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La storia à la nostra memoria mentre l’oblio è il punto in cui la coscienza termina a causa dalla perdita delle conoscenze pregresse.
Tutti siamo in grado di focalizzare il periodo storico dell’ascesa al potere del Nazismo così come siamo capaci di provare orrore per ciò che accedeva nei campi di concentramento che quel regime costruì e sistematicamente utilizzò per lo sterminio degli ebrei, di altre minoranze etniche e di soggetti non graditi. Non molti sono a conoscenza, forse, che la propaganda nazionalsocialista riuscì a tenere nascoste per un lungo periodo di tempo, sia in Germania che fuori dallo stesso Paese, quali fossero le reali funzioni di quei luoghi di dolore, terrore e morte e questo anche grazie ad alcuni abili stratagemmi.
Terezín (in tedesco Theresienstadt), una piccola città fortificata del XVIII secolo sita nella Repubblica Ceca a circa 60 km da Praga, fu il perfetto “palcoscenico” per il mascheramento della verità. In questo campo, dove erano internati principalmente «anziani decorati, eroi di guerra e personalità illustri», le “personalità illustri” erano: pittori, attori, scrittori, musicisti che, proprio per la loro “notorietà”, godevano di una certa libertà quantomeno “creativa”. Sotto la supervisione dei loro aguzzini infatti, in quella sede, era tollerata una discreta attività artistica che già dal 1943 portò a: «una fioritura culturale […] che non aveva paragoni non solo in nessun altro territorio dell’Europa occupata, ma persino di molte città di medie dimensioni […]» tant’è che un programma della Freizeitgestaltung (l’Organizzazione per il Tempo Libero del campo) mostra che: «dall’ 1 all’8 novembre 1943 [… si tennero] diciotto rappresentazioni per una popolazione di quarantamila persone, con dieci diverse opere di cui cinque serie, quattro leggere ed una per bambini».
Sotto le pressioni del governo danese e sotto l’egida della Croce Rossa e, dopo un primo controllo effettuato nell’estate del 1943 (il cui esito non venne divulgato per ragioni politiche in quanto metteva in mostra le reali condizioni di vita degli internati), se ne ebbe un secondo, l’anno successivo, che dopo una “approfondita” ispezione internazionale (23 giugno 1944) dichiarò che la vivibilità nel campo era buona oltre ogni ragionevole dubbio. Come si era riusciti a costruire una tale mistificazione? L’apparato nazista aveva coinvolto i deportati rendendoli protagonisti di una enorme farsa – durata alcune ore, a favore del “pubblico” degli ispettori – in cui i prigionieri risultavano essere più degli “ospiti” che dei reclusi. La “recita” riuscì così bene che le SS pensarono di sfruttare fino in fondo la mefistofelica idea realizzando, nel successivo autunno, una pellicola di propaganda (dal titolo incerto) conosciuta come: Die jüdische selbstverwaltung in theresienstadt (ma anche come Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet o anche Theresienstadt, l’ironico Der Führer schenkt den Juden eine Stadt o, più semplicemente Theresienstadt) con la regia di Kurt Gerron (l’interprete del mago Kiepert nel film L’angelo azzurro) di cui si sono salvati alcuni brani visibili anche su YouTube.


