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Dura mater – presentato al Premio Strega 2023 da Maria Teresa Carbone

Dura mater – presentato al Premio Strega 2023 da Maria Teresa Carbone

Il titolo del romanzo di Ada Sirente – Dura mater, o in italiano «dura madre» – è un termine scientifico: indica la più spessa delle membrane che rivestono il tessuto nervoso centrale, una sorta di guscio all’interno del quale, in certo senso a nostra insaputa, si formano i pensieri, le sensazioni, i desideri.
Stesa in un letto d’ospedale, in coma farmacologico in seguito a un intervento al cervello, Mariella ci parla da questo luogo interno e inaccessibile, dove il confine tra i viventi e i morti si assottiglia fino ad annullarsi, e le figure familiari della sua infanzia in un piccolo paese dell’Abruzzo si muovono in mezzo alle sagome anonime e misteriose dei medici. Il suo è, o potrebbe essere, una sorta di lungo sogno ultracosciente; sicuramente dei sogni possiede la vividezza dei particolari e la sonorità nitida di una lingua in cui non c’è soluzione di continuità fra l’eco del dialetto e il lessico della scienza. Nella capacità di governare senza sforzo questo contrasto, nel mettere in scena una contemporaneità stratificata sulla memoria, sta la forza del libro, che presento con piacere al Premio Strega.

QUI l’articolo originale:

Dura mater – recensione di Maria Anna Patti su Casa lettori

Dura mater – recensione di Maria Anna Patti su Casa lettori

“Dura Mater”, pubblicato da Miraggi Editore, racchiude la poetica dell’inconscio.

Esplora l’immaterialità dell’esistenza, il luogo nel quale la rappresentazione del reale e quello dell’irrazionale convergono.

Mostra l’immaginario che ognuno di noi tiene celato.

Apre le porte ad una dimensione onirica, straniante.

Si interroga sul senso della morte e della vita.

Culla le dispercezioni, le amplifica.

Crea un’atmosfera impalpabile, misteriosa.

Dà voce all’indicibile, ai desideri repressi, agli affetti azzerati.

Rimargina le ferite di chi non riconosce più i suoi luoghi.

Trasforma il tempo in una bolla che vaga nell’incertezza.

Mariella, in coma farmacologico, assente per gli altri, riesce a spappolare il silenzio interiore.

Mette insieme ciò che resta del sè e ciò che è perduto per sempre.

La sua parola è vertigine, abisso e luce.

In questo suo viaggio interiore emergeranno le fratture e i conflitti, il confine scivoloso della memoria.

La presenza della terra d’origine si fa viva nel tentativo di aggrapparsi al suolo, alle tradizioni, agli avi.

Ada Sirente ha una prosa poetica nella sua essenzialità.

Modera il linguaggio, lo fluidifica, lo scompone.

Negli stilemi visionari coglie l’attimo nel quale il pensiero diventa protagonista assoluto.

Una prova letteraria carica di quel non detto che ci fa oscillare rischiando di farci affondare.

QUI l’articolo originale:

https://casadeilettori.blogspot.com/2023/03/dura-mater-ada-sirente-miraggi-editore.html

Dura mater

Dura mater

Leggi qualche pagina da dura mater


Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello.
Mariella dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i due luoghi di Mariella: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica, dove sopravvive la memoria della zia Elda e dove talvolta la natura, offesa, porta morte e desolazione.
Una cicatrice segna le due lingue di dura mater: l’affilato gergo medico e improvvisi tratti lirici con radici antiche. Alla fine, la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempe dei contadini abruzzesi, il ripartire sempre da capo insieme al volgere delle stagioni, superando il dolore delle sciagure, sia quelle individuali che collettive delle frane e dei terremoti.

 

Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.

Un solco senza seme è un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.

Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.

Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).

Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).

Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le feriterilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui. 

E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.

Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.

E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.

E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).

Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.

Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.

Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.

A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.

[1] Blas de Otero – En el principio

di Fabio Sarno


QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/un-solco-senza-seme-di-luca-ragagnin/

Dove è passato l’angelo – recensione di Riccardo Cenci su PulpMagazine

Dove è passato l’angelo – recensione di Riccardo Cenci su PulpMagazine

Jan Balabán / Sull’orlo dell’abisso

Martin è uno studente, un brigádnik, ovvero un ragazzo obbligato a sperimentare il lavoro in fabbrica durante gli studi. Si muove in una città mineraria, Ostrava, dalle coordinate oscure, costruita su lande contaminate: “Nemmeno lo sa, di cosa esattamente sente la mancanza”. La sua gioventù è già consegnata alla sconfitta, piegata da un peccato originale che non sa di aver commesso. Non a caso la sua compagna, con la quale coltiva un sentimento impossibile, si chiama Eva. Quando la incontra a Londra nuovamente a distanza di tanti anni, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è come se fossero gli unici due esseri viventi in un mondo morto. Jan Balabán è maestro nel delineare individualità smarrite, perse in atmosfere colme di abbandono. Dove è passato l’angelo, datato 2003, è il suo primo romanzo, oggi riconosciuto come un classico della letteratura ceca.

La perenne minaccia della guerra atomica, che modella il mondo sovietico, è destinata a non concretizzarsi: “non verrà alla luce nemmeno la guerra, di cui il mondo è gravido, sarà abortita dietro lo scudo atomico delle superpotenze, e tutti non faremo che invecchiare senza combattere”. L’immobilismo è la più grande tragedia. Nulla accade, mentre tutto si decompone lentamente: “La spinta delle cose morte, dei pensieri e dei sentimenti morti. Come abbiamo fatto a morire così, e allo stesso tempo a restare in movimento?” La vita trascorsa appare come una misera cosa appassita fra le mani. Le assurdità del mondo socialista, le assemblee pubbliche volontarie, in realtà obbligatorie, perché la mancata partecipazione basta a segnare il colpevole di fronte alla massa, l’individualità occupata da una società estranea, colma di menzogne, la vita trascorsa in una sorta di colonia penale dalla quale Petr, il fratello di Martin, decide di fuggire. I televisori accesi nei palazzoni tutti uguali, per non dover pensare a niente; eppure la testa di Martin seguita a pensare, anche se le parole non servono più a comunicare, ma salpano “come involucri vuoti sulla superficie di un fiume profondo”.

Strutturalmente il romanzo procede per brevi blocchi narrativi, a volte apparentemente eterogenei ma connessi da fili sottili che alla fine vanno a ricongiungersi. Dettagli sul protagonista emergono dalle parole di altri personaggi che nel passato hanno raccolto le sue confessioni. Vite si intersecano come tasselli di un puzzle, al quale mancherà sempre qualche elemento per essere completo. Balabán ha la capacità di evocare atmosfere claustrofobiche, facendo al contempo percepire la vastità dell’universo. È come se i suoi personaggi fossero giunti ai confini del tempo, senza riuscire a varcarli. Sono invecchiati inutilmente mentre i loro sogni, esalati verso il cielo, non torneranno più. Anelano l’eternità, ma è un desiderio vano. Misteriose origini dell’umanità che, secondo Martin, potrebbe benissimo discendere da una spedizione approdata sulla terra centinaia di migliaia di anni fa. Forse il mondo, dopo un’immane catastrofe, tornerà a essere popolato di belve feroci, avvinto da una giungla impenetrabile.

Il desiderio di lasciare il nostro spazio balena in una semplice corsa vista alla televisione, dove le atlete sembrano aver spiccato il volo verso un’altra dimensione. Il mondo attorno a loro scompare, e quelle figure appaiono come esseri puri, percepiti al limitare del mondo materiale prima di svanire chissà dove. Inquietante Balabán, quando pone il limite dell’esistenza fra i quaranta e i cinquant’anni, quasi profetizzando la propria morte improvvisa all’età di quarantanove anni. Le persone si crepano a poco a poco, come gli edifici fatiscenti nei quali sono costrette a vivere, come i paesaggi esausti che sono costrette ad abitare. Stordirsi con la vodka serve a poco, chi beve in solitudine, poi, beve con il diavolo che lo trascinerà nei più neri abissi. Eppure c’era stato un momento in cui la paura, l’ansia di essere ascoltati, interrogati, spiati continuamente, il terrore di sentire bussare alla porta i propri persecutori, era svanita all’improvviso. Aveva lasciato il posto a un vuoto, forse foriero di speranza, più probabilmente vacuo come un effimero sollievo.

QUI l’articolo originale:

“NOVÁVLNA”. Intervista di Antonello Saiz ad Alessandro De Vito

“NOVÁVLNA”. Intervista di Antonello Saiz ad Alessandro De Vito

Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio, incontriamo Alessando De Vito di Miraggi Edizioni, per farci illustrare il progetto editoriale della Collana NováVlna, da lui curata, in occasione anche di uno dei ritorni più attesi di questi ultimi tempi, quello di Bohumil Hrabal che, dopo la raccolta inedita de ” La perlina sul fondo del 2020, è tornato in libreria , alla fine dello scorso anno, con un nuovo libro dal titolo “Compiti per casa (Riflessioni e interviste)”

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Alessandro, a partire da questa frase di Bohumil Hrabal « Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano. » ci racconti qualcosa in più,  qualche aneddoto inedito sulla vita di un personaggio di questo calibro ?

