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di Gabriele Ottaviani

I due si ricomposero facendo traballare coppe, ampolline e pissidi e l’intruso riguadagnò l’aria aperta senza pronunciare una sillaba, ma l’incidente ebbe rumorosissime conseguenze. Sergio, a Pontescuro, era una fune, e non di salvataggio. Cosimo Casadio governava dall’alto l’economia dell’intero paese ma non si sarebbe di certo sporcato gli stivali andando a controllare di persona un campo dietro l’altro e perciò si era avvalso del contadino che gli era parso più sveglio e preparato e l’aveva istruito affinché, sotto il suo controllo, tutti filassero dritto. Sergio era diventato il fattore di Pontescuro. Non era più un contadino come gli altri, ma era ben lontano dall’avvicinarsi alla tavola del padrone. Badava al lavoro della terra e riferiva, lui stesso divenuto una terra di mezzo che collegava il disprezzo alla frustrazione. La sua numerosa prole non era riuscita a donargli una scorta di umanità ma, a differenza di Nella, il livore che lo avvolgeva quasi mai si rendeva visibile: il suo sfiatatoio era molto meno grossolano di quello della sua aiutante. Lui tamponava il desiderio di far soffrire con il ghiaccio del ragionamento e, grazie all’abitudine segreta di annotare a sera i fatti della vita del paese su un quaderno che teneva a letto sotto il cuscino, era in grado di attendere impassibile dei mesi…

Pontescuro, Luca Ragagnin, Miraggi. Illustrazioni di Enrico Remmert. Pontescuro di Luca Ragagnin è l’opera matura di un autore che ha esplorato molte possibilità espressive della parola (canzone, poesia, racconto, romanzo, saggio narrativo) in oltre trenta libri pubblicati, senza contare le numerose collaborazioni musicali. Il romanzo si svolge nel 1922, nella Bassa padana, nell’immaginario villaggio eponimo, e analizza attraverso la testimonianza corale degli abitanti le premesse di fatto di sangue: l’uccisione della bellissima e scandalosa figlia del signorotto locale. Colpevole è il fattore, mosso da invidia sessuale e sociale, ma dell’assassinio viene incolpato lo scemo del villaggio, un trovatello che passa il tempo legando nastri colorati ai rami degli alberi e che aveva stretto una tenera amicizia con la ragazza. Ciaccio, il trovatello, è la personificazione dell’innocenza, allegoricamente posta ai margini di una società che o sfrutta e opprime, oppure vive in una tetra, stolida e quasi inconsapevole miseria materiale e morale (il 1922 è l’anno della marcia su Roma e nel romanzo riecheggiano le rivolte contadine soffocate con manganelli e olio di ricino). Il romanzo, però, non è indirizzato a una puntuale ricostruzione storica e sociale, ma si interroga sul lato metafisico del male, nel duplice senso che può avere l’espressione «il male che abita l’uomo»: oggettivo – il male in cui l’uomo si adatta a vivere quotidianamente – e soggettivo – il male che alberga, radicale, nel cuore umano. Il tema, certo ambizioso, è avvicinato con riserbo e delicatezza. La presa di distanza si concreta non solo nella distanza storica dell’epoca narrata rispetto all’oggi, ma anche nella voluta neutralità linguistica – la lingua di Pontescuro non è mai mimetica e non fa il verso al popolo o al periodo storico, bensì è piana e astorica – e narrativa: la forma scelta si avvicina molto a quella della favola, con ampio uso di prosopopee e cauti simbolismi. Soprattutto quest’ultimo aspetto, quello favolistico, si incarica di portare la riflessione dell’autore: affiancando il punto di vista del narratore onnisciente a quelli di alcuni protagonisti (una focalizzazione multipla che in quanto priva di rigore evita il rischio di un’astratta metodicità), Ragagnin dà voce alla nebbia, al fiume, al ponte, al cadavere della ragazza, a una ghiandaia, a una blatta; oltre al narratore, sono quindi i testimoni innocenti o le vittime a prendere la parola, a rispecchiare il male che alligna intorno a loro e contro di loro. Allo stesso modo, nonostante l’introduzione di un ispettore di polizia, sorta di anti-Ingravallo prossimo alla pensione, giunto da Roma con scarso interesse per le beghe di provincia, i fatti materiali relativi al delitto non prendono mai il sopravvento sulla riflessione morale. L’arrivo dell’ispettore non rende centrali l’investigazione sull’omicidio, il contesto sociale in cui questo matura, la congiura contro il povero innocente e la sua fuga salvifica. L’ispettore, anzi, occhio estraneo e acuto (anche la sua è una delle voci del romanzo), ha un’altra, duplice, funzione: da un lato, riconoscere e avallare sia il crimine sia il depistaggio, accettando la falsa ricostruzione che gli viene proposta e che torna comoda a tutti, anche ai pigri funzionari della capitale; dall’altro, soprattutto, raccogliere attorno al corpo della vittima, nella chiesa del paese, i veri colpevoli della vicenda – il fattore-assassino, il prete senza fede, il padre-padrone, la serva invidiosa, degni rappresentanti del villaggio di Pontescuro – nel momento preciso in cui una tempesta di uccelli suicidi si schianta contro la chiesa, contro il campanile e le vetrate, inscenando un olocausto di innocenti, un sacrificio volontario come riprova e sanzione metafisica del carattere maligno, disperato, inaccettabile delle scelte umane. 

È con queste parole che Alessandro Barbero, storico, scrittore, docente, divulgatore, “amico della domenica”, saggista, editorialista, vincitore del premio Le Goff, presenta all’edizione di quest’anno del più prestigioso premio letterario italiano, di cui è stato anni fa, per poi dimettersi, membro del direttivo, l’opera di Ragagnin, artista, autore, paroliere, vero e proprio virtuoso della letteratura nelle sue molteplici declinazioni che dimostra e conferma una volta di più, qualora fosse necessario, la fertilità della sua vena narrativa, che irrora e nutre nel profondo ogni pagina, ogni frase, ogni lemma, dipanando come una calda matassa dinnanzi agli occhi del lettore le numerosissime possibilità della parola e dell’arte, che ha tante declinazioni quante sono le sensibilità individuali: Pontescuro, romanzo davvero ottimo, è immaginifico, allegorico, intenso, ricchissimo di livelli di lettura e chiavi d’interpretazione, caleidoscopico, raffinato, in grado di valicare il genere rifuggendo ogni possibile accostamento o paragone, di trasformarsi come Proteo a ogni volgere di pagina in qualcosa d’altro, ed è la storia di un luogo-non luogo nella bassa padana, laddove la nebbia fa da padrona, un posto dell’anima, quello in cui s’annida il male che in un anno, il millenovecentoventidue, ricostruito in modo impeccabile e al tempo stesso capace di farsi ritratto universale di ogni tempo di prevaricazione e dittatura, in cui il male della perdita della libertà s’affaccia nelle vite di un popolo intero, fa una vittima innocente, bellissima. E la colpa ricade su…

Qui l’articolo originale: https://convenzionali.wordpress.com/2019/03/11/pontescuro/