, curato da firme prestigiose del giornalismo e della letteratura legata al futbol.

Angelo Orlando Meloni, autore del libro “Santi poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni), si è aggiudicato il riconoscimento nella categoria “Calcio e Narrativa”. Il libro, uscito l’anno scorso, ha raccolto ottime recensioni.

“Il libro di Meloni è l’occasione, – ha scritto Leonardo Lodato sul quotidiano La Sicilia – un’altra ancora, per parlare di calcio, per smontarne determinate trame e trascorrere, magari, una domenica con tra le mani un buon libro. Con buona pace dei nostalgici di Tutto il calcio minuto per minuto”. Il sito letterario Culturificio ha definito il libro di Meloni “un feroce pugno nello stomaco, dove gli ultimi resteranno ultimi, senza possibilità di rivalsa o di rivincita, perché gli uomini, gli unici a poter cambiare e scardinare alcuni corrotti meccanismi sociali, non lo permetteranno mai”. Racconti di calcio e società, passioni e identità. Un corpus di storie con denominatore comune il football, dissacrato dall’autore con grandi dosi di leggerezza e ironia.

Tante piccole storie: il bomber alcolizzato, l’arbitro integerrimo giunto all’ultima tappa della sua carriera e costretto a fare i conti col suo passato, il giovane campione che non riesce a rapportarsi con la follia dei genitori degli altri ragazzi. Pagine in cui la sfera di cuoio s’interseca con gli amori finiti e sfuggenti, mancati o mancanti. Elegia del calcio di provincia che corre il rischio di finire nel fango del dio pallone.

Una narrazione, quella di Angelo Orlando Meloni, che bussa alle porte del cuore, arrivando nella parte che custodisce l’arcadia della nostra esistenza, miscelando tutto con un sorriso soave e leggiadro.

L’edizione 2020 del Premio Più a Sud di Tunisi, uno degli appuntamenti culturali di maggior prestigio tra quelli organizzati in provincia di Siracusa, avrà il patrocinio del Comune di Portopalo.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.gazzettadelmediterraneo.it/portopalo-angelo-orlando-meloni-vincitori-del-premio-piu-sud-tunisi/

Miraggi festeggia 10+1 anni, sostienici con una DONAZIONE e ti regaliamo uno o più libri dal nostro catalogo… Aiutaci a salvare libri meravigliosi dal macero!

Miraggi festeggia 10+1 anni, sostienici con una DONAZIONE e ti regaliamo uno o più libri dal nostro catalogo… Aiutaci a salvare libri meravigliosi dal macero!

15 maggio 2020 Miraggi festeggia 10+1 anni di attività, e non è poco! Ma non ci fermiamo qui…

Miraggi è nata dopo la crisi del 2008, ha esordito al Salone Internazionale del Libro di Torino nel 2010 e giunge a questo traguardo con la crisi del coronavirus in atto. Fino a oggi, in questo stato di crisi permanente che chiamano editoria, abbiamo superato ostacoli che anche a noi parevano insormontabili, e abbiamo resistito. E l’abbiamo fatto dimostrando ai lettori (e a noi stessi) che con il coraggio, un pizzico di intuito, la passione e l’amore per questo lavoro meraviglioso che consiste nel “fare libri” ci si può guadagnare il proprio spazio nel mare magnum editoriale italiano. Piccoli ma forti!

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Abbiamo deciso, in questo momento di crisi “viralmente perenne”, di festeggiare comunque i nostri 11 anni, chiedendo a voi, lettori che ci avete seguito e apprezzato in questi anni una piccola donazione, secondo modalità che ci permetteranno di regalarvi dei pezzi della nostra storia. Purtroppo si legge poco in Italia e un sacco di libri sarebbero destinati al MACERO ma noi non vogliamo mandarceli anche se lo spazio per tenerli scarseggia.

Potete donare con PayPal o tramite SatisPay

Ecco come:

  • 1€ come piccolo e semplice contributo: un caffè (per lavorare meglio!)