È in questo quadro generale che nella prigione-ghetto di Terezín si incontrarono l’anziano e affermato compositore, Viktor Ullmann (allievo di Schönberg) e il giovane drammaturgo e poeta Petr Kien. I due artisti, pur provenendo da esperienze culturali molto differenti e nati in epoche distanti tra loro, riuscirono a realizzare, con intenti comuni, Der Kaiser von Atlantis (L’imperatore di Atlantide), un’opera del genere Singspiel composta in quattro quadri e un prologo salvatasi, a dispetto degli autori, dai campi di sterminio.
Proprio a Der Kaiser von Atlantis, Enrico Pastore, noto regista e scrittore (con il contributo della musicologa Marida Rizzuti e la traduzione del libretto di Isabella Amico di Meane) ha dedicato un interessante volume di ricerca, edito dalla Miraggi edizioni, dal titolo: L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien.
Dopo una ampia introduzione della situazione del campo di Terezín e, dopo aver ricostruito, nei limiti del possibile, le biografie dei due autori e le condizioni operative/produttive degli spettacoli sotto l’egida del sistema concentrazionario, Pastore si sofferma ad analizzare il Singspiel alla ricerca del messaggio universale, mitico, in esso contenuto.
La storia narra che l’Imperatore di Atlantide (1), Overall, tramite i suoi “meccanizzati” strumenti di propaganda e morte, un Altoparlante e un Tamburo, tenti di consolidare il suo potere grazie alla sopraffazione derivante da un continuo stato di guerra. Tutto ciò accade sotto lo sguardo dolente e disincantato di un Arlecchino anziano (che rappresenta lo spirito annichilito del “vivere”) e della Morte. Ma la protervia di Overall è tale che anche la Morte, disgustata dal suo comportamento, non può far altro che ribellarsi alla volontà distruttiva dell’uomo scegliendo di entrare in “sciopero”. Smetterà, quindi, di accogliere anime, impedendo ai viventi di terminare la loro esistenza. Sul campo di battaglia due opposte fazioni si scontrano: sono il Soldato e Bubikopf (una ragazza con i capelli alla garçon) ma, riconosciutisi uomo e donna, si innamorano cessando di combattere. Stremati dal loro stato di indeterminatezza anche i “non morti” decidono di porre fine alla loro sofferenza e assaltano il palazzo del Kaiser per farlo capitolare. Questi, vedendosi sconfitto, si consegna alla Morte che lo accoglie ritornando a svolgere il suo compito di mietitrice di anime.
Nell’accurata analisi dell’opera, Pastore rileva gli innumerevoli richiami, sia testuali che musicali, alle tante allegorie in essa contenuta.
Nella parte testuale, solo per accennare ai personaggi, non è difficile riconoscere in Overall lo stesso Hitler, mentre nei suoi collaboratori – Altoparlante e Tamburo – si intuiscono le figure di Goebbels e, presumibilmente, Göring. Nell’allegoria del Soldato e di Bubikopf si intravedono: «i rappresentanti di tutte le vittime del nazismo e di coloro, soprattutto in Germania, che avevano dimenticato i valori della democrazia», mentre in Arlecchino e nella Morte si esaltano i valori – universali – dell’esistenza.
Anche la partitura è piena di richiami a significati “reconditi”, almeno per i non addetti ai lavori, ma la vera “ricchezza” della trama musicale è nascosta negli arrangiamenti. Se è vero che i brani, a volte, fanno riferimento a composizioni pregresse di autori di musica “colta” come Schönberg o Mahler è pur vero che, nella maggioranza dei casi, essi vengono costruiti usando un insieme di stilemi: «dallo shimmy, al blues, al fox-trot, [… un] trionfo dell’entartete Musik» tipici della musica “degenerata” tanto odiata dai nazisti. Per Ullmann e Kien questo è, chiaramente, un atto di piena e consapevole ribellione artistica e tutto, in qualche modo, preconizza (auspica) la fine del regime. «Limperatore di Atlantide […] propone una opzione alternativa al pensiero unico nazista: una visione costituita da differenze che si integrano in una unità».
Lavoro pregevole quello di Pastore che permette di focalizzare le numerose chiavi di lettura de L’imperatore di Atlantide, opera creduta persa e rinvenuta solo alla fine degli anni Sessanta presso lo studio del Prof. H.G. Adler che l’aveva ricevuta dal direttore della biblioteca di Terezín cui Ullmann l’aveva affidata prima di partire per il suo ultimo viaggio verso la camera a gas.
Gli autori non videro mai la messa in scena del loro lavoro (anche se è il componimento, nel campo di concentramento, fu provato più volte e, probabilmente, presentato in una sorta di “prova generale” per il vaglio di gradimento da parte delle SS).
Nel dicembre del 1975, il direttore d’orchestra Kerry Woodward, dopo aver ritrovato la partitura originale da Adler, ebbe l’onore di dirigere la Nederlandse Opera, presso il Bellevue Centre di Amsterdam, per la prima rappresentazione mondiale.

1)  Atlantide era considerato dai nazisti, a seguito degli studi teosofici di Helena Blavatsky, il continente da cui provenivano gli ariani; tale tesi fu avvalorata, nel 1934, anche dal responsabile della formazione e dell’educazione del Partito Nazista, Alfred Rosenberg, con la stesura del volume Der Mythus des 20. Jahrhunderts (Il mito del XX secolo).

Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, Miraggi edizioni, Torino 2019, pp. 210, euro 18,00.