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GIOVANNI TOSCO

Joao Paulo Cuenca è uno dei più importanti scrittori della letteratura brasiliana contemporanea. Il suo ultimo romanzo, “Ho scoperto di essere morto”, pubblicato in Italia da Miraggi, è stato tradotto in otto lingue e ha vinto il prestigioso Premio Machado de Assis. Cuenca, che è anche opinionista su diverse testate e regista cinematografico, è un grande appassionato di calcio e per questo ha accettato di affrontare diverse questioni: da quelle più strettamente legate alla passione per il Flamengo e per l’Argentina a tematiche politiche, sociali ed economiche.

Quando è nata la tua passione per il Flamengo?
«Credo che il calcio sia un tipo di malattia che ereditiamo dai nostri padri. Il mio, un argentino, è tifoso del Flamengo perché è una sorta di Boca Juniors brasiliano, è una squadra del popolo, e di conseguenza lo sono diventato anch’io. Poi sono cresciuto vedendo Zico vincere tutto. Insomma, non era difficile tifare Flamengo».

Ecco, tuo padre è argentino e tu sei nato a Rio de Jaineiro. Ti senti un’anima divisa in due o non hai dubbi su quale nazionale scegliere tra Argentina e Brasile?
«In campionato tifo Flamengo, ma quando ci sono il Mondiale o la Copa America non ho esitazioni su chi tifare: Argentina».

Qual è il tuo primo ricordo legato al calcio?
«Questo può spiegare la mia precedente risposta. Nel primo ricordo forte legato al calcio c’è mio padre che urla e piange di fronte a un vecchio televisore con il tubo catodico dopo che Maradona ha segnato il secondo gol nella partita contro Inghilterra durante il Mondiale del 1986. Quale altro tipo di spettacolo potrebbe avere un tale effetto su un uomo adulto?».

L’eterna questione: Maradona o Pelé?
«Non ho esitazioni: Maradona!».

Detta da un brasiliano, per quanto di padre argentino, è un’affermazione clamorosa.
«Ne sono convinto. E resto convinto, anche se, proprio in Italia, mi hanno soprannominato il Pelé della letteratura». (Ride).

Quando Socrates arrivò in Italia, gli fu chiesto se preferiva Rivera o Mazzola. Rispose: Gramsci. Credi che oggi ci possa essere un calciatore con questa cultura e questa capacità di guardare oltre gli aspetti quotidiani del suo lavoro?
«Purtroppo no. Una figura come Socrates sembra molto improbabile al giorno d’oggi. La maggior parte dei calciatori brasiliani sono molto lontani dalla politica o addirittura hanno sostenuto Jair Bolsonaro, candidato di estrema destra e vincitore delle elezioni di due settimane fa. Temo che molti di loro non abbiano mai letto un libro nella loro vita».

Il calcio sta diventando sempre più un business e molti tifosi rimpiangono i valori del passato. È un punto dal quale non riusciremo a tornare indietro?
«Temo di sì. Non può essere un caso che sempre più persone si divertano con i videogames o i giochi di simulazione in cui si trasformano in manager che si occupano di soldi, investimenti e profitti. E spesso la stampa dà a certe questioni lo stesso spazio riservato a ciò che avviene in campo. Ma quello che mi preoccupa di più è la corruzione che il denaro porta. In Brasile, la Federazione è coinvolta in diversi scandali».

Nel tuo libro si sottolinea in maniera molto netta la condizione di una Rio de Janeiro colpita dalle speculazioni legate ai Giochi Olimpici e al Mondiale.
«Il Mondiale organizzato nel 2014 si è trasformato in una opportunità per compiere diverse frodi e per aumentare a dismisura i prezzi dei biglietti. E questo è molto peggio del 7-1 subito dalla Germania o del vedere Neymar piangere come un bambino».