  • 5€ e ti regaliamo 1 libro storico di questi nostri 10 anni a sorpresa, che spediremo con piego libro (importante lasciare un recapito);

  • 10€ e ti regaliamo 2 libri storici di questi nostri 10 anni a sorpresa, che spediremo con piego libro (importante lasciare un recapito);
  • Offerta libera (sapremo dimostrare la nostra riconoscenza, importante lasciare un recapito).

Grazie per la fiducia!


Se ti va di aiutarci e di diffondere e condividere questo nostro sentimento te ne saremo grati.

Dai funambolismi di Agenzia Pertica alle parole per Mina: i mille volti di Luca Ragagnin

Dai funambolismi di Agenzia Pertica alle parole per Mina: i mille volti di Luca Ragagnin

Poeta, narratore, romanziere insolito. Non si può racchiudere Luca Ragagnin in una definizione unica e completa, come racconta il suo percorso di autore multiforme, che non poteva restare indifferente a una casa editrice come Miraggi: dall’esordio nel 2012 con Musica per orsi e teiere, al passaggio di Capitomboli del 2013, alla perla rappresentata dalla trilogia Imperdibili Perdenti di fine 2015 scritta per i Totò Zingaro, fino al recente Agenzia Pertica del 2017, racconto di una improbabile agenzia investigativa che ha appassionato i lettori per la scrittura funambolica e sorprendente.

La musica per l’appunto. Ragagnin ha realizzato testi per parecchi interpreti: il rapporto solido e proficuo con i concittadini Subsonica, cominciato nel 1997 con il primo album del gruppo torinese. E poi canzoni per Garbo, Mao e la Rivoluzione, Antonello Venditti e, oggi, Mina. Quella che è considerata la più grande interprete italiana ha pubblicato a fine marzo Maeba, disco interamente realizzato con brani inediti. L’ultima canzone della tracklist è “Un soffio”, con musica di Davide “Boosta” Dileo – tastierista dei Subsonica – e testo di Ragagnin. Una canzone descritta come eterea e destrutturata, apparentemente lontana dal mondo della cantante per la traccia elettronica e le atmosfere psichedeliche. Ma la collaborazione tra Boosta e Ragagnin ha saputo regalare un’atmosfera insolita, resa ancora più unica dalla voce inimitabile di Mina.

Coriandoli a Natale: Poetarum Silva ospita Tomas Bassini

Coriandoli a Natale: Poetarum Silva ospita Tomas Bassini

Me la prendo comoda, per quanto possibile. Cerco di rintracciare ogni prova tangibile che testimoni quello che c’è stato fra me e Lei. Sono diventato quello che si potrebbe chiamare un “topo da biblioteca”, mi sono messo a studiare come non ho mai studiato in vita mia: con diligenza, con regolarità, pure con una certa pignoleria da primo della classe. Voglio recuperare ogni materiale disponibile, dagli scontrini dei negozi dove siamo stati ai conti dei ristoranti, dai biglietti del cinema alle lettere d’amore; voglio avere tutto sopra al tavolo senza saltare i capitoli e senza dare per scontato anche il più limitato particolare, voglio fare il bravo studente, per una volta, e non puntare solamente sulla faccia tosta. Me la prendo comoda nel senso che ci metto tanto; è da non credere quanto materiale probatorio si possa accumulare in soli tre anni di relazione, quanto ne venga fuori anche all’ultimo momento quando si pensava il lavoro oramai finito. Ecco appena rintracciato, in questo preciso istante (ore 5.18) un documento scritto di mio pugno di cui mi ero completamente dimenticato:

