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C’è la famiglia benestante, quella di città che può permettersi di affittare la casa al mare per tutta l’estate, con una crepa dissonante, quel figlio ritardato che cresceva soltanto in altezza.

E c’è il fragile Paolone, imbozzolato in un mondo suo, che conserva integro il solo ricordo felice che possiede, il conoscere – unico depositario del segreto – la destinazione di quell’enorme pallone a forma di missile comperatogli dal padre, che poi avevano lasciato andare nel cielo.

Ma c’è anche chi ritorna in case abitate in tempi andati a riappropriarsi di un passo antico, a riconoscerne odori, ricalibrare rapporti, pesare assenze, vuoti e vergogne. Non è un caso che Simone Ghelli metta in esergo alla raccolta di racconti Non risponde mai nessuno – edita da Miraggi, con prefazione di Wu Ming 2 – una celebre citazione di Gilles Deleuze, La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere? È questa, difatti, la corrente sotterranea che percorre l’opera di Ghelli: la vergogna, la finitezza umana, il comportamento del singolo che si adatta al branco, il bisogno di accettazione – umano e crudele, riconoscibile.

Nel racconto Quando arriva l’estate¸ uno dei migliori, è una voce esterna a descrivere la famiglia Tamberi: piccola borghesia, professore di matematica lui, sfaccendata lei – alternativamente nascosta nella penombra al riparo dalla calura pomeridiana o stesa al sole a richiamare fastidiosamente il marito con la sua voce roca, impastata dal fumo delle sigarette e dalle medicine – e un unico figlio problematico, anello debole di una possibile perfezione, fonte di una sorta di vergogna a cui Tamberi padre reagisce (indifferente ai commenti crudeli degli abitanti del paese di villeggiatura che vorrebbero si rifugiasse in un ritirarsi schivo da ogni occasione sociale) rendendosi, anzi, partecipe di memorabili feste di mezza estate.

Un godersi la vita solo apparente: il signor Tamberi ogni sera veniva strappato dai pensieri che maturava sull’asciugamano, in posizione supina, per essere chiamato a frapporsi tra le bracciate scoordinate del figlio e la tonalità sempre più allarmata nella voce della moglie. Con gentilezza avrebbe detto qualcosa a quel ragazzo con i capelli così biondi che d’estate gli diventavano quasi bianchi; qualcosa che l’avrebbe convinto a tirarsi su e a raggiungere finalmente la madre, che si sarebbe gustata un’ultima sigaretta prima di cena. Ad esempio gli avrebbe promesso che se fosse uscito subito dall’acqua l’avrebbe portato più tardi a prendere la coppetta di gelato all’amarena che gli piaceva tanto e che ogni volta ripuliva con il dito, anche se quella era una delle tante cose che non avrebbe dovuto fare alla sua età. Ricordo come gli abitanti del paese osservassero quella strana coppia con compassionevole curiosità. Non riuscivano a fare a meno di giudicarli, di esprimere giudizi su quel figlio ritardato che cresceva soltanto in altezza. Dicevano che il signor Tamberi avesse avuto una gran scalogna, per alcuni che fosse addirittura vittima di una fattura. Ma come, si domandavano: perché proprio a uno come lui, che faceva l’insegnante di matematica in un prestigioso liceo?

Ma chi narra, che si intuisce non privo di misericordia anche nei silenzi lasciati a sospendere – quando incontra di nuovo dopo alcuni anni (Ghelli inframmezza uno significativo iato temporale in ogni racconto) padre e figlio, li addita agli amici con scherno: è questo, lo sa, ciò che il gruppo si aspetta.

Quella sera tornai sui miei passi e indicai platealmente la strana coppia che tornava verso casa.

Qualcuno disse qualcosa, non ricordo quale stupidaggine, che fece ridere il branco. Risi anch’io, non posso negarlo, del signor Tamberi. Risi di quel vecchio, imbarazzato e spazientito, che cercava faticosamente di trascinare via il figlio dalla tentazione di unirsi ancora una volta ai propri carnefici.

E l’ultima immagine che mi rimane di loro: due uomini sconfitti da un esercito di zucche vuote.

Un doppio senso di vergogna si ritrova anche nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Non risponde mai nessuno – più asciutto ed efficace rispetto ai primi del volume, dove invece la lingua soffre talvolta di ricercatezze ridondanti – dove un figlio si ritrova a gestire impotente la demenza senile del padre. Frustrato ed esausto, il giovane non riesce a far fronte e a combattere con la follia di un sistema assistenziale malato anch’esso, impastoiato in tempi tecnici incomprensibilmente dilatati, sorrisi d’ordinanza di assistenti sociali carichi di rassegnazione e soluzioni temporanee che non risolvono un bel niente.

Si vergogna, il figlio, dell’irritazione che prova per il padre, ma anche della casa del genitore abbandonata al disordine, del tanfo di urina dei gatti. Ma la sua impotenza, il suo sgomento, suggeriscono anche un’altra vergogna: quella della difficoltà di trovare strumenti efficaci per un accudimento dignitoso di chi si trova nel bisogno, della latitanza e manchevolezza delle istituzioni, dell’assenza di un aiuto di diritto (Simone Ghelli è stato, tra l’altro, obiettore di coscienza in un ex ospedale psichiatrico, n.d.r.).

Gatti e altri animali sono poi protagonisti involontari di molti dei racconti, così come i paesaggi esteriori che spesso coincidono – talora invece stridono, in una contrapposizione feroce – con quelli interiori. Il più delle volte, animali e luoghi leniscono e abbracciano: case d’infanzia, delle vacanze, di famiglia, accolgono quasi materne tutti, anche il conoscente depresso, con l’animo cristallizzato in un lutto da cui pare non sforzarsi di uscire, o ancora il parente eccentrico, quello che c’è in tutte le famiglie e di cui si evita di parlare con grande cura, vergognandosene. Vergognandosi, in fondo, di sé stessi, suggerisce Ghelli, di una propria assenza di pietas. Di un dubbio, immotivato, illusorio e frangibilissimo sentirsi migliori.

Anna Vallerugo