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Valentina Di Cesare

Se la fortuna di un autore è quella di essere letto e riconosciuto nel suo valore, che tale approvazione arrivi tardi o presto è, probabilmente, solo un problema umano e non della letteratura. Fino a qualche tempo fa, il nome di José Diaz Fernandez era sprofondato nel dimenticatoio, prima di tutto nel suo paese, la Spagna, in particolare durante il franchismo. Scrittore dell’esilio e politicamente schierato nell’area socialista, come molti altri della sua generazione (nacque nel 1898 a Salamanca e morì in esilio a Tolosa nel 1941, mentre cercava di scappare a Cuba) a poco più di vent’anni si trovava già tra le file dell’esercito spagnolo di stanza in Marocco, a sua volta in piena insurrezione contro Spagna e Francia, nella cosiddetta «guerra del Rif». Alacre attivista, più volte imprigionato per le sue posizioni politiche, scomparve a soli 43 anni, lasciando centinaia di articoli e reportage sulle battaglie coloniali e sulla necessità di superare lo stato classista e corrotto del periodo dittatoriale che vedeva al comando Primo de Rivera.

Col passare degli anni, ormai, erano rimasti soltanto gli addetti ai lavori a ricordarsi di Fernandez, a rammentare certo la sua presenza nel mondo delle lettere spagnole del primo Novecento, senza però occuparsi più del dovuto della sua opera, o invitare il pubblico ad una sua riscoperta. Negli anni ’70, complice anche il clima sociale del tempo, il suo nome è riemerso dopo più di cinquant’anni di buio, i suoi scritti sono tornati pian piano ad essere letti e, da allora, il nome di José Diaz Fernandez è legato ancora più indissolubilmente ad una letteratura di consapevolezza sociale e di impegno civile.

Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi hanno scelto di tradurre in italiano, per la prima volta, il libro più noto e forse il più importante che la penna di Fernandez abbia mai prodotto: El blocao, uscito nel 1928 e molto apprezzato già ai suoi tempi; il titolo italiano del romanzo è Casamatta, edito da Miraggi nel 2018 per la collana Tamizdat e contiene, oltre all’introduzione dello scrittore Ignacio Martinez de Pison, una serie di articoli che Fernandez stesso scrisse come anticipazioni al testo. Casamatta racconta con la precisione che contraddistingue lo stile cronachistico dell’autore, le angoscianti atmosfere vissute dai soldati all’interno di un fortino, durante l’ennesima campagna coloniale spagnola in Marocco e le sensazioni contrastanti di un giovane ventenne mandato a morire come carne da macello. Le parole di Fernandez sembrano descrivere a perfezione le atmosfere sospese di tutte le guerre del mondo, tanto nella loro ingiustizia quanto nella loro inspiegabilità e ci riescono soprattutto grazie alla loro forma asciutta, quasi di reportage, che contrariamente a quel che si potrebbe pensare, nulla tolgono alla consistenza del testo.

I gesti automatici, la fame, la disperazione, la violenza, le tensioni represse che esplodono d’un tratto senza preavviso: José Diaz Fernandez osserva e riporta sulla pagina, senza troppi orpelli e con grande lucidità, l’atmosfera di esasperazione latente che aleggia nel regime di guerra; che ci si trovi per strada o all’interno di un fortino, il prima e il dopo non esistono più né c’è spazio per azioni eroiche o aneliti di fiducia nell’umano o nel gesto individuale. L’agguato della morte ad ogni angolo è un dato certo e ineluttabile, ma anche nel far emergere questo perenne allarme, lo stile di Fernandez non ha bisogno di servirsi di pirotecnie linguistiche. Il suo è un periodare moderato che non desidera con questo edulcorare le vicende ma che, al contrario, suona come una forma umana di pudore nei confronti della nauseante farsa della guerra, delle sue violenze perpetrate, dell’impunità di tutti gli atti bellicosi sopravvenuti in ogni angolo del mondo.

Quella che Magliani e Ferrazzi hanno fatto in italiano è una traduzione invitante, ritmata, precisa, che sa restituire amabilmente lo stile proprio di Fernandez, narratore di razza ma anche giornalista, attivissimo sin dai primi anni della sua gioventù, abituato dunque alla chiarezza formale e all’ accuratezza del racconto. Fernandez è una penna socialmente sensibile che sulla guerra ispano-marocchina scrisse oltre duecento articoli, pubblicati sia dalla stampa locale che da quella nazionale, oltre che su riviste molto note ai tempi come Revista de Occidente o El Sol. Nella sua breve vita, lo scrittore non si limitò a fare cronache e resoconti di guerra, e scelse con forza di non disgiungere mai la propria passione letteraria dall’attivismo politico. Letteratura e vita dunque, unite in un cammino fraterno, onesto, nessuna delle due indifferente all’altra, l’una può esistere soltanto in presenza della sua metà: anche per questo, la traduzione di un testo così coraggioso ed esemplare, risulta una scelta significativa che invita a riflettere sui tanti ruoli che la letteratura può avere.

Per Fernandez il protagonista della vita e quindi dei suoi scritti, è il popolo, con le sue rivendicazioni di libertà e giustizia, la quotidianità dolorosa, la lotta per i diritti, le disparità sociali. Nella sua attività scrittoria, Fernandez infatti non aveva mai fatto mistero del suo modo di intendere la letteratura e della necessità di riportarla a quote più umane e solidale. Non una letteratura di passatempo, ma piuttosto di consapevolezza, di verità, di coscienza civile. In completo contrasto con la nutrita compagine di autori estetizzanti del suo tempo, per Fernandez il mero formalismo, la sola attenzione al linguaggio e agli aspetti estetici dell’opera, sono un fiasco intellettuale, una vera e propria frode. Quella di Fernandez è una letteratura che non può non compromettersi: essa si affaccia alla finestra, si spende, si consuma, scende per le strade: non può limitarsi a osservare la realtà dal rifugio vigliacco dei privilegi.

Leggi la recensione di Valentina Di Cesare anche qui
http://www.succedeoggi.it/2018/08/inferno-di-fernandez/