G.* dov’è che sei? G. cos’è che vuoi? G. ma come faccio a farti innamorare? Tu dormi mentre io rimango in poltrona e ti mando saluti vari ed eventuali. Ecco, vediamo un po’. Ti saluta la lampada a luce gialla di questa portineria, ti salutano le chiavi delle camere, i porta-chiave, i numeri attaccati, le cassette della posta. Ti salutano i registri da compilare, le schede di notifica, i numeri progressivi, le assenze e le presenze. Ti salutano le foresterie, le federe dei cuscini, la biancheria e il cambio biancheria. Ti saluta lo stanzino dei portieri e il frigo-bar che mi rimproveri, i biglietti attaccati ai vetri, gli avvisi e il telefono che rimane zitto. Ti saluta qualcuno che di tanto in tanto passa e non dice niente. Ti saluta la segnaletica e il piano d’evacuazione d’emergenza, gli estintori rossi. Ti saluto soprattutto io, cara G., che qua non sembra ma mi faccio stanco, mi prendo tutte le occhiaie e divento scorbutico, più del dovuto. Ti saluto io che ugualmente mi mantengo e di nuovo ti saluto. Buonanotte G. P.S. Sono quello nella fotografia. Il primo da destra ma anche da sinistra.
P.P.S. Ma quanto posso essere scemo qualche volta?

(*G. sta per l’iniziale del cognome che nel documento è scritto per esteso.) Così vado avanti, in questa maniera che (e non so se l’ho già detto ma credo di sì) è sicuramente poco salutare, fa male ai nervi, alle ossa, alla circolazione e soprattutto a ciò che ruota attorno al tratto gastrointestinale. È una roba mica da ridere, o se non altro a me non fa ridere per niente, tranne qualche volta, quando magari sono in vena e mi esce una risata isterica, a strattoni, come la marmitta un poco andata di quei motorini che inspiegabilmente si riprendono in salita. Sono le cuciture interne che per qualche strana ragione di tanto in tanto vanno su di giri e fanno un po’ come gli pare, poi tornano giù e si sta peggio di prima visto che quello scatto repentino da centometrista ha sbagliato tipo di corsa e non è servito a niente, se non a finire quel poco di fiato che rimaneva e che sarebbe stato molto meglio centellinare. Ho la sensazione che in qualche modo sia Lei ad aspettarselo da me. Credo che dal suo punto di vista io non abbia mai concretamente fatto niente e, sempre dal suo punto di vista, sarebbe ora che cominciassi a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Tuttavia non è per questo che mi sono infilato in una faccenda che sta risultando molto più complicata di quanto pensassi all’inizio. Sarà che ero partito bene, anche troppo, con tutti quei buoni propositi che mi facevano apparire la cosa semplice o per lo meno naturale. Però mi sta venendo il dubbio che non ci sia niente di naturale, e sicuramente niente di semplice, nel crogiolarsi fra quegli scatoloni di vecchi discorsi e discussioni il cui sunto finale è quasi sempre lo stesso: D’accordo, è appurato che il più delle volte non ci sopportiamo, però non diciamo che ci siamo sbagliati, diciamo che sarebbe stato meglio organizzarci. Organizzarci meglio.

(…)

