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Gabriele Ottaviani

In poche parole è già deciso che tu morirai, devi solo decidere la modalità. A quel punto, immobile davanti al nulla della mia esistenza, decisi di accettare la falsa offerta, cercai di auto convincermi di essere una sorta di eletto. Un prescelto mandato dal cielo per risolvere i mali che affliggono il pianeta Terra. Il mio sacrificio avrebbe condotto il genere umano alla salvezza. In fondo è così che Gesù è diventato famoso, sacrificandosi per gli altri. Il dottor Reich mi iniettò qualcosa con una grossa siringa dall’ago lucente. Mi avvolse il buio, quello vero. Percorrevo il cammino nel bosco a ritroso. C’era un sole pallido che non scaldava nulla, però era in grado di farmi sudare. Sotto la camicia avevo circa tre chili di esplosivo cuciti sulla pelle ed in tasca tenevo il telecomando per porre fine alla mia vita terrena e per condannare quella ultraterrena. Speravo di non cadere per evitare botti inutili. Mi facevano male sia le cuciture che legavano l’esplosivo alla pelle sia le ossa per le botte ricevute. La mia lingua giocava con il labbro rotto e mi resi conto che un dente dondolava pronto a cadere. Anche se dubito che nessun topolino mi avrebbe lasciato una moneta, al massimo mi avrebbe divorato una volta morto. Con l’aiuto di una mappa disegnata a matita su un foglio, cercavo di trovare la strada che mi avrebbe portato alla città dove sarei morto massacrando dei pazzi innocenti. Come una medicina che uccide il cancro. Come un veleno che uccide i piccioni. D’un tratto vidi la mia ombra più definita, barcollava e ritornava come prima, pensavo fosse ubriaca. Una luce intensa arrivava da dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi un grosso incendio provenire dall’accampamento che avevo da poco abbandonato, non potevo tornare indietro. La mia non era pienamente codardia ma indossavo materiale esplosivo che non andava molto d’accordo con il fuoco. Incominciai a scappare come se fossi inseguito da un animale feroce. Ancora una volta correvo per cercare di sopravvivere.

La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Claudio Marinaccio, Miraggi. Claudio Marinaccio ha una gran bella prosa, che si manifesta in tutta la sua spiccata policromia quale che sia il testo cui decide di dedicare tempo, passione e attenzione, che si tratti di un articolo, di un saggio, di un racconto, un romanzo o un post su Facebook: intelligente, vivace, colorata, brillante, sapida, arguta, lieve ma mai superficiale, seria ma niente affatto seriosa, convincente, originale, ironica, sarcastica, irriverente senza la benché minima traccia di spocchia egoriferita che è invece di norma caratteristica peculiare di chi si sente Moravia ma ha problemi anche col plurale di valigia. In questa sua nuova opera, che convince, commuove, emoziona e fa riflettere sin dalla dedica, Marinaccio, in Delirio di negazione, FooG, Una giornata da dimenticare, Una barba lunga un mese, Il tragico inizio di una storia non banale, Pelle, Amore farmacologico, Un viaggio mentale in una terra desolata, La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Così diversamente uguali e La ballata del ladro di anime, un capolavoro di bravura che fa pensare che un giorno Haruf, Fante e Chandler si siano stretti la mano e abbiano deciso di collaborare, un vero romanzo a sé, ritrae con crescente – il filo rosso che unisce le parole disegna nel cielo del testo un vero e proprio climax ascendente – autorevolezza, sardonica gioia e al tempo stesso una solennità potente e aulica benché mai pedante e/o pesante, ed esaltata dalle splendide illustrazioni di Luca Garonzi, che, altamente narrative a loro volta, punteggiano e intervallano la narrazione, tutte le declinazioni dell’alterità rispetto all’anonima quotidianità della prepotenza del vivere. Imperdibile.