Non è facile trovare aneddoti “inediti”, perché Hrabal ha utilizzato proprio le sue esperienze di vita come materiale per molta parte dei suoi testi. E l’ha fatto potremmo dire “scintificamente”, come si può comprendere dal breve brano che introduce “La perlina sul fondo”. Quello è un elenco formidabile di mestieri diversi, cercati da lui negli anni, come dice, per “sporcarsi”, lui laureato in legge e con pessimi voti a scuola in lingua ceca, con la vita comune e i suoi protagonisti. Non a caso l’altro suo luogo d’elezione, oltre fabbriche ferrovie magazzini e officine, era senza dubbio la birreria, perfetto e variopinto crogiolo in cui i discorsi delle persone si mescolano e accavallano senza sosta, con le mille storie ed esperienze che attraverso le parole riprendono vita. Da un lato era una ricerca di umanità, anche di commozione, una  partecipazione intima al consorzio umano, alle malinconie e alla fragilità della vita, su cui non si può far altro che scherzare e bere, che traspare in tutta la sua produzione. I piccoli fatti dei piccoli uomini, che in definitiva però fanno la storia: una tradizione questa, diffusa nella letteratura ceca, dallo Švejk di Hašek ai personaggi di Čapek, alle molte eco della letteratura popolare in tutti i grandi autori.

Questo “sporcarsi” di Hrabal assume anche una notevole forza considerando l’epoca e la situazione politica della Cecoslovacchia sotto il regime comunista. Paradossalmente si potrebbe dire che proprio Hrabal va autenticamente a cercare la vita, le esperienze e le parole del popolo, mentre la letteratura e il cinema di regime magnificavano la vita proletaria in modo assolutamente stereotipato, attraverso cliché assolutamente lontani, statici nella loro fissità ideologica.
E fin qui mi riferivo alla narrativa. Non sono pochi anche i suoi libri di commenti, conversazioni, interviste…
Difficile trovare il fatto inedito, quindi, quanto inutile probabilmente cercare quanto ci sia di vero in tutto quello che ha scritto. Sempre che sia importante.


Alessandro ci inizi a raccontare qualcosa in più su questo libro arrivato in libreria in questo autunno e che raccoglie testi molto vari tra di loro, racconti, articoli, apologhi, riflessioni sulla letteratura e sulla scrittura, resoconti di viaggio, e dal titolo “Compiti per casa”, soffermandoti sullo stile di scrittura che lo caratterizza e le eventuali difficoltà incontrate dalla traduttrice Laura Angeloni?

Come accennavo, è un libro non direttamente narrativo, non si tratta di racconti, novelle o di un romanzo. Ci sono testi che possiamo considerare alla stregua della “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, dove spiega, o piuttosto racconta, la sua poetica. Ho detto “non direttamente” perché in realtà Hrabal non fa altro che raccontare, anche nei punti più “saggistici”, infarcendo ogni brano di dettagli e riferimenti che creano digressioni, aneddoti, altri spunti narrativi. Hrabal racconta di questa sua incessante ricerca di autenticità, dei personaggi, delle storie e soprattutto del linguaggio. Se a prima vista infatti sembra di leggere discorsi comuni, non si può non riconoscere il grandissimo lavoro di cesello di un geniale letterato, a tratti anche sperimentale, con una modalità mai fine a se stessa. La lingua che risuona tra gli avventori accomodati ai tavolacci durante il rapido svuotamento dei boccali delle birrerie e quella dei discorsi degli operai tra i macchinari industriali, tra facezie, sentire comune e nell’incombenza di qualcosa di tragico, è autentica in quanto processata, come da tempo ha riconosciuto la critica, nonostante lui stesso si sia spesso definito un “semplice trascrittore” di ciò che ha incontrato nella vita.

Ovviamente questo appare chiaro al traduttore, nel caso dei nostri due volumi la bravissima Laura Angeloni, con la cura e l’occhio vigile del prof. Alessandro Catalano. Hrabal “reinventa” la lingua, “trascrivendola”. A tratti il suo scritto non è facilmente comprensibile neppure ai cechi, quindi possiamo immaginare la difficoltà (che come si diceva, attenzione, tende a non apparire al lettore). La curatela di un grande esperto è qui fondamentale proprio perché per tradurre Hrabal bisogna saper navigare in tutta la sua opera, non si può improvvisare.
Altri testi sono relativamente più semplici, in particolare le conversazioni e interviste, e a tratti anche molto divertenti. Era un personaggio particolare, se si ha presente l’ambiente delle birrerie praghesi spesso si ha l’impressione di sentire anche quei gusti e odori, e sentire il chiacchiericcio di fondo. Non è casuale che molte interviste con lui si siano svolte in birreria, che alla storica birreria Alla tigre d’oro siano andati a bere con lui il presidente Clinton e il presidente ceco Havel (e che, si parvissima licet, lì gli abbia stretto la mano anche io, in un fumoso pomeriggio dei primi anni Novanta).


Compiti per casa è prima di tutto una raccolta di piccole gemme del grande scrittore ceco, ma diventa anche una porta di accesso privilegiata per entrare e approcciarsi al mondo di Hrabal. Sono passati quasi tredici anni dalla creazione di Miraggi e già diversi anni dal progetto di questa Collana innovativa, ci vuoi spiegare da quale urgenza nasce la Collana e poi come si incastra la scelta di questo lavoro accurato sulle opere di uno dei più originali scrittori cechi del Novecento all’interno di NováVlna e se ci vuoi raccontare anche le prossime novità e scoperte?

Qualcuno potrebbe dire che per approcciare l’opera di Hrabal sia meglio partire da uno dei suoi celebri romanzi, dai suoi capolavori. E sicuramente “Compiti per casa” è un libro che potrà far leccare le dita al lettore che già conosce e ama Hrabal, ma credo anche che, quando un autore è così un tutt’uno con la sua opera, cominciare a “parlarci” (questa è l’impressione) come se lo si incontrasse davanti a un boccale di Plzeň possa essere un ottimo primo approccio. Hrabal ci cattura, personalmente io devo stare attento, se distrattamente (e lo faccio spesso) apro a caso un suo libro e mi metto a leggere, rischio di ritrovarmi che sono passate due ore senza rendermene conto.

La collana, che ci è piaciuto chiamare come la Nouvelle Vague cecoslovacca, soprattutto cinematografica, degli anni Sessanta, nasce dopo che abbiamo cominciato a dedicarci alle traduzioni, nel 2016. Nel giro di poco, soprattutto per mio impulso, dato che sono per metà di origine ceca, le traduzioni dal ceco sarebbero state così tante rispetto alle altre che è parso una logica conseguenza fondare una collana a sé. Inoltre da molti anni mancava in Italia una collana dedicata alla sola letteratura ceca…
Già dall’inizio abbiamo pubblicato un panorama di nuovi autori , in verità quasi tutte autrici – sarebbe un discorso interessante da affrontare anche questo – insieme al recupero di alcuni classici, o mai tradotti o in nuove traduzioni, dopo che erano passati decenni dalle prime. Confrontarsi con il genio di Hrabal è venuto naturale, e cercare di colmare le lacune di traduzione anche.
Sia attraverso i testi del passato sia con quelli contemporanei inoltre mi sembra interessante contribuire a far conoscere meglio e creare un ponte tra la cultura italiana e quella ceca, che mi sembrano ancora considerate molto più distanti di quanto dovrebbero. Dico solo che spesso conosciamo meglio letterature lontane, più o meno esotiche, capaci di imporre variamente il loro modello, e ignoriamo chi siano i nostri vicini di casa europei. In questo senso mi sento nel pieno della funzione, se non della missione, di una piccola casa editrice di progetto, e devo sempre ringraziare del supporto le istituzioni culturali ceche, con cui spesso collaboriamo splendidamente.
Vedo che man mano il nostro seguito aumenta, mi pare che anche libri “particolari” trovino il loro pubblico, non secondariamente grazie al sostegno e alla fatica quotidiana dei librai che se ne innamorano.
Invito tutti a continuare a seguirci: nei prossimi anni continueremo a pubblicare autrici e autori straordinari come Bianca Bellová, Markéta Pilátová, Tereza Boučková e Jan Balabàn, e tra i classici abbiamo in lavorazione ben tre libri del grande Škvorecký, e una graphic novel sulla vita del celebre corridore Emil Zatopek, dopo quella tratta da RUR di Čapek, con l’origine del nome “robot”. Ma la novità più “pesante”, in senso buono, di quest’anno, sarà un libro che è davvero un’impresa al limite della follia, per il quale di nuovo devo ringraziare le capacità e la sconfinata passione di Laura Angeloni.  Si trada di “Ore di piombo”, un romanzo di circa 1000 pagine scritto da una grandissima autrice ceca, Radka Denemarková, già insignita di molti premi, e figura di intellettuale impegnata su diversi fronti. Già tradotto in Germania (tra l’altro la Denemarková è la traduttrice ceca del Nobel Herta Müller), è previsto in uscita per settembre, ed sarà uno di quei libri che fanno epoca, il grande romanzo dei nostri tempi, del cosiddetto “secolo cinese”, che affronta in tutta la sua complessità con risultati straordinari. Uno di quei libri-mondo che anche dal punto di vista editoriale presuppongono una certa dose di incoscienza. Miraggi, presente!

