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I racconti della commedia umana

«Danilo lavorava alla cooperativa, andava al manicomio due volte alla settimana col furgoncino bianco e il disegno di un sole sulla fiancata con cui portava allegria».
I gesti quotidiani e i movimenti consueti: parlare con un amico, preparare il caffè, spostare un oggetto, riguardare una vecchia vhs. Ogni cosa che facciamo assume quasi sempre valore nel momento in cui proviamo a ricordarla. La vita ci scorre spesso di fianco, restiamo lì, immobili, e troppo spesso ci rendiamo conto di non farne parte, o almeno non nella maniera in cui vorremmo.
E poi come una scarica, ci arriva un input, delle volte mentre siamo indaffarati nel fare qualcosa di manuale, ci piomba addosso una storia, un’immagine, un suono, una voce; e siamo costretti a scavare, a trovare elementi di residuo, e quello che ci è appartenuto ci sembra meno sbiadito.

La nostra esistenza non è un atto unico, è composta da momenti, miliardi di momenti che spesso non riescono a restare vicini e se sono gli attimi che danno valore alla vita intera è importante forse riuscire a vivere le nostre emozioni nel durante e non solamente nella memoria, quando tutti sono bravi a dirsi: beh, lì ero proprio felice, e non me ne sono reso conto.
Cerchiamo punti di svolta in modo continuo senza, apparentemente, trovarli mai, semplicemente perché quando ci capitano non riusciamo ad accorgercene; tutto diventa chiaro nel momento esatto in cui iniziamo a raccontare un evento, attraverso le parole e la narrazione, elementi che ci sembravano poco lucidi e distorti, trovano come per magia la loro collocazione.
Simone Ghelli è nato nel 1975, Non risponde mai nessuno è la sua seconda raccolta di racconti, questa volta pubblicata da Miraggi editore.

I racconti che compongono questo libro ci narrano della commedia umana, del vivere quella vita che come un palcoscenico teatrale ci costringe ogni giorno a entrare in scena, con la speranza di non dimenticare nessuna battuta chiave. Siamo all’interno di vite che non sono nostre, ma che ci rimandano l’eco di qualcosa di familiare, e possiamo provare la sensazione che ogni racconto possa essere un nostro personale ricordo, in una frase, una sfumatura, un’immagine.
E ci ritroviamo con Giovanni e le sue idee dolorose (I tafani del Merse), il suo confronto con ciò che vorrebbe essere e ciò che, in fondo, è realmente. Veniamo catapultati nei ricordi di Paolone, nella sua infanzia (Il missile), nella voglia che ha di mantenere stretto un movimento passato ma mai sbiadito. E questi racconti ci parlano di lutti (Con un figlio così), di impossibilità (Non risponde mai nessuno), di confidenze ed errori (Vedevano tutto il suo dolore).
«Con uno stacco siamo di nuovo fuori dalla Turbina. Zoom lento su tre macchine da scrivere impilate una sopra l’altra e infestate dall’edera. È l’immagine più poetica, la più commovente. Dopo il senso di abbandono che ci accompagna per nove minuti, arriva, improvvisa, questa specie di epifania. È qualcosa di definitivo, un monito con cui fare i conti».

Il modo in cui Simone Ghelli ci accompagna in queste storie è romantico, la sua scrittura procede spedita, non perdendosi mai in inutili preziosismi stilistici; ogni racconto possiede la potenza del reale, la durezza della vita e la sacralità della memoria.
I racconti si alternano tra prima e terza persona, ma il gioco dello scrittore riesce talmente bene che, a un certo punto, anche i racconti scritti in terza persona ci possono sembrare introspettivi come quelli in prima persona.
«A vederli insieme così, in certe domeniche a braccetto, la gente giù in paese diceva che potevano sembrare davvero una coppia felice, che l’abitudine e il dolore non li avevano allontanati. Dopo aver passeggiato per il corso si mettevano seduti al bar prima del ponte sul fiume, e non facevano che ridere e guardarsi in quel modo che soltanto gli innamorati. Ma non erano che quaranta minuti, al massimo un’ora, che poi la vita tornava in carreggiata, affaticata dal peso dei problemi; il lavoro che mancava, un figlio ancora in casa a trent’anni passati, un fratello che non si capiva più dove avesse ficcato la testa.»
Sono poche le pagine che lasciano una speranza, è come se la “terribile” recita umana non possa portare altro che dolore e disperazione e anche lì dove si intravede uno spazio di luce il male, e la consapevolezza della condizione emotiva di ogni individuo, riporta una sorta di sconforto che resta come una macchia indelebile.

Non c’è una regola per vivere, non c’è una soluzione al dramma che ci può piombare addosso senza preavviso, non esiste una legge che possa condurci verso una soluzione; esiste solo la maniera che ognuno di noi ha di vivere la propria esistenza, esiste la possibilità di rifugiarsi nel ricordo quando il presente ci appare troppo duro, meschino ed ingiusto.
E anche se a volte tornare indietro nel posto di ciò che è stato può riempirci di scorie, è importante conoscere a memoria quello che siamo stati, quello che abbiamo subito e ciò che ci ha tagliato a pezzettini, per poter cercare di dare al presente una forma quanto meno diversa.

Francesco Borrasso per www.sulromanzo.it