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È risaputo che in generale non c’è nulla di più difficile che scrivere d’amore e questa affermazione apodittica è tanto più vera oggi, nell’epoca del disincanto che ci è toccato in sorte di vivere. Ebbene, sapendo questo (perché lo sa, fidatevi), è proprio di amore che il giovane Tomas Bassini ha scelto di parlare nella sua opera d’esordio e per giunta di quello più ostico da raccontare, quello che finisce nella solitudine e nell’abbandono.
Ora, detto così, il lettore potrebbe legittimamente pensare che Quando eravamo portieri di notte (Miraggi Edizioni, 2017) sia uno di quei romanzi tristi e tormentati che stillano lacrime e sangue, una cosetta leggera come I dolori del giovane Werther o peggio ancora Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Invece no, niente di più diverso.
Sia chiaro, il tormento c’è (e come non potrebbe) e si estrinseca in un ininterrotto flusso di coscienza per l’intero libro, ma lo fa con una voce ironica e scanzonata, a volte anche un po’ cinica e, soprattutto, autentica, che non solo non opprime il lettore, ma anzi molto spesso riesce perfino a strappargli un sorriso. Questo è senza dubbio il merito maggiore dell’autore, quello cioè di raccontare la sua storia con uno stile che, nonostante la gioventù anagrafica e letteraria, è già adulto, riconoscibile e personalissimo.
É bene dirlo subito, non è che l’agile volumetto di cui stiamo parlando (160 pagg. in tutto, compresi i ringraziamenti) sia del tutto esente da pecche. D’altra parte stiamo parlando di un esordio dopotutto, per quanto brillante. Al di là del titolo e della copertina infatti, entrambi non felicissimi a mio modesto parere (ma di questo non possiamo certo dare la colpa al Bassini), bisogna ammettere che talvolta il nostro gigioneggia un po’ troppo e si lascia trasportare dal suo stile brioso verso altezze inafferrabili. Ma si tratta di peccati veniali che personalmente sono più che disponibile a perdonare se li confronto col piacere di una prosa libera e non paludata, così rara nel panorama letterario nostrano, e che infatti affonda le radici, almeno a mio avviso, nel romanzo nordamericano contemporaneo (da Fante a Bellow fino al Richler de La versione di Barney) e scusate se è poco.
Un ultimo accenno lo meritano i personaggi del libro sui quali ovviamente giganteggia il protagonista e voce narrante (a proposito, sarebbe interessante sapere quanto c’è di autobiografico in questo libro) che occupa la scena dalla prima all’ultima riga con le sue sventure vere o presunte, i suoi incontri e, naturalmente, il suo cuore infranto. Riuscitissimo esempio di antieroe moderno calato in una realtà provinciale che però, fuori da ogni cliché, appare più simpatica e accogliente che cupa e matrigna. Tutti gli altri girano vorticosamente intorno a lui e ne sono in un certo senso l’emanazione, tutti meno uno, Lei, l’ossessione, l’amore perduto che incombe sulla narrazione come un fantasma che egli non riesce ad esorcizzare (o, più probabilmente, non vuole) e che in realtà è ancora presente in ogni sua azione e in ogni suo pensiero, fino a divenire la musa dispettosa dell’intero racconto.
Concludo dicendo che a me Quando eravamo portieri di notte è decisamente piaciuto e mi sento di consigliarlo spassionatamente al pubblico striminzito ed entusiasta che segue questa rubrica. Per quanto riguarda Tomas Bassini, non resta altro da fare che attendere la sua prossima prova letteraria. Vedremo se saprà confermarsi nella forma e magari migliorarsi nella costruzione di una trama più solida e strutturata. Noi lo aspettiamo al varco, ma contemporaneamente facciamo il tifo per lui.