Buona Lettura, a questo punto, de “La perlina sul fondo ” e ” Compiti per casa ” di Bohumil Hrabal e di tutti i meravigliosi libri della Collana NováVlna

QUI l’articolo originale:

Nell’armadio – recensione di Guido Biondi sul Fatto Quotidiano

Nell’armadio – recensione di Guido Biondi sul Fatto Quotidiano

Una vita nell’armadio: la scelta di Hana per sopravvivere a se stessa

DIVENTARE INVISIBILI – La scrittrice ceca Tereza Semotamová ci offre una storia di rifugio e menzogne nella quale ognuno può ritrovare un periodo della propria esistenza. O del proprio vestiario

Per chi è pratico dei videogames vintage, Asteroids è stato un vero e proprio mentore: è stato – prima delle fiction – una interfaccia nella quale il giocatore può seguire un filo logico e razionale oppure, e qui vi è il gusto, premere il tasto hyperspace. Con questa funzione sapevi bene dove uscivi – quasi sempre una situazione di pericolo – ma accettavi il rischio di riapparire in un contesto ancora più drammatico di quello che abbandonavi. Hana, la protagonista del romanzo Nell’armadio della scrittrice ceca Teresa Semotamová (Miraggi Editore, traduzione di Alessandro De Vito), tenta qualcosa di analogo per fuggire dagli schemi precostituiti della società. Si muove come un Hobo, senza un faro ascoltando solo il suo cuore grondante di dolore: “L’amore è come scolpire qualcosa di meraviglioso nell’aria. Non fa che svanire ma noi siamo convinti che perduri e che lo veda anche l’altro. Come accade che due solitudini che si uniscono a volte formino una cosa viva e altre volte generano solo una specie di galera kafkiana?”. La storia è ambientata a Praga, città nella quale la protagonista rientra dall’estero: non ha una casa, non ha idea di come sbarcare il lunario e racconta bugie alla madre e alla sorella. Proprio quest’ultima, nell’atto di sbarazzarsi di un vecchio armadio, darà inizio all’iperbolica vicenda di Hana, capace di sistemare nel cortile della casa della sorella il prezioso nascondiglio per scappare da tutto e tutti.

“I’m not Here, This Isn’t Happening” cantava in un lamento malinconico Thom Yorke dei Radiohead, metafora dell’incapacità di sentirsi la persona giusta al posto giusto. Estraniarsi per sopravvivere, diventare invisibili per scelta, mentire per confondere, amare senza essere compresi, affogare la propria inadeguatezza alle regole sociali nell’alcool. “Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì, non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo”.

In una recente intervista l’autrice ha dichiarato che desiderava descrivere l’agonia di quando non si è più in grado di dire agli altri che le cose non vanno bene e si inizia a mentire anche a se stessi. “Non ci sono più. No, sono nell’armadio. È notte. Anzi, è notte fonda e stringo la fiaschetta. Con le mani intirizzite e l’umore di quando si va in campeggio che stavolta però non finirà mai, perciò sarà difficile fare il conto alla rovescia dei giorni che mancano. Fisso il buio pesto e mi dico: Ehi razza di materia oscura, devo aspettare il tuo grande collasso o tornare a insinuarsi nel regno del sonno?”. Flashback continui su relazioni sentimentali con data di scadenza sorpassata si alternano a flussi di coscienza su ogni aspetto dell’umanità: “Gli adolescenti di solito hanno un periodo di ribellione in cui si allontanano dai genitori perché non li sopportano. Spesso quel periodo perdura. Essere sfuggenti con loro significa sfuggire a ciò che non sopportiamo di noi stessi, perché per due terzi siamo la copia di chi ci ha generato. Si tratta di venirci a patti, in qualche modo”. E la chiosa è per i loser: “Dicono che in ognuno di noi ci siano due lupi: uno buono e uno cattivo. E prevale quello che nutri di più. Quando la mente è completamente serena, allora quello che hai corrisponde a quello che vuoi. Se invece desideri una realtà diversa da quella che è, allora è come insegnare a un gatto ad abbaiare”.

Nell’armadio – intervista di Martina Mecco a Tereza Semotamová su andergraund

Nell’armadio – intervista di Martina Mecco a Tereza Semotamová su andergraund

Un armadio tutto per sé. Intervista a Tereza Semotamová, autrice de “Nell’armadio”

La casa editrice Miraggi Edizioni si riconferma il progetto editoriale più importante in Italia per la ricezione e la diffusione della letteratura ceca. Con Nell’armadio (Ve skříni) di Tereza Semotamová la collana Nová Vlna, interamente dedicata per l’appunto alla letteratura ceca, arriva a ben quindici titoli pubblicati negli ultimi tre anni. In particolare, si aggiunge un tassello alla scoperta della scena letteraria contemporanea di un paese particolarmente florido sotto questo aspetto. Il romanzo Nell’armadio, pubblicato in Repubblica Ceca nel 2014 e tradotto in italiano da Alessandro De Vito, è un’ulteriore conferma di questo aspetto, già evidenziato da altre grandi voci tradotte nella collana come quelle delle autrici Bianca Bellová, Tereza Boučková o Jakuba Katalpa.

Tra le tante necessità della letteratura contemporanea, una delle più complesse si prefigura nel tentativo di problematizzare la dimensione psicologica dell’individuo all’interno di un duplice rapporto, ovvero quello con la propria individualità e quello con la dimensione sociale esterna. Due entità che, in aggiunta, entrano spesso in conflitto tra di loro. Nel romanzo, narrato rigorosamente in prima persona, la protagonista si trova a dover scontrarsi con questa problematicità. In un mondo dove la drammaturgia della vita segue una follia diabolica (p. 21) e dove la propria individualità viene continuamente recisa, l’unico modo per sopravvivere sembra essere quello di trovare uno spazio, un luogo tutto per sé – usando un’espressione woolfiana particolarmente nota. O, volendo impiegare un riferimento presente anche nell’opera, si potrebbe citare la canzone di Karel Gott “Kdepak, ty ptáčku, hnízdo máš?” (Uccellino, dove ce l’hai il nido?).

Il romanzo presenta una trama tutt’altro che arzigogolata, dove gli avvenimenti che fanno da cornice ai pensieri e alle riflessioni della protagonista si distribuiscono in modo chiaro e lineare. Tuttavia, sono proprio quest’ultimi a conferire dinamismo all’opera. Volendo dunque attingere a questa “cornice”, occorre evidenziare quello che è l’avvenimento chiave del romanzo, ovvero quello da cui l’azione si evolve. Difatti, proprio nelle prime pagine viene focalizzata l’attenzione su un fatto tutt’altro che bizzarro, la necessità della sorella della protagonista di liberarsi di un vecchio armadio. Nel riflettere sui vari tentativi riguardo a come sbarazzarsi del vecchio armadio, improvvisamente questo diventa la chiave che potrebbe risolvere una difficile condizione esistenziale. L’armadio assume così un valore metaforico all’interno dell’opera in rappresentanza di uno “spazio altro”. Si osservi come viene descritto all’interno del romanzo:

Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino così per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo. All’improvviso comincia a scorrermi in corpo una calda energia vitale.” (p. 10)

A partire dalla decisione di vivere nell’armadio si dipana la vicenda narrata nel romanzo, che diventa luogo di un percorso esistenziale. Il piano dell’esistenza è, infatti, quello dominante. Per districarsi nella sua complessità l’autrice costruisce la sua prosa sulla base di una fitta rete dei riferimenti eterogenei. A questo proposito, una delle caratteristiche più interessanti della struttura del romanzo risiede nella sua intertestualità. La prosa dell’autrice procede inserendo citazioni tratte da diverse fonti, non solo letterarie ma anche, ad esempio, cinematografiche e musicali. Si trovano citati autori come il Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere o il Dostoevskij de I demoni, ma anche lo slovacco Juraj Jakubisko, regista del celebre film Sedím na konári a je mi dobre (Sono seduto sul ramo e mi sento bene). Aderendo a una di quelle caratteristiche che vengono comunemente attribuite alla letteratura cosiddetta “postmoderna” – sebbene il concetto di postmodernismo sia particolarmente vago, specialmente se applicato a contesti come quello ceco – Semotamová inserisce la sua opera in un dialogo con la tradizione culturale, in primis letteraria, non solo ceca ma mondiale.