Schiena. Mi ricordo che aveva una schiena lunga, e credo ce l’abbia tuttora. Una schiena come un muro bianco, però morbido e con un buon odore di frutta mista. Soprattutto cocco, kiwi e banane. – Nei. Quanti ne aveva? Diamine, non mi riesce di ricordare il numero esatto. Chissà se si offenderebbe se la chiamassi appositamente per chiederglielo? Comunque ne aveva un bel numero. A me piacevano soprattutto quelli finali, più bassi, meridionali. Ne aveva sicuramente tre o quattro intorno alla natica destra. – A proposito: natiche. In fondo al muro bianco ci trovavo sempre questi due meravigliosi affari a cui non so dare un nome. Non so perché, ma a me le sue natiche hanno sempre fatto pensare alla porta di un saloon: semplice, basilare, povera, eppure uno spettacolo. È il modo in cui si aprono e si chiudono che è uno spettacolo a cui non riesco a dare un nome. Dire natiche è riduttivo, dire culo non è proprio esatto. Lo so che anche la porta di un saloon non rende bene, è un poco stupida come immagine, ma è la prima a cui mi viene di pensare quando penso alle sue natiche. E poi c’è da dire che le porte di un saloon quando si aprono si aprono sempre o su di una bella rissa o su di una bella sbronza, o almeno così mi piace immaginare. – La prima volta che l’ho portata qui, dentro al gabinetto, è stato il giorno che mi ha aiutato a fare il trasloco. Era di lunedì. Non abbiamo fatto niente ma ci abbiamo pensato, soprattutto Lei. – Abbiamo rimediato la seconda volta che ci è venuta. In piedi, davanti al lavandino, molto svelti ma convinti. C’era una lampadina fulminata che rendeva la luce ancora più perfetta. – Le volte dopo sono state molto spesso sotto la doccia. Era che l’acqua calda giocava a nostro favore. – L’ho vista farsi tanti di quei bidet che se adesso mi abbasso sono convinto di trovarci ancora un pelo incastrato sotto al tappo. Legato col doppio nodo. Ma è meglio non rischiare. – L’unica cosa su cui qui dentro non ho capitolato è stata quella di pisciare, seduto sulla tazza, mentre Lei si lavava i denti. Su questo argomento non ho voluto sentir ragioni, le cose erano due: o io pisciavo o Lei si lavava i denti. – Adesso però credo che raggiungerei volentieri un compromesso, anzi, le farei tutte le pisciate che vuole, anche quelle acrobatiche, se solo si decidesse a lavarsi ancora i denti qui dentro. – Adesso. Adesso. Adesso chissà cosa diamine sta facendo. Adesso magari niente, dorme. Ma prima di dormire qualcosa avrà fatto, e non saperlo è più che fastidioso. – Aveva un maglione bianco che era di tre misure sopra la sua. Io glie ne ho lasciato uno mio, blu, dopo che mi si era ristretto in lavatrice. Adesso sono sicuro che le starà benissimo. I pigiama. Me ne ricordo soprattutto due. Uno bianco con i pallini rossi, che si sbottonava come una camicetta. E uno metà bianco e metà rosso, molto invernale, con sopra disegnati tanti gatti. – Andava matta per i pois e per i fiocchi. A volte anche per le acconciature da cinquantenne o sessantenne. – Le piacevano le vecchie collane e i vecchi braccialetti, gli orecchini giganteschi che metteva sua nonna. Anche a me piacevano ma mi sa che non gliel’ho detto troppo spesso. – Dovrei decidermi a scriverle almeno una poesia senza finale tragico. O se non altro almeno una totalmente positiva, senza nessun sottinteso catastrofico. – Dovrei riuscire a fare più di una cosa contemporaneamente. Ma forse no. – Probabilmente dovrei perdere due chili e se c’è tempo scolpire gli addominali bassi. – Sicuramente dovrei fumare meno. – Dovrei anche bere meno vino bianco e smettere completamente con la birra. Prima nemmeno la bevevo la birra. – Dovrei smettere d’aver paura dei supermercati e smettere d’andarci solamente in orari improponibili. – C’è da dire però che l’ultima volta che mi ha abbracciato dentro a un supermercato eravamo davanti al reparto frigo, settore latticini. E ci siamo abbracciati parecchio. – C’è da dire soprattutto che quella volta lì, che è stata la nostra ultima volta insieme in un supermercato, non ci siamo solo abbracciati. Lei mi ha anche detto una cosa all’orecchio, una di quelle cose che non passano inosservate. Mi ha detto, testuali parole: «Oddio, quanto ti amo». Non è tanto per il ti amo ma per l’Oddio: Oddio, Oddio quanto ti amo, non è una cosa che si sente tutti i giorni quell’Oddio. Lì, al supermercato, davanti ai formaggi semi stagionati e alle mozzarelle quell’Oddio ha fatto nel mio orecchio lo stesso rumore che farebbe un palazzo di quindici piani se venisse giù, dopo scarica di dinamite, per fare posto a un altro più bello, non di quindici ma di centoventicinque piani. – Oddio. Oddio. Oddio. Oddio. Oddio. Oddio… Oddio, quanto ti amo. Bisognerebbe avere il porto d’armi per permettersi di dire una cosa del genere. Può essere pericoloso dirlo così su due piedi, soprattutto se non si avverte l’altro che lo stiamo per dire. Oddio. Non so se è normale ma per me questa è una di quelle parole che se messe davanti a quanto ti amo stanno a significare che oramai i giochi sono fatti e che non è più possibile tornare indietro per nessuna, e dico nessuna, ragione al mondo. Oddio, quanto ti amo. – E poi qualcuno si stupisce se ho il terrore dei supermercati…