Concludendo questa breve presentazione, in modo tale da lasciar maggiore spazio alle parole dell’autrice che si è dimostrata disponibile nel rilasciare un’intervista, è necessario riconoscere come Nell’armadio si presenti in termini di un’opera profondamente attuale. Nel romanzo l’autrice presenta al lettore una condizione esistenziale quanto mai applicabile a diverse situazioni che affliggono gli individui all’interno dell’attuale conformazione sociale. A prendere parola è una voce narrante che esprime i suoi bisogni di trovare il proprio spazio, un “posticino nascosto” in cui poter costruire un equilibrio senza che questo venga minato dell’esterno. In questo senso l’armadio diventa il luogo in cui costruire una dimensione esistenziale in cui il mondo assume un ritmo diverso. Ne Nell’armadio si realizza una disamina della quotidianità quanto mai contemporanea.


Riportiamo qui di seguito l’intervista con l’autrice Tereza Semotamová che ringraziamo per la disponibilità nel rispondere ad alcune domande.

MM: Innanzitutto le vorrei chiedere come ha deciso di iniziare a scrivere romanzi. Se non sbaglio, ha studiato sceneggiatura e drammaturgia…

TS: Ho sempre scritto prosa. Sin da bambina finivo di scrivere dei libri che leggevo se, per esempio, non mi piaceva il finale. In Repubblica Ceca di fatto non si può studiare come scrivere in prosa, ho pensato che mi sarebbe potuto piacere studiare sceneggiatura e drammaturgia. Si è scoperto che molti cineasti in Repubblica Ceca sono anche registi e sento di non avere questo talento. Ho scritto diversi drammi radiofonici ma non sono mai stata soddisfatta di ciò che realizzavo. Questo è stato un grande incentivo per scrivere un romanzo. Ma, a dirla tutta, ho sempre voluto scrivere un romanzo. Almeno da quando, per la prima volta, ho letto Piccole donne di Louise M. Alcott.

MM: Nel suo romanzo c’è una forte intertestualità che il traduttore Alessandro De Vito ha saputo ben trattare con l’impiego di note esplicative che sono necessarie, in quanto alcuni riferimenti non sono comprensibili al lettore comune. Come spiegherebbe questo aspetto e, soprattutto, che ruolo gioca questa intertestualità nella stesura di un romanzo?

TS: Forse queste spiegazioni non turberanno il lettore italiano. Mi piacciono davvero molto. Per me l’intertestualità è una caratteristica naturale della letteratura. Molta di questa intertestualità non è riconoscibile… Non mi vergogno delle mie fonti. Ma va detto che l’originale non comprende spiegazioni o fonti, quindi potrebbe non essere così evidente quante ne ho “copiate”. Mi viene in mente che la letteratura è un grande acquario in cui è possibile immergersi, molto è già stato scritto e detto, quindi perché non usarlo. Sono una persona che sta continuando a scrivere qualcosa. Penso che il bello della letteratura risieda nel fatto che si possono seguire i pensieri di altri e coglierli a modo proprio.

MM: Da questo punto di vista, ci sono riferimenti letterari che preferisce? Mi spiego: ha qualche modello concreto?

TS: No. In questo sono molto democratica. Cito volentieri sia Platone che la stampa scandalistica. Nel mio caso si tratta di una visione bizzarra su qualcosa, di uno stile basso o strano.

MM: Le faccio una domanda che faccio sempre a tutti gli autori con cui parlo. Cosa ne pensa della scena letteraria ceca contemporanea? Glielo chiedo in quanto ritengo sia parecchio ricca ed eterogenea.

TS: Credo che ogni scena letteraria venga percepita da lontano come ricca ed eterogenea. E penso che nel caso di quella ceca sia proprio così. Negli ultimi anni, soprattutto, ci sono molte giovani autrici che non scrivono in modo mainstream. E, al tempo stesso, anche la scena poetica è parecchio dinamica. Penso che qui ognuno possa trovare il proprio posto. Tuttavia, mi mancano voci maschili che scrivano in modo intelligente di temi come il femminismo o la paternità. Leggerei volentieri qualcosa del genere.

MM: Durante la lettura mi è sembrato chiaro, mi dica se mi sbaglio, che lei abbia voluto descrivere la società contemporanea, anche il suo lato più oscuro. Pensa che possa essere una buona descrizione? La protagonista del suo romanzo si confronta con molte domande oggi importanti…

TS: Esatto. Al tempo stesso il libro si può leggere come un racconto intimo, non tutti possono vederci un aspetto sociale. Non volevo proprio descrivere la società contemporanea, non è proprio possibile, ma piuttosto raccontare la storia di una persona che nella società non si sente bene e che si sente tutt’altro che normale, ovvero di vivere da qualche parte a andare al lavoro da qualche parte, scappare dentro un armadio. Penso che a volte ognuno di noi senta questa voglia di nascondersi da qualche parte.

MM: Nel libro gioca un ruolo importante l’armadio come simbolo, che rappresenta la dimensione psicologica della protagonista… Potrebbe spiegarlo brevemente? Da dove proviene l’idea?

TS: L’idea, in realtà, è nata in modo banale. Mia sorella mi aveva chiesto se conoscevo qualcuno che avesse bisogno di un armadio. Ero in visita da lei e vivevo in Germania. La domanda nella mia testa era come sarebbe stato prenderle l’armadio, portarlo giù nel suo cortile e viverci. In un certo senso in quel momento avevo bisogno di scappare dalla situazione che stavo vivendo e mi era sembrata una buona soluzione. Alla fine l’ho fatto in un modo un po’ diverso. E, per il resto, questa dimensione psicologica è particolarmente esistenziale. La mia protagonista trova la forza di scappare da ciò che è estraneo, ma non trova la forza di continuare ad agire e così si nasconde nell’armadio. Solo che poi l’estate finisce e si chiude dentro. E con questo? Volevo scrivere di quest’agonia, di quando qualcuno sta davvero male, di quando non si è più in grado di dire agli altri quanto le ose vadano male e quindi si nasconde fingendo anche davanti a sé stessi che vada tutto bene. Ma non è così.

MM: Un’ultima domanda: ha intenzione di scrivere  altri romanzi?

TS: Sì, certo. Ma forse non succederà. Non lo so proprio. Ho un bambino molto piccolo e posso scrivere davvero poco, il che mi dispiace perché penso che la maternità sia un tema molto ampio e mi piacerebbe parlarne, ma semplicemente non trovo abbastanza tempo ed energie. Chi ha letto Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf penso mi possa capire appieno.

Apparato iconografico:

Immagine di copertina: novinky.cz

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RUR – recensione di Gianfranco Franchi su Mangialibri

RUR – recensione di Gianfranco Franchi su Mangialibri

Futuro prossimo. Fabbrica Rossum’s Universal Robots. È giorno di presentazioni, si annunciano nuove invenzioni rivoluzionarie. Il direttore Domin domanda e si domanda: “Qual è, secondo voi, l’operaio migliore? Quello affidabile? Onesto? Niente affatto. Il più economico. Quello con minori bisogni. Il robot”. E cosa sono questi nuovi “robot”? Sono uomini senz’anima: uomini artificiali, meccanicamente perfetti. L’uomo è un “prodotto imperfetto”, forse perché Dio non era tecnologicamente così evoluto; i robot, invece, hanno un altro equilibrio. Sono parecchio più performanti. Stacco. Cocktail post presentazione. Ordini già in arrivo da mezza Europa. Helena Glory si presenta al direttore, con un biglietto di suo padre, il presidente Glory. Vorrebbe tanto poter vedere (in via eccezionale, si capisce) le segrete stanze della fabbrica. È figlia di un presidente: può entrare. Il direttore Domin promette che le mostrerà tutto: ecco le vasche (ciascuna contiene materiale per mille robot), ecco la storia della scoperta. Nel 1920, diverso tempo prima, il vecchio Rossum era sbarcato su quest’isola per studiare la fauna marina; voleva riprodurre, tramite sintesi chimica, la materia vivente detta protoplasma, finché non aveva scoperto un’altra sostanza che si comportava proprio come la materia vivente ma aveva una diversa composizione chimica. Ciò succedeva circa 12 anni più tardi, nel 1932. Quella scoperta era, concretamente e tecnicamente, un grumo di gelatina apparentemente senza senso. Rossum poteva, a quel punto, dare vita a qualunque genere di creatura, con quel grumo: aveva invece deciso di ricreare l’uomo. “Ma voi li fate davvero gli uomini?”, domanda lady Glory. “Più o meno”. Il vecchio Rossum era ateo, era materialista: pensava di poter spodestare Dio e ricreare ex novo un uomo, fino all’ultima ghiandola. Poi era arrivato suo nipote e gli aveva detto che era ridicolo impiegare addirittura dieci anni per replicare un uomo, serviva essere più veloci di madre natura. Quel giovane rappresentava la nuova epoca, davvero! Aveva capito che un bravo ingegnere poteva migliorare l’essere umano, perfezionandolo qua e là; cavando via qualche ghiandola, l’appendice, le tonsille, tutta una serie di cose inutili. Tipo i sentimenti, per capirci. “L’uomo ha bisogno di fare tante cose inutili”, spiega il direttore. “Fare passeggiate, suonare il violino, provare gioia. Sono cose inutili quando c’è da fare calcoli, tessere stoffe, lavorare…Vede, a un motore non servono ornamenti. E produrre robot è come produrre motori”. E così, il giovane Rossum aveva buttato via l’uomo per creare un uomo nuovo, chiamato robot: un operaio prodigioso dalla memoria eccezionale. Oppure una cameriera, una commessa, una dattilografa. Indifferente che fosse maschio o femmina. Il robot non aveva comunque passione e non aveva sentimento. “I robot sono più perfetti della natura ma non possono inventare niente di nuovo. Potrebbero benissimo insegnare all’Università”. Ogni giorno vengono prodotti quindicimila nuovi robot. I più longevi durano anche vent’anni. Poi si deteriorano e vanno rottamati come si deve. Non serve farsi scrupolo: non sono attaccati alla vita, non ne hanno motivo. Non provano più emozioni. Non vengono dotati di anima perché non è nell’interesse della fabbrica. Costerebbe troppo a livello di produzione…

1920. Nella distopia R.U.R. Rossum’s Universal Robots, opera di Karel Čapek, viene coniato il termine “robot”: viene dalla parola ceca “robota”, diventerà qualcosa di estremamente comune. L’invenzione della parola “robot” si deve al fratello di Čapek, Josef, pittore; Karel aveva pensato a un più didascalico “labor”. Questa la vulgata. 2020. Cento anni più tardi, Kateřina Čupová pubblica questa graphic novel, per la Argo di Praga. Secondo Luca Castelli del «Corriere della Sera», “di luce e colori abbondano le tavole della Čupová, che con l’autore dell’opera condivide la nazionalità, le iniziali e l’età in fase di creazione (è nata a Ostrava trent’anni fa). Il suo tratto elegante, gentile, quasi giocoso, discendente dalla tradizione dei cartoni animati dell’Est Europa, aiuta ad alleggerire una trama che spesso lambisce scenari cupi alla Metropolis di Fritz Lang (film che risentì parecchio dell’influenza di R.U.R.)”. A dar retta a Maurizio Di Fazio de «la Repubblica», si tratta di una “rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca”. Nella postfazione, il professor Alessandro Catalano puntualmente osserva che durante questi cento anni, a partire dall’invenzione di Čapek, “il robot, multiforme alter ego dell’uomo, sua copia infedele, spesso aggressiva, ha subito mutamenti sostanziali”: tanto che, paradossalmente, oggi è più famosa la parola “robot” che l’opera sua matrice, R.U.R. Rossum’s Universal Robots. “I robot hanno infatti da subito iniziato a vivere di vita propria, fino alla definitiva identificazione con l’essere artificiale antropomorfo di tipo meccanico, dominante a partire dalla fine degli anni Venti e infine istituzionalizzata da Isaac Asimov e dalle grandi saghe cinematografiche”. In R.U.R. Invece il robot è un essere umano “dalle ridotte esigenze e dalla maggiore efficienza lavorativa”. Cosa che, politicamente e simbolicamente, in genere, ha ben diverso peso e ben diversa consistenza. Direi che la distopia del notevole Karel Čapek (Malé Svatoňovice, 1890 – Praga, 1938) aveva parecchi elementi di visionaria critica ai totalitarismi figli del socialismo: i suoi “roboti” sembrano quei cittadini-sudditi cinesi della nostra epoca, estranei a qualunque forma di protesta e di ribellione, vuoti e obbedienti e quando serve aggressivi e famelici, come formichine. I robot di Čapek conosceranno una sorte differente da quella che avevano previsto i loro progettisti, in fabbrica: speriamo che sia così per gli “inconsapevoli automi” derivati e originati dai dispotismi asiatici e dai totalitarismi di nuova generazione. L’opera è stata pubblicata dalla Miraggi di Alessandro De Vito & c. nella nuova e promettentissima collana MiraggInk, con il contributo del Ministero della Repubblica Ceca. Siamo dalle parti di quei fumetti che scintilleranno di grazia e di intelligenza per diverse generazioni, nelle vostre biblioteche. Compratelo e fatelo leggere ai vostri bambini e ai vostri ragazzi, spiegate loro che i totalitarismi non sono un gioco e che l’anima e i sentimenti sono tutto quel che abbiamo. Chiudiamo con qualche cenno biobibliografico. Karel Čapek, giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento. Nelle sue opere antesignane e visionarie ha trattato temi delicati e oggi decisivi come l’intelligenza artificiale, le epidemie, l’energia atomica. Kateřina Čupová da Ostrava, Cechia, classe 1992, animatrice e fumettista, si è laureata presso il prestigioso Dipartimento di Animazione all’Università Tomáš Baťa di Zlín. A dar retta agli amici della Miraggi, “il suo stile accattivante e simile a un cartone animato è fermamente radicato in decenni di apprezzata animazione ceca”. Vediamo di apprezzarla a dovere anche quaggiù in Italia!

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Il lago – recensione su Letture in viaggio

Il lago – recensione su Letture in viaggio

Boros, un villaggio affacciato su un lago inquinato e senza nome, si vive principalmente di pesca. Mani, il protagonista, abita con i nonni materni, non sa chi sia il padre e ricorda solo vagamente la madre. Ha tre anni quando lo incontriamo per la prima volta ed è un giovane uomo quando infine, dopo un lungo peregrinare attraverso esperienze difficili e toccanti, torna al paese d’origine.

La sua infanzia spensierata finisce quando anche la nonna lo lascia, costretta dalla comunità del villaggio, guidata dal presidente del kolchoz, a consegnarsi allo Spirito del Lago su una chiatta senza remi. Da quel momento gli eventi precipitano e lui deve provare a sopravvivere in ambienti sempre più tossici, aggrappandosi a pochi brevi momenti di felicità.

La storia di Nami è un racconto di formazione dal sapore universale, perché oltre a essere fuori dal tempo e dallo spazio, ricalca il mitico viaggio dell’eroe, un viaggio che l’autrice, Bianca Bellová, suddivide in quattro capitoli — Uovo, Larva, Crisalide, Imago —, affidando la narrazione in terza persona a una successione di episodi quasi sempre amari e dolorosi.

Il lago è l’altro grande protagonista del romanzo; uno specchio d’acqua inquinato, che gradualmente si ritira, le cui acque provocano eczemi e altri disturbi e il cui Spirito, secondo la gente del villaggio, deve essere nutrito affinché si pacifichi.

Ormai le barche sono così lontane dal molo originario che nella striscia tra il segno dell’alta marea e lo stesso molo i bambini hanno fatto un campo da calcio. È un po’ in pendenza, quindi ad ogni passaggio la palla rotola verso il lago. Dal campo si solleva la polvere e ogni tanto qualche gamba sprofonda nella crosta dura del sedimento. Il molo di cemento, coperto di alghe imputridite, emerge direttamente dalla sabbia incrostata e dal fango, sotto le bitte di ferro sono sparsi i rifiuti.

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

Bellová non si spinge a fondo nell’analisi del protagonista e degli altri personaggi, né ci consegna un finale chiaro e rassicurante. Lascia a noi il compito di interpretare i sentimenti e le ragioni di Nami e dare un senso all’epilogo.

La scrittura è disadorna, caratterizzata da frasi brevi e dall’uso del presente, che accentua l’atemporalità del racconto e pungola l’interesse di chi legge. I principali temi affrontati da Bellová sono la ricerca dell’identità e il rapporto dell’uomo con la natura, una relazione da cui quest’ultima esce sconfitta, ma che ne Il Lago tenta di riprendersi quanto le viene tolto.

— Leggi anche Una misteriosa storia dai Carpazi Bianchi: Kateřina Tučková e le dee di Žítková

L’ambientazione

“Su entrambi i lati della via polverosa che risale la collina sopra il porto sorgono le casupole dei pescatori, alla fine della via ci sono un chiosco con le aringhe e un altro con i semi di girasoli. D’estate arriva anche un venditore di zucchero filato che prende in affitto tutta la vecchia birreria in fondo alla strada. Sono case in muratura, solide, di solito a un piano solo, giusto un paio — compresa quella in cui Nami vive con la nonna — hanno due piani. La chiamano Via dei Pescatori e in sostanza è il cuore del paese.
A ovest della Via dei pescatori si trovano gli edifici adibiti a policlinico, casa della cultura, posta e scuola, e le case degli altri abitanti, costruite senza un chiaro progetto urbanistico. Non ci passano strade in mezzo, le costruzioni emergono dalla superficie in modo casuale, spesso a sorpresa. Ad est c’è il complesso residenziale per gli ingegneri russi, con la meravigliosa piazza e il monumento allo Statista, più oltre verso il bosco che indietreggia sempre più in favore delle case, si trova la caserma.”

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

Nami cresce in un villaggio fittizio e in un periodo storico imprecisato (la mia testa l’ha collocato tra gli anni ‘80 e la fine degli anni ‘90). Sappiamo solo che il territorio è sottoposto al controllo dei russi e che il lago è inquinato e ospita un’isola dove sono stati condotti pericolosi esperimenti biologici.