© Tomas Bassini

Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia – Cooking Show di Chef in Valigia Fabio Mendolicchio

Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia di Marco Giacosa diventa un cooking show con menu originale del ‘600 di Chef in Valigia Fabio Mendolicchio (Kitchen mon amour).
Una cena itinerante, proposta nei luoghi più disparati, come ci ha abituati lo “Chef in valigia”, una serata in cui gustare un menu antico, preparato dal vivo, godendosi i racconti, le curiosità e i divertenti aneddoti manzoniani di Marco Giacosa.

Anno 1630, ci si ritrova seduti al banchetto di nozze della coppia letteraria più famosa d’Italia. Mangiando con loro un menù dell’epoca, ripercorreremo che cosa è successo in quei due anni, riscoprendo i momenti più importanti della vicenda che ha tenuto col fiato sospeso intere generazioni.

Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia di e con Marco GiacosaChef Mendo Fabio Mendolicchio

È facile innamorarsi dei Promessi sposi se sai come farlo.
Manuale di seduzione per lettori disaffezionati.

C’è di che riconciliarsi con I promessi sposi. Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito.

(Umberto Eco, 1985)

Non c’è nulla di più concreto che ripartire, a distanza di circa 400 anni, proprio da ciò che all’epoca si mangiava. Il cibo, la tavola, il bisogno di sfamarsi tra carestie e povertà. Gli alimenti che erano facilmente recuperabili ci raccontano molto di quell’epoca, narrano meglio le storie delle famiglie, inquadrano bene le esigenze dei diversi ceti sociali. Sarà il format del cooking show di Fabio Mendolicchio, popolarmente conosciuto con L’IBRIdaCENA, che curerà la preparazione delle portate che riporteranno i commensali in un’epoca lontana, attraverso il gusto.
Sarà invece lo scrittore Marco Giacosa che condurrà il gioco dell’immaginazione, stuzzicando il vostro appetito narrativo con un racconto incantevole e coinvolgente de I Promessi Sposi e di quel tanto atteso finale.

“Gentili signori,
siete qui convenuti, a questo pranzo di nozze, con due anni di ritardo.
Avevate ricevuto l’invito per il giorno 8 novembre 1628, che era un mercoledì; purtroppo però molto in quella settimana andò storto, e non se ne fece nulla.
Per tanto tempo il destino si è frapposto tra i nostri cari Lucia e Renzo, ma quando tutto sembrava ormai perduto, ecco la Divina Provvidenza posare su di loro la sua mano santa.
E finalmente eccoci, tutti assieme, a festeggiare l’unione di Renzo e Lucia!
Io vi auguro buon appetito, di cuore.”

E spero apprezzerete, tra un piatto e l’altro, il racconto che andrò a fare delle grandi e gravi cose accadute negli ultimi due anni, che hanno tenuti lontani gli innamorati, che non sono riuscite, tuttavia, a vincere il loro amore!

Marco Giacosa

Menù

  • aperitivo d’epoca
    • Ricottine in salsa di lenticchie, miele e noci
    • Macedonia salata di cicerchie, uva e mais a tocchi
    • Crostino di pane con pollo e funghi
    • Farinata di ceci all’antica e quartirolo lombardo
  • Zuppetta di cipolle con pane accomodato
  • Mono crostatina degli sposi di frutta fresca sciroppata
  • Crema dolce di mais con mele, muesli e ostie

Chef Mendo