Il pensiero va quindi al tristemente famoso lago d’Aral, situato tra Kazakistan e Uzbekistan. Sulla sua storia ti consiglio l’ascolto di Il lago che era, una delle puntate della seconda stagione di Cemento, il podcast di Eleonora Sacco e Angelo Zinna (fra i più interessanti in circolazione).

I luoghi del romanzo, desolanti quanto le vicende narrate, sono descritti dal punto di vista di Nami, che cambia con lui. Leggendo, li immaginavo poveri e spogli, fatti di terra e cemento, circondati da una natura maltrattata e matrigna. Compare anche una città, quella dove il protagonista inizia il viaggio alla ricerca di se stesso (e della madre).

Se dovesse descrivere la città, Nami non saprebbe da dove iniziare. I palazzi sono così alti che Nami tende istintivamente a farsi piccolo e i suoi occhi cercano di continuo l’orizzonte. L’aria è piena di clacson che strombazzano, di marmitte che scoppiettano e grida. Una donna rimprovera ad alta voce un bambino che piange. Si sente odore di escrementi, ma anche di profumi dolci e di grasso di frittura. In aria svolazzano fogli sporchi e polvere. Le persone hanno un aspetto un po’ diverso: gli occhi sono più luccicanti, luminosi, e si muovono più velocemente. Anche i cani vagabondi sembra vadano più in fretta. I muri sono coperti di vari strati di manifesti colorati. In basso si staccano, raccogliendo la polvere nell’aria.

IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ

— Leggi anche Le fiabe ceche di Božena Němcová e Karel Jaromír Erben

Te lo consiglio se

Capisco bene cosa intendeva Laura Angeloni, la traduttrice, quando ha scritto “Nami è così, te ne innamori ancora prima di conoscere la sua storia“. Anche io mi sono affezionata a Nami fin dalle prime pagine. Credo abbia colpito (e affondato, aggiungerei) quel lato di me che desidera proteggere, aiutare e guidare e si riconosce nel viaggio dell’eroe. Te lo consiglio se sei pronta/o a immergerti in un mondo spesso brutale, cupo e incolore, dove la tenerezza e la speranza sono merci rare.

Il lago è il quarto libro della scrittrice ceca Bianca Bellová. In Italia è stato pubblicato nel 2018 da Miraggi Edizioni. Ha vinto due premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera. Per approfondirne la conoscenza, ti suggerisco la lettura dell’intervista di Martina Mecco di Est/ranei all’autrice.

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Gaia Ginevra Giorgi – intervista di Filippo Rosso su Singola

Gaia Ginevra Giorgi – intervista di Filippo Rosso su Singola

Mi sono accostato alla poesia di Gaia Ginevra Giorgi, i primi tempi, facendo un po’ di fatica a empatizzare, a tenere insieme i ragionamenti, semmai ce ne fosse il bisogno.
Questo perché la sua opera ha dei margini sfuggenti, a volte ombrosi, mentre altre volte ti sbatte in faccia una parola risonante e carnale, organica, mai orrenda, che stringe i versi come la bocca dello stomaco, e si ricomincia.
Si tratta di una poesia performativa ancora prima delle inclinazioni dell’autrice verso la parola detta e registrata, è ritmo ancora prima del sonoro: e questa parola – “spezzato” – ricorre molte volte, ed è altrettante volte segno distintivo e iniziativo dell’opera. Le aree nevralgiche del discorso si fondano su un’indagine del tempo, sulla memoria, sulle innumerevoli capacità sensibili dei corpi. L’incedere si fa tutt’uno con il divenire.

Come altrove abbiamo dialogato con il poeta nel tentativo di comporre un quadro sulla nuovissima produzione di questa arte in Italia, in cui Gaia Ginevra Giorgi – nonostante il dato anagrafico – sembra occupare un posto sempre più centrale e rivelatorio.

Filippo Rosso – La parola “spezzato” associata al respiro, alla schiena; i versi quasi del tutto priva di punteggiatura che sembrano schegge. E Sylvia Plath, di cui hai analizzato l’esistenza e l’opera, che si toglie la vita a 30 anni… Perché ricorre questa rottura, questa dimensione dell’infranto? 

Gaia Ginevra Giorgi – Spezzare, qui come a dire: fare a pezzi, dividere in parti, sezionare, per vivisezionare. Fare a pezzi per me non ha a che fare con un principio di distruzione, di annullamento, piuttosto con una pratica di frammentazione, che è sempre possibilità generativa di ricomponimento in complessità, secondo un metodo di assemblaggio che si basa sulla ricontestualizzazione, la dislocazione e il decentramento delle parti. Porre l’attenzione sulle parti, sulle pluralità, occuparsi dei margini, delle estremità e delle superfici, diventa metodologia decolonizzante di ricerca linguistica.

Questo sminuzzare analitico – quasi chirurgico – necessita di un corpo. Quali caratteristiche deve possedere questo corpo? È necessaria una certa resistenza strutturale perché possa spezzarsi? È possibile, ad esempio, frantumare qualcosa di fluido, di liquido, o addirittura di sottile, postumo e spettrale? Di cosa parliamo quando parliamo di corpo? Probabilmente di materia pensante, in sé vitale, intelligente e capace di autorganizzazione, umana e non umana, animale e non animale.

La mia poetica si esprime lungo una sorta di asse orizzontale tracciato tra le specie, nell’interdipendenza simpoietica (per dirla con Haraway) tra i corpi, in cui anche gli oggetti sono vivi, pensanti e attivanti. Allora la “dimensione dell’infranto”, dello “spezzato”, ricorre nella misura in cui produce la possibilità di decostruire, per poter leggere le trasformazioni, le mescolanze, le possibili alleanze, includerle nel discorso, riorganizzare le forme del pensiero in una continua negoziazione con il centro, con la norma, con l’istituzione in senso lato.


FR –
 Ci sono delle intersezioni tra il tuo lavoro performativo e la poesia, dei punti di incontro o delle zone mutualmente esclusive?

GGG – Quando il testo poetico si svincola dalla pagina, attraverso un progetto di riaffermazione dell’oralità riarticolata in ottica intermediale, la poesia si trasforma in materia sottile, volatile, spettrale proprio perché performativa. Della performance della parola m’interessa l’apparizione – la postura dell’attraversamento – tutta rivolta verso la costruzione di una nostalgia, dove la nostalgia è meccanismo progettuale e non desiderio malinconico di qualcosa che non è più. Il ricordo che irrompe all’improvviso è già progetto, ciò che viene ricordato torna in circolo sotto forma di spettro.

In effetti, questa è una delle specificità che accomuna la poesia alla performance: il suo manifestarsi come apparizione di una lontananza. Per questo difendo la dimensione performativa della mia ricerca sul testo poetico, e mi mostro reticente rispetto all’ipotesi di registrare un disco. Non rifiuto il dispositivo della registrazione in sé, anzi. Pratico field-recording da anni e mi occupo di paesaggio del suono e di contesto sonoro, conosco il microfono e so che non è un dispositivo “innocente”, registro la mia voce e lavoro su livelli mobili di elaborazione del suono (la ricerca sulla spazializzazione, per esempio – con il sound designer Riccardo Santalucia, con cui collaboro, lavoriamo usando MaxMSP, che è un sorprendente generatore di possibilità a partire dalla sola voce – , l’utilizzo della loop-station, che consente interventi drammaturgici live, quali progressioni, intensità, cut-up ecc.). Ho del materiale registrato in archivio ma si tratta di registrazioni in presa diretta di performance che sono state eseguite live.

Mi disturba, invece, l’idea di organizzare il suono in fase di editing, di intervenire in post-produzione. C’è qualcosa del definitivo, del concluso, del confezionato, che non mi risuona. Difendo l’accadimento. Le parole, a dirle, si avverano e si rinnovano. Ogni volta. Lo studio sulla voce, poi, coinvolge sempre tutto il corpo, la comunicazione orale comporta inevitabilmente la modificazione di uno stato complessivo che impegna il corpo intero. Quindi la voce rende la poesia concreta, abitabile, almeno per il tempo di un attraversamento, di un’apparizione. D’altronde sono questi i tempi della poesia: l’istante, e, allo stesso modo, l’eternità. Con le ricerche elettroniche – scrive Henri Chopin, pioniere assoluto della poesia sonora – la voce è diventata finalmente concreta. In questa prospettiva, la voce è da considerarsi, insieme alla gestualità, come una funzione del testo – per dirla con le parole di un altro grande maestro che è Giovanni Fontana – una sua estensione modale. La dimensione sonora del testo, infatti, collabora in maniera efficace con alcuni punti per me essenziali per poter dire “poesia”: invenzione linguistica, rinnovamento delle strutture del testo (fino alla radicale sovversione del concetto di testualità), processi neo-tecnologici, coscienza intermediale, valori della voce e del corpo.


FR  Le tue poesie, come è stato correttamente più volte notato, si soffermano spesso su parti “attivanti”, qualcuno ha detto “erogene”, del corpo. La sensualità è sicuramente un modo di trasferire carnalità alla parola e -correggimi se sono fuori strada-, in questo rientra il tema della transustanziazione (o detransustanziazione) dei corpi e della poesia. C’è dell’altro che giustifica la presenza di questa dimensione?

GGG  La mia è una poesia dell’esperienza. La ricerca linguistica è tutta tesa verso uno sforzo di traduzione, di tradimento dell’esperienza. Dare i nomi alle cose per avverarle. La relazione con i corpi è qualcosa che mi permette la messa a fuoco. Non inizio mai a comporre a partire da un concetto, ma sempre da un’esperienza immersiva. C’è una sezione del libro in uscita che s’intitola “profezie del corpo. archivio di fatti umani e non umani”, ed è una specie di glossario anatomico sentimentale, in cui tutte le parti del corpo (e non solo quelle erogene, anche se mi chiedo se esista qualcosa di strutturalmente non erogeno) vengono rinominate attraverso un esercizio di memoria e, al tempo stesso, di prefigurazione.


FR – 
Allora mettiamo al centro questo, la memoria. Il passato – la tua poesia sembra dirlo nella performance – può trasformarsi in un’incursione nel futuro?

GGG – La memoria è un tema cruciale, ricorrente, uno dei fuochi che lega “Manovre segrete” a “L’animale nella fossa”. Il lavoro inedito (che è già stato performato live, in perfetta risonanza con il principio di spettralità), si costruisce attraverso il meccanismo della memoria, come fenomeno contrario alla museificazione. La memoria vive di scarti, di paesaggi modificabili, di attraversamenti fantasmatici, è un fatto di smaterializzazione, di quello che era materia e ora non è più, è sostanza plasmabile, trasmettibile, altamente infettante. Forse da questo punto della memoria sarà possibile inventare il futuro, pensare e innescare i nuovi processi. In questo senso forse, come dici, avviene l’incursione del primitivo nel futuro, del memorabile nel prefigurabile.

La memoria crea i vuoti e così facendo apre spiragli, produce uno spazio vivo, autorizza il gioco, rende abitabile. La museificazione, al contrario, fissa e porta a ragione, per questo è una pratica sterile e non vivificante.

Ricordare è una pratica performativa, disegna percorsi, derive, evoca luoghi che sono sempre abitati da spettri, da segnature, da stratificazioni di racconti. La memoria è una finzione, una pratica significante che agisce nelle maglie del reale molto più di qualsiasi altra operazione intellettuale. Inventa il presente. Lo esercita.

Oltre a una sezione intitolata “sullo smembramento e sulla dissoluzione (di tutte le cose)” che, per l’appunto, incarna quello “spezzare” di cui parlavamo prima, la perdita, gli strappi, e le rinnovate configurazioni, con l’ultima sezione, intitolata “la materia ha superato la postura della carne”, si inaugura la riflessione sul residuale, ponendo una domanda: come si chiama quello che resta? La sottrazione diventa metodologia per lasciare alle cose lo spazio necessario per accadere. Dare un nome al residuo, alla cosa più piccola, per conferirle dignità. In effetti, è il residuo il paesaggio che meglio può accogliere nuove specie.

Il libro conterrà anche una sorta di diario, un cut-up di appunti e corrispondenze (materiale raccolto durante il confinamento), in cui emerge la dimensione del corpo postorganico, della materia sottile, del ricordo e del sogno.

FR – Cosa resterà dell’umano in questa dimensione? Sarà ridefinito, ridimensionato, avrà altre caratteristiche? E cosa resterà di te? 

GGG – Evidentemente è già in atto un processo trasformativo dell’umano, è necessario attivare pratiche di defamiliarizzazione, attraverso le quali i soggetti si liberino dalla visione normativa dominante del sé, per comprendere il divenire relazionale in modo molteplice e multidirezionale. In questo senso la teoria femminista e post-coloniale ha messo in campo il concetto di disidentificazione, ma sempre nei termini dei criteri di un approccio antropomorfo, se non consideriamo il pensiero di Braidotti e Haraway. Immagino l’introduzione della dimensione planetaria, cosmica, corpi relazionali, interdipendenti, senza organi, una comunità non più legata dal nesso negativo della vulnerabilità, ma dal riconoscimento empatico della propria interdipendenza con i molteplici altri. Nelle pratiche artistiche e nelle scienze umane è necessario allontanarsi dalla logora postura antropocentrica e spostarsi verso la trasversalità, l’interdisciplinarietà, queerizzare i saperi per una teoria della complessità.

Quanto a me, sarò uno dei fatti del mondo, e continuerò a dare i nomi alle cose, a inventare parole, a generare possibilità.


FR –
 A cosa stai lavorando attualmente? Quali direzioni sta prendendo il tuo lavoro?

GGG – Questo è un tempo molto vivo per i miei studi e la mia ricerca: i processi immaginativi sono attivati e i centri sono fioriti. Si staglia di continuo il territorio della prefigurazione. Ho trascorso l’ultimo anno costruendo architetture effimere dove poter installare il mio osservatorio sconvolgente e tenere gli occhi aperti sul contemporaneo. È da maggio che ciclicamente abito la dimensione del bosco, la foresta, non solo come ciò che sta fuori dallo spazio domestico, ma anche come ciò che sta fuori dalla legge comune, il luogo in cui le regole della civitas non sono più sufficienti. È necessario attraversare la realtà diagonalmente, come fa il teatro, la performance, la poesia, per trovare altre forme di abitabilità e progettualità che si distanzino da una verità singolare e definitiva. Tenere lo sguardo fisso sul buio significa tenere lo sguardo fisso sul presente, scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo, di cui riporto un passaggio.

[…] il poeta – il contemporaneo – deve tener fisso lo sguardo nel suo tempo. Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo? Vorrei a questo punto proporvi una seconda definizione della contemporaneità: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, chi è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. Ma che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”? […] il buio non è la semplice assenza di luce, qualcosa come una non-visione, ma il risultato dell’attività delle off-cells, un prodotto della nostra retina. Ciò significa, se torniamo ora alla nostra tesi sul buio della contemporaneità, che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci. […]

Il suo buio speciale mi si rivela nel decentramento delle affettività, dei desideri. Abitando il bosco, come spazio marginale, notturno, misterico, ci si accorge che i primi elementi a scomparire sono la certezza delle distanze e delle misure. Le alterazioni delle comuni coordinate spaziali coinvolgono tutti i sensi, anche lo spazio acustico e olfattivo muta, attivando i corpi, allertandoli. Finalmente ci si accorge della presenza di altri esseri viventi non umani. Questa distanza mi consente di poter prendere una posizione nello spazio. In questa lucidità, sto precisando e mettendo a punto il mio prossimo libro, che uscirà in primavera e raccoglierà il lavoro degli ultimi quattro anni. È un materiale complesso e spaventoso, che ho tenuto da parte a lungo, che ho lasciato maturare. Mette in campo questioni legate all’improduttività, all’orizzontalità come scardinamento delle gerarchie, alle derive come privilegio degli assenti, dei senza-luogo, si articola in una sorta di materialismo vitalistico, di panteismo ctonio tutto teso alla mescolanza, costellato da innesti e spettri, esercizi di memoria e profezia.

Nel frattempo, sto scrivendo una tesi sui processi intermediali della poesia, precisamente nel campo delle sperimentazioni sonore, e proseguendo il lavoro con il collettivo performativo e curatoriale veneziano EXTRAGARBO, di cui sono co-fondatrice. Si è da poco conclusa la residenza a Santarcangelo di Call Monica, gruppo di ricerca performativa di cui faccio parte, che riflette sullo sguardo come costruzione culturale e vettore di potere, e in particolare sullo sguardo maschile.

In questo momento mi trovo in un ex mulino di pietra, a Latte – che parola elementare – nell’estremo ponente ligure, sul confine con la Francia, dove sto sviluppando un progetto insieme con un’artista visiva (una nekomata) su Terzo (Quarto) Paesaggio, specie pioniere (che durano troppo poco per capitalizzare), affettività, piante infestanti, alieni, fantasmi e liminalità. Pratico regolarmente psicomagia e allestisco altarini.

QUI l’articolo originale:

https://www.singola.net/arti/il-corpo-spezzato-intervista-gaia-ginevra-giorgi

L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

Fare i conti con la disillusione. “L’anno del gallo” di Tereza Boučková

L’anno del gallo (Rok kohouta) è l’ultimo libro edito da Miraggi Edizioni all’interno della collana NováVlna, interamente dedicata alla letteratura ceca. L’autrice, Tereza Boučková, era già stata presentata al pubblico italiano nel 2018 con La corsa indiana (Indiánský běh), sempre pubblicato dalla medesima casa editrice nella traduzione di Laura Angeloni.

Tereza Boučková (1957-) è una delle protagoniste della scena letteraria ceca contemporanea. Figlia del dissidente e chartista Pavel Kohout, firma Charta 77 non appena conclusi gli studi liceali. Questa sua scelta le creerà non pochi problemi, soprattutto in ambito lavorativo, dove si troverà costretta a fare i lavori più disparati, dalla postina alla donna delle pulizie. Nonostante le difficoltà causate dagli anni della Normalizzazione, Boučková è riuscita a ritagliarsi il suo spazio non solo nell’ambito letterario, ma anche in quello della pubblicistica e del cinema.

L’anno del gallo può essere considerato come l’ideale continuazione de La corsa indiana (su Andergraund Rivista è stato pubblicato un articolo dedicato al romanzo nel terzo numero di maggio), romanzo in cui l’autrice affronta temi quali la questione famigliare, la difficoltà della vita negli anni della Normalizzazione e la questione della maternità, protagonista è infatti un io narrante che cerca disperatamente di avere figli. L’opera, inoltre, è profondamente critica nei confronti di personaggi dell’epoca, quale il padre Pavel Kohout e il futuro presidente della Cecoslovacchia Václav Havel, che compaiono con gli pseudonimi di “Indiano” e “Monologo”. Anche L’anno del gallo cela, sin dal titolo, una critica nei confronti del padre, giocando sull’ambivalenza del termine “kohout”, che in ceco significa appunto “gallo”.

“Mi è capitato in mano un grazioso libricino. Oroscopi cinesi. Sulla copertina è scritto in lettere maiuscole:

KOHOUT

Il gallo, sotto il cui segno sono nata io, è… E ora tenetemi forte, tenetemi perché salto in aria! Gli anni nel segno del gallo si ripetono periodicamente, ma ci sono varie sottospecie di galli, che si alternano ogni sessant’anni.” (p. 139)

All’interno del testo non mancano di certo riferimenti alle condizioni di vita ai tempi della Normalizzazione, ricordando ad esempio un incontro con le “donne della Charta” (il documentario, girato nel 2007, si può recuperare in lingua ceca qui: https://www.ceskatelevize.cz/porady/10114412382-zeny-charty-77/), ovvero la maggior parte di coloro che avevano dato sostegno ai loro uomini durante gli anni del dissenso. Il ruolo delle donne, nonostante questo non venga enfatizzato abbastanza da coloro che si occupano di questo specifico periodo, fu determinante su molti fronti, basti pensare all’importanza della moglie di Havel, Olga Havlová, durante gli anni della prigionia del marito. Proprio in questo frangente viene ricordato come il romanzo forse più famoso di Kohout, Katyně (“La carnefice”, pubblicato da Editori Riuniti nel 1980), fosse stato battuto a macchina da Drahomíra Šinoglová. Gli anni in cui è ambientato L’anno del gallo si situano in un arco di tempo distante rispetto a quello de La corsa indiana, ovvero a partire dal 2005. Tutto il romanzo è narrato, come il precedente, in prima persona e si incontrano numerosi elementi che si possono ricondurre alla vita dell’autrice. Boučková riesce in modo magistrale a indagare la complessa dimensione dell’interiorità, sviscerandone gli strati per comprendere l’origine della sofferenza e del dolore. Il piano su cui questa ricerca viene portata avanti è duplice, da un lato si ha la dimensione intima della famiglia, dall’altro, invece, quella pubblica dell’ambito lavorativo a cui si lega il ruolo di intellettuale della protagonista impiegata nella stesura di sceneggiature cinematografiche. Le sensazioni dell’io narrante vengono esternate senza alcun filtro che le mitighi, in tutta la loro profondità:

“Ieri finalmente ho fatto una fuga, sono andata a fare una passeggiata a Praga, ho parlato con la gente, ho riso, ma non è servito ad allontanare il mio senso di solitudine. Ce l’ho dentro, non mi lascia via di scampo. L’antidepressivo non ha ancora fatto effetto. Sono una donna inutile. Mi do fastidio da sola. […] A volte verrei mi venisse un cancro. Lo so che è una bestemmia. Ma magari accenderebbe il motore che un tempo mi aiutava a superare le crisi. Avrei un motivo vero per lamentarmi e forse ritroverei la forza di combattere.” (p. 73)

La situazione famigliare in cui vive la protagonista è tutt’altro che semplice. Nonostante sia riuscita a soddisfare il suo bisogno più grande, quello di avere dei figli (elemento centrale in La corsa indiana), questi mostrano dei problemi comportamentali spesso complessi da gestire. Il più grande, Patrik, se ne è andato di casa finendo in condizioni di vita precarie nella capitale. Lukáš, invece, è affetto da difficoltà nel controllare la rabbia e da disturbi da cleptomane, ragione per cui i genitori devono sempre mettere sottochiave i loro averi. Il più giovane, Matěj, è l’unico dei tre a non essere stato adottato e nel corso nel romanzo arriva anch’egli a scontrarsi con la madre. A complicare la situazione è anche il marito Marek, appassionato di ciclismo e spesso fuori casa per lavoro, non sembra rendersi conto davvero della situazione che alleggia in famiglia, reagendo molto spesso dando sfogo alla sua rabbia. Lo stesso rapporto col marito sembra vacillare a più riprese nel corso del romanzo, la stessa protagonista arriva addirittura a farsi domande sull’effettivo valore della loro unione matrimoniale. L’atmosfera che si respira in famiglia può essere riassunta con le parole stesse dell’autrice: Grido alla casa intera, al nostro nido ormai trasformato in trappola” (p.213). Tutto questo sovrapporsi di problematiche, che viene mostrato da vicino attraverso gli occhi e le sensazioni della voce narrante, genera una condizione di sofferenza e, soprattutto, solitudine. Difatti, ad essere lamentata a più riprese è l’impossibilità di essere compresi o ascoltati. Il dolore si genera e si consuma nella protagonista senza che questa riesca a trovare alcun tipo di conforto duraturo. Boučková costruisce, così, un grande collage di disillusioni che rappresenta la vita stessa.

Nejradši jsem tam, kde zrovna nejsem - kulturní magazín Uni

Accanto a questa linea narrativa si sviluppa quella che riguarda la questione legata alla stesura della sceneggiatura. La protagonista è una scrittrice di sceneggiature e libri, questo lo si capisce in modo esplicito quando un uomo sul tram si complimenta con lei per le sue opere. Ad avvalorare il fatto che nella protagonista ci sia molto dell’autrice non bisogna dimenticare che Boučková ha realizzato anche sceneggiature per il cinema, quella di Smradi (“Canaglie”, film del 2002 diretto da Zdeněk Tyc) e Zemský ráj to na pohled (“Paradiso terrestre a prima vista”, film del 2008 diretto da Irena Pavlásková). Entrambi compaiono all’interno de L’anno del gallo, sebbene non siano gli unici film a essere nominati. Difatti, tutto il romanzo è caratterizzato da una forte componente intertestuale: sono moltissimi i riferimenti che compaiono, sia di carattere letterario (come il caso dello scrittore slovacco Rudolf Sloboda) che cinematografico. Non vi sono solo rimandi al cinema ceco come nel caso di Evald Schorm, una delle stelle della Nová Vlna, ma compaiono anche riferimenti a registi di fama internazionale, ad esempio Federico Fellini:

“Uscendo dall’ufficio della caporedattrice sono andata alla proiezione mattutina del film di Fellini ‘La dolce vita’. […] Fosse per me l’avrei accorciato. Già, sono talmente sfrontata che avrei accorciato Fellini. […] Per il resto magnifico. Soprattutto la storia nella storia, che parla di un intellettuale amico del protagonista. Al contrario di quest’ultimo, dissennato e superficiale, il suo amico è a prima vista un uomo equilibrato, arguto, profondo, onesto. […] E forse proprio la sua vita piena di sicurezza, armonia, ordine, tranquillità e pace, tutto secondo i piani e senza imprevisti, lo spinge infine a fare del male a se stesso e ai suoi figli.” (p.149)

Il personaggio ricordato, nonché successivamente aspramente criticato, da Boučková è quello di Steiner. Fellini viene citato anche in riferimento al suo libro Fare un film. Difatti, una delle difficoltà della protagonista è proprio quella che ha a che fare con la dimensione creativa. Spesso lamenta l’impossibilità di scrivere, la difficoltà nel trovare un qualche tipo di ispirazione per il soggetto della sua sceneggiatura. A questo concorrono anche altri problemi legati al trovare un regista adatto che non ne limiti le scelte.

In conclusione, L’anno del gallo di Tereza Boučková è un romanzo che, sebbene si presenti come il racconto di vicende personali, mostra una profondità di indagine e una ricchezza di riferimenti storico-culturali. Ciò che, inoltre, colpisce della prosa dell’autrice è la capacità di narrare in prima persona episodi personali in modo diretto e tangibile. Questa resa reale del quotidiano attraverso la scrittura si realizza anche grazie all’uso di numerosi realia (ad esempio slivovice o la tradizione pasquale della Pomlázka), che sono stati commentati in modo meticoloso dalla traduttrice grazie all’uso di note. Leggere Boučková significa compiere un viaggio negli strati più profondi dell’anima, scavare nei propri dolori e nelle proprie insicurezze, fare i conti con una vita che non è sempre rosea, ma in cui è sempre possibile trovare un modo per continuare. Questa possibilità la si scopre proprio grazie alla forza della prosa di Boučková che, con questo romanzo, si riconferma essere la grande autrice che già si era palesata nel suo primo romanzo, La corsa indiana.

QUI l’articolo originale: