Il titolo del romanzo di Ada Sirente – Dura mater, o in italiano «dura madre» – è un termine scientifico: indica la più spessa delle membrane che rivestono il tessuto nervoso centrale, una sorta di guscio all’interno del quale, in certo senso a nostra insaputa, si formano i pensieri, le sensazioni, i desideri. Stesa in un letto d’ospedale, in coma farmacologico in seguito a un intervento al cervello, Mariella ci parla da questo luogo interno e inaccessibile, dove il confine tra i viventi e i morti si assottiglia fino ad annullarsi, e le figure familiari della sua infanzia in un piccolo paese dell’Abruzzo si muovono in mezzo alle sagome anonime e misteriose dei medici. Il suo è, o potrebbe essere, una sorta di lungo sogno ultracosciente; sicuramente dei sogni possiede la vividezza dei particolari e la sonorità nitida di una lingua in cui non c’è soluzione di continuità fra l’eco del dialetto e il lessico della scienza. Nella capacità di governare senza sforzo questo contrasto, nel mettere in scena una contemporaneità stratificata sulla memoria, sta la forza del libro, che presento con piacere al Premio Strega.
Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello. Mariella dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i due luoghi di Mariella: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica, dove sopravvive la memoria della zia Elda e dove talvolta la natura, offesa, porta morte e desolazione. Una cicatrice segna le due lingue di dura mater: l’affilato gergo medico e improvvisi tratti lirici con radici antiche. Alla fine, la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempe dei contadini abruzzesi, il ripartire sempre da capo insieme al volgere delle stagioni, superando il dolore delle sciagure, sia quelle individuali che collettive delle frane e dei terremoti.
Ada Sirente segnalata col suo Duramatertra le «quattro autrici per l’estate: dal ‘taccuino’ alle voci degli expat, ecco i libri da portare con sé»:
Vanta natali abruzzesi anche Ada Sirente (il nome è d’arte), autrice di un libro straordinario come Dura mater (Miraggi Edizioni), sperimentale e intriso di un post-stream of consciousness, palpitante di preziosa poesia. Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello. Dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i suoi due luoghi: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica. Miscelando un affilato argot medico e corruschi tratti lirici, alla fine la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempedei contadini abruzzesi. Il ripartire sempre daccapo insieme al volgere delle stagioni, sublimando il dolore delle sciagure: quelle individuali, quelle collettive di terremoti e frane.
Nel 2022 si è tenuta la prima e a oggi unica edizione del Baba Jaga Fest, festival organizzato proprio per far conoscere la produzione “a est dell’Italia”.
Qui ci soffermiamo sulla produzione ceca, ancora poco nota al pubblico. finora sono stati tradotti tre titoli, pubblicati tra il 2022 e il 2023: Alois Nebel (testo Jaroslav rudiš, disegno Jaromír 99); R.U.R.Rossum’sUniversal Robots, l’adattamento graphic novel di Kateřina Čupová del famosissimo dramma di Karel Čapek del 1920; Zátopek. Se non ce la fai più, accellera!(testo Jan novák, disegno Jaromír 99). Alois Nebel esce presso la modern times (piccola casa editrice nata nel 2020), mentre R.U.R. e Zátopek escono nella collana MiraggINK, nata nel 2018 e dedicata al fumetto all’interno della casa editrice miraggi. Si tratta di tre opere ben diverse, tutte e tre di enorme successo in patria e tutte e tre tradotte in diverse lingue e pubblicate da case editrici specializzate nel fumetto.
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R.U.R.Rossum’sUniversalRobotsdi Čupová esce in Cechia nel 2020 presso la casa editrice argo in occasione del centenario dell’omonima opera teatrale di Karel Čapek. L’adattamento di Čupová ha incontrato un notevole successo in patria, con una seconda edizione in soli tre anni. nel 2021 esce in coreano, mentre nel 2022 oltre a quella italiana sono uscite le edizioni francese e spagnola e nel 2024 è uscita la traduzione inglese. L’adattamento di Čupová si caratterizza per una selezione cromatica estremamente ricercata che guida chi legge attraverso le emozioni dei personaggi e i cambi di atmosfera, in linea con un testo teatrale composto da diversi piani di lettura. L’ottimismo verso l’industrializzazione e soprattutto l’ideale di soppressione della fatica umana posano sui robot che, nel mondo di Čapek, non sono macchine, ma creati da una materia organica, molto più vicino ai replicanti di BladeRunnere come questi, infatti, anche i robot di R.U.R si rendono conto della propria esistenza. L’adattamento di Čupová utilizza il testo originale di Čapek e per l’edizione italiana la traduzione di alessandro Catalano per marsilio (2015). Il segno elegante di Čupová aiuta a sottolineare la natura teatrale dell’opera: le prospettive rappresentano i personaggi come se fossero su di un palcoscenico, e il pubblico è composto dai robot. allo stesso tempo, la morbidezza del disegno a tratti quasi caricaturale, offre delicatezza a una storia il cui lieto fine c’è, ma non per forza per l’essere umano. La Postfazione di alessandro Catalano presenta l’evoluzione dell’immagine del robot nei cento anni trascorsi tra l’uscita dal “dramma collettivo” del 1920 e l’adattamento del 2020.
Pubblicato nel 2016 dalla casa editrice ceca argo, Zátopek… když nemůžeš, tak přidej! incontra subito l’interesse internazionale. nello stesso 2016 esce in tedesco e nel 2018 viene tradotto in spagnolo e francese, nel 2020 in inglese. La biografia, o biopic, è uno dei generi di maggior successo negli ultimi anni (al cinema, in tv e nel mondo del fumetto) e Zátopek si inserisce in quello che potremmo chiamare sottogenere sportivo, dove la forza di volontà, il continuo sfidare i limiti del proprio corpo e il mondo sono al centro della narrazione. Quando si parla di emil Zátopek il fattore storico diviene il continuo polo d’opposizione del valore morale della persona e dello sportivo. La storia inizia dalla sua infanzia per concludersi alle olimpiadi del 1952 con i tre ori vinti nella maratona, nei 5000 e nei 2000 metri. Le tappe della sua carriera sportiva – i record nazionali nelle corse lunghe nel primissimo dopoguerra, gli europei del 1946 e del 1950 le olimpiadi del 1948 e del 1952 – si inseriscono per contrasto con la storia della Cecoslovacchia – l’occupazione nazista, il dopoguerra e il colpo di stato del 1948 e il regime comunista. novák però dedica ampio spazio anche alla sfera personale di Zátopek, dalle difficoltà economiche famigliari alla storia d’amore con la futura moglie dana, anch’essa atleta. Il tratto di Jaromír 99, caratterizzato da elevati contrasti e un segno nero forte che richiama alla mente la lineografia, si unisce alla scelta di una paletta limitata ma precisa di colori. difficile non pensare a un gioco ironico di rimando con i manifesti del periodo comunista, caratterizzati anch’essi da colori squillanti, contrasto elevato e dalle figure statuarie di compagne e compagni: al posto di operai con il fisico perfetto e il volto sereno spiccano la smorfia di fatica di Zátopek (chiamato “la Locomotiva” per il suo pesante ansimare durante la corsa) e il fisico consumato del maratoneta al traguardo.
SCRITTRICI CECHE. «Il secondo addio», (Miraggi edizioni), primo romanzo di Sylvie Richterová a essere stato pubblicato non in samizdat, 1994: cortina di ferro e anni di piombo, una doppia prospettiva tra illusioni e stupore
Un «vivaio di fantasmi» e anche un’«arena di sortilegi» fu Praga per Angelo Maria Ripellino. Una «trappola che, se afferra con le sue brume, con le sue male arti, col suo tossicoso miele, non lascia più, non perdona». Si direbbe che respirino ancora gli stessi enigmi e gli stessi incantesimi nella Praga meno gotica ma più metafisica, quasi cubista in cui Sylvie Richterová allestisce lo scenario del suo quinto romanzo, il primo che ha potuto pubblicare non in samizdat, uscito in ceco nel 1994 e ora disponibile in italiano nella limpida traduzione di Alessandro De Vito con il titolo immutato Il secondo addio(Miraggi edizioni, postfazione di Massimo Rizzante, pp. 156, € 18,00). Dei tredici personaggi che abitano il libro, formandovi una sorta di scombinata famiglia stretta da legami d’amore, soltanto Pavel rimane avvinghiato a Praga, chiuso in un suo rassegnato isolamento «dietro i chiavistelli del tempo totalitario». Praga continua però a chiamare indietro dalla città in cui si sono rifugiati durante gli anni settanta, una Roma colorata e rumorosa che diventa il secondo sfondo della trama, sia Marie sia Jan, i cui differenti percorsi disegnano un ponte tra due luoghi del tempo oltreché dello spazio.
Richterová, nata a Brno nel 1945, a Praga si è trasferita nel ’63 per frequentare la facoltà di lingue e letterature moderne all’università. Nel ’71 si è stabilita in Italia, prima a Roma, dove ha insegnato alla Sapienza fino al 2009, poi a Trevignano Romano; grazie alla doppia cittadinanza ha potuto tornare spesso nel suo paese di origine anche prima della rivoluzione di velluto. Nasce dall’esperienza personale, benché Il secondo addionon sia affatto un libro autobiografico, quell’insolito, straniato ma acuto sguardo bifocale che l’autrice posa sulla vicenda mentre la narra. Non si tratta unicamente della doppia prospettiva geografica da cui la storia è osservata, piuttosto del duplice stupore che percorre l’intero testo. Sulla pagina l’assurdità del regime a cui si sottraggono Marie e Jan non risalta con minore evidenza rispetto alla follia di quei nostri anni di piombo in cui si trovano a costruire una nuova vita. Malgrado l’opzione di uno stile disincarnato e asciutto, l’atmosfera emotiva del testo è così incandescente da produrvi un ulteriore sdoppiamento, se lo stupore appare acceso sia dall’insensata violenza degli eventi sia dalla loro frettolosa rimozione. Il titolo stesso evoca un’accezione biforcata: l’addio di Jan, personaggio principale del romanzo e per buona parte suo narratore, è indirizzato tanto al suo paese di origine quanto a quello di adozione, alle speranze che si è lasciato alle spalle come alle illusioni che proiettava davanti a sé.
«I movimenti, i gesti, gli atti e i fatti, che costituiscono una storia, stanno in superficie. All’interno c’è il battito del cuore e il dolore che insiste su di esso, una grande domanda aperta come la mandibola di uno spazio nero, vuoto, in silenziosa attesa. Mi sto avvicinando al limite?» dice nel libro una voce che sembra appartenere a Jan. Malgrado l’apparenza Il secondo addio non è un romanzo sulla storia e nemmeno sulla memoria: piuttosto sulla coscienza umana e su ciò che accade quando la coscienza umana si spegne. La coscienza sembrerebbe rappresentare per la scrittrice l’unico luogo in cui ognuno di noi, a maggior ragione chi ha perduto la sua patria e la propria infanzia, può davvero ritornare. È significativo che il testo si apra con la descrizione di una casa in fiamme e che l’immagine della casa, persa cercata o ritrovata, attraversi percussiva tutte le sue pagine. Spazio percorribile in ogni direzione e in cui ogni personaggio può sentirsi accolto, spalancato ai venti ma protettivo, il libro stesso ha la forma di una casa. Perfino la scrittura sembra assumerne la funzione rassicurante in questo romanzo dove tutti i protagonisti scrivono, mosaico assemblato con lettere spedite o solo immaginate, note di taccuino, frammenti di biografie e saggi, spezzoni di manoscritti mai compiuti, dimenticati o smarriti, donati affinché siano custoditi. La scrittura soltanto, sembra dire la narratrice, può salvare i personaggi dalla dispersione della memoria, dalle amnesie di quella storia che pure hanno vissuto.
Più dei personaggi, privi del resto di qualsiasi connotazione fisica, contano infatti i legami, le parole e i pensieri che si scambiano: nel libro le loro voci si sovrappongono e disorientando il lettore si avvicendano in una sorta di corale prima persona. «I secondi non si susseguono nel tempo uno dietro l’altro, colpiscono come le punture di un ago acuminato, attaccano da ogni parte, come quando piove e c’è vento, ma non si portano via l’attesa, non riescono a lavare via nulla» riflette Jan in Che ogni cosa trovi il suo posto, romanzo con cui vent’anni dopo Richterová completa di significato la sua storia ribaltandone la prospettiva. Per Il secondo addio, la cui partitura ricorda il modernismo polifonico delle woolfiane Onde, l’autrice costruisce un’architettura ferrea benché in apparenza destrutturata, adotta una forma chiusa in cui però le sequenze possono essere scomposte e riordinate dal lettore come le tessere di un caleidoscopio. La trama procede per illuminazioni e soprassalti assecondando la memoria, si dispiega per poi arrotolarsi di nuovo alla maniera di un tappeto. Nel romanzo il tempo coincide esattamente con lo spazio narrativo.
Sylvie Richterová, volendo rubare gli aggettivi usati da lei per un’altra narratrice ceca, è «uno dei personaggi più eccezionali, innovatori e difficilmente classificabili della letteratura contemporanea»: in lei, le parole provengono ancora dal suo Ritratto di Vera Linhartová, «rigore e coerenza sono le qualità che più sorprendono» perché esse «conducono regolarmente a risultati imprevedibili o almeno imprevisti». Davvero grande scrittrice, Richterová racconta un trauma che non può essere narrato seguendo strade conosciute perché ogni strada esplode con quel trauma. La scrittura che sceglie per sé, edificando la sua casa, è il materico emblema, la figura stessa della libertà.
Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.
Un solco senza semeè un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.
Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.
Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).
Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).
Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le ferite, rilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui.
E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.
Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.
E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.
E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).
Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.
Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.
Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.
A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.
Martin è uno studente, un brigádnik, ovvero un ragazzo obbligato a sperimentare il lavoro in fabbrica durante gli studi. Si muove in una città mineraria, Ostrava, dalle coordinate oscure, costruita su lande contaminate: “Nemmeno lo sa, di cosa esattamente sente la mancanza”. La sua gioventù è già consegnata alla sconfitta, piegata da un peccato originale che non sa di aver commesso. Non a caso la sua compagna, con la quale coltiva un sentimento impossibile, si chiama Eva. Quando la incontra a Londra nuovamente a distanza di tanti anni, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è come se fossero gli unici due esseri viventi in un mondo morto. Jan Balabán è maestro nel delineare individualità smarrite, perse in atmosfere colme di abbandono. Dove è passato l’angelo, datato 2003, è il suo primo romanzo, oggi riconosciuto come un classico della letteratura ceca.
La perenne minaccia della guerra atomica, che modella il mondo sovietico, è destinata a non concretizzarsi: “non verrà alla luce nemmeno la guerra, di cui il mondo è gravido, sarà abortita dietro lo scudo atomico delle superpotenze, e tutti non faremo che invecchiare senza combattere”. L’immobilismo è la più grande tragedia. Nulla accade, mentre tutto si decompone lentamente: “La spinta delle cose morte, dei pensieri e dei sentimenti morti. Come abbiamo fatto a morire così, e allo stesso tempo a restare in movimento?” La vita trascorsa appare come una misera cosa appassita fra le mani. Le assurdità del mondo socialista, le assemblee pubbliche volontarie, in realtà obbligatorie, perché la mancata partecipazione basta a segnare il colpevole di fronte alla massa, l’individualità occupata da una società estranea, colma di menzogne, la vita trascorsa in una sorta di colonia penale dalla quale Petr, il fratello di Martin, decide di fuggire. I televisori accesi nei palazzoni tutti uguali, per non dover pensare a niente; eppure la testa di Martin seguita a pensare, anche se le parole non servono più a comunicare, ma salpano “come involucri vuoti sulla superficie di un fiume profondo”.
Strutturalmente il romanzo procede per brevi blocchi narrativi, a volte apparentemente eterogenei ma connessi da fili sottili che alla fine vanno a ricongiungersi. Dettagli sul protagonista emergono dalle parole di altri personaggi che nel passato hanno raccolto le sue confessioni. Vite si intersecano come tasselli di un puzzle, al quale mancherà sempre qualche elemento per essere completo. Balabán ha la capacità di evocare atmosfere claustrofobiche, facendo al contempo percepire la vastità dell’universo. È come se i suoi personaggi fossero giunti ai confini del tempo, senza riuscire a varcarli. Sono invecchiati inutilmente mentre i loro sogni, esalati verso il cielo, non torneranno più. Anelano l’eternità, ma è un desiderio vano. Misteriose origini dell’umanità che, secondo Martin, potrebbe benissimo discendere da una spedizione approdata sulla terra centinaia di migliaia di anni fa. Forse il mondo, dopo un’immane catastrofe, tornerà a essere popolato di belve feroci, avvinto da una giungla impenetrabile.
Il desiderio di lasciare il nostro spazio balena in una semplice corsa vista alla televisione, dove le atlete sembrano aver spiccato il volo verso un’altra dimensione. Il mondo attorno a loro scompare, e quelle figure appaiono come esseri puri, percepiti al limitare del mondo materiale prima di svanire chissà dove. Inquietante Balabán, quando pone il limite dell’esistenza fra i quaranta e i cinquant’anni, quasi profetizzando la propria morte improvvisa all’età di quarantanove anni. Le persone si crepano a poco a poco, come gli edifici fatiscenti nei quali sono costrette a vivere, come i paesaggi esausti che sono costrette ad abitare. Stordirsi con la vodka serve a poco, chi beve in solitudine, poi, beve con il diavolo che lo trascinerà nei più neri abissi. Eppure c’era stato un momento in cui la paura, l’ansia di essere ascoltati, interrogati, spiati continuamente, il terrore di sentire bussare alla porta i propri persecutori, era svanita all’improvviso. Aveva lasciato il posto a un vuoto, forse foriero di speranza, più probabilmente vacuo come un effimero sollievo.
Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio, incontriamo Alessando De Vito di Miraggi Edizioni, per farci illustrare il progetto editoriale della Collana NováVlna, da lui curata, in occasione anche di uno dei ritorni più attesi di questi ultimi tempi, quello di Bohumil Hrabal che, dopo la raccolta inedita de ” La perlina sul fondo del 2020, è tornato in libreria , alla fine dello scorso anno, con un nuovo libro dal titolo “Compiti per casa (Riflessioni e interviste)”
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Alessandro, a partire da questa frase di Bohumil Hrabal « Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano. » ci racconti qualcosa in più, qualche aneddoto inedito sulla vita di un personaggio di questo calibro ?
Non è facile trovare aneddoti “inediti”, perché Hrabal ha utilizzato proprio le sue esperienze di vita come materiale per molta parte dei suoi testi. E l’ha fatto potremmo dire “scintificamente”, come si può comprendere dal breve brano che introduce “La perlina sul fondo”. Quello è un elenco formidabile di mestieri diversi, cercati da lui negli anni, come dice, per “sporcarsi”, lui laureato in legge e con pessimi voti a scuola in lingua ceca, con la vita comune e i suoi protagonisti. Non a caso l’altro suo luogo d’elezione, oltre fabbriche ferrovie magazzini e officine, era senza dubbio la birreria, perfetto e variopinto crogiolo in cui i discorsi delle persone si mescolano e accavallano senza sosta, con le mille storie ed esperienze che attraverso le parole riprendono vita. Da un lato era una ricerca di umanità, anche di commozione, una partecipazione intima al consorzio umano, alle malinconie e alla fragilità della vita, su cui non si può far altro che scherzare e bere, che traspare in tutta la sua produzione. I piccoli fatti dei piccoli uomini, che in definitiva però fanno la storia: una tradizione questa, diffusa nella letteratura ceca, dallo Švejk di Hašek ai personaggi di Čapek, alle molte eco della letteratura popolare in tutti i grandi autori.
Questo “sporcarsi” di Hrabal assume anche una notevole forza considerando l’epoca e la situazione politica della Cecoslovacchia sotto il regime comunista. Paradossalmente si potrebbe dire che proprio Hrabal va autenticamente a cercare la vita, le esperienze e le parole del popolo, mentre la letteratura e il cinema di regime magnificavano la vita proletaria in modo assolutamente stereotipato, attraverso cliché assolutamente lontani, statici nella loro fissità ideologica. E fin qui mi riferivo alla narrativa. Non sono pochi anche i suoi libri di commenti, conversazioni, interviste… Difficile trovare il fatto inedito, quindi, quanto inutile probabilmente cercare quanto ci sia di vero in tutto quello che ha scritto. Sempre che sia importante.
Alessandro ci inizi a raccontare qualcosa in più su questo libro arrivato in libreria in questo autunno e che raccoglie testi molto vari tra di loro, racconti, articoli, apologhi, riflessioni sulla letteratura e sulla scrittura, resoconti di viaggio, e dal titolo “Compiti per casa”, soffermandoti sullo stile di scrittura che lo caratterizza e le eventuali difficoltà incontrate dalla traduttrice Laura Angeloni?
Come accennavo, è un libro non direttamente narrativo, non si tratta di racconti, novelle o di un romanzo. Ci sono testi che possiamo considerare alla stregua della “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, dove spiega, o piuttosto racconta, la sua poetica. Ho detto “non direttamente” perché in realtà Hrabal non fa altro che raccontare, anche nei punti più “saggistici”, infarcendo ogni brano di dettagli e riferimenti che creano digressioni, aneddoti, altri spunti narrativi. Hrabal racconta di questa sua incessante ricerca di autenticità, dei personaggi, delle storie e soprattutto del linguaggio. Se a prima vista infatti sembra di leggere discorsi comuni, non si può non riconoscere il grandissimo lavoro di cesello di un geniale letterato, a tratti anche sperimentale, con una modalità mai fine a se stessa. La lingua che risuona tra gli avventori accomodati ai tavolacci durante il rapido svuotamento dei boccali delle birrerie e quella dei discorsi degli operai tra i macchinari industriali, tra facezie, sentire comune e nell’incombenza di qualcosa di tragico, è autentica in quanto processata, come da tempo ha riconosciuto la critica, nonostante lui stesso si sia spesso definito un “semplice trascrittore” di ciò che ha incontrato nella vita.
Ovviamente questo appare chiaro al traduttore, nel caso dei nostri due volumi la bravissima Laura Angeloni, con la cura e l’occhio vigile del prof. Alessandro Catalano. Hrabal “reinventa” la lingua, “trascrivendola”. A tratti il suo scritto non è facilmente comprensibile neppure ai cechi, quindi possiamo immaginare la difficoltà (che come si diceva, attenzione, tende a non apparire al lettore). La curatela di un grande esperto è qui fondamentale proprio perché per tradurre Hrabal bisogna saper navigare in tutta la sua opera, non si può improvvisare. Altri testi sono relativamente più semplici, in particolare le conversazioni e interviste, e a tratti anche molto divertenti. Era un personaggio particolare, se si ha presente l’ambiente delle birrerie praghesi spesso si ha l’impressione di sentire anche quei gusti e odori, e sentire il chiacchiericcio di fondo. Non è casuale che molte interviste con lui si siano svolte in birreria, che alla storica birreria Alla tigre d’oro siano andati a bere con lui il presidente Clinton e il presidente ceco Havel (e che, si parvissima licet, lì gli abbia stretto la mano anche io, in un fumoso pomeriggio dei primi anni Novanta).
Compiti per casa è prima di tutto una raccolta di piccole gemme del grande scrittore ceco, ma diventa anche una porta di accesso privilegiata per entrare e approcciarsi al mondo di Hrabal. Sono passati quasi tredici anni dalla creazione di Miraggi e già diversi anni dal progetto di questa Collana innovativa, ci vuoi spiegare da quale urgenza nasce la Collana e poi come si incastra la scelta di questo lavoro accurato sulle opere di uno dei più originali scrittori cechi del Novecento all’interno di NováVlna e se ci vuoi raccontare anche le prossime novità e scoperte?
Qualcuno potrebbe dire che per approcciare l’opera di Hrabal sia meglio partire da uno dei suoi celebri romanzi, dai suoi capolavori. E sicuramente “Compiti per casa” è un libro che potrà far leccare le dita al lettore che già conosce e ama Hrabal, ma credo anche che, quando un autore è così un tutt’uno con la sua opera, cominciare a “parlarci” (questa è l’impressione) come se lo si incontrasse davanti a un boccale di Plzeň possa essere un ottimo primo approccio. Hrabal ci cattura, personalmente io devo stare attento, se distrattamente (e lo faccio spesso) apro a caso un suo libro e mi metto a leggere, rischio di ritrovarmi che sono passate due ore senza rendermene conto.
La collana, che ci è piaciuto chiamare come la Nouvelle Vague cecoslovacca, soprattutto cinematografica, degli anni Sessanta, nasce dopo che abbiamo cominciato a dedicarci alle traduzioni, nel 2016. Nel giro di poco, soprattutto per mio impulso, dato che sono per metà di origine ceca, le traduzioni dal ceco sarebbero state così tante rispetto alle altre che è parso una logica conseguenza fondare una collana a sé. Inoltre da molti anni mancava in Italia una collana dedicata alla sola letteratura ceca… Già dall’inizio abbiamo pubblicato un panorama di nuovi autori , in verità quasi tutte autrici – sarebbe un discorso interessante da affrontare anche questo – insieme al recupero di alcuni classici, o mai tradotti o in nuove traduzioni, dopo che erano passati decenni dalle prime. Confrontarsi con il genio di Hrabal è venuto naturale, e cercare di colmare le lacune di traduzione anche. Sia attraverso i testi del passato sia con quelli contemporanei inoltre mi sembra interessante contribuire a far conoscere meglio e creare un ponte tra la cultura italiana e quella ceca, che mi sembrano ancora considerate molto più distanti di quanto dovrebbero. Dico solo che spesso conosciamo meglio letterature lontane, più o meno esotiche, capaci di imporre variamente il loro modello, e ignoriamo chi siano i nostri vicini di casa europei. In questo senso mi sento nel pieno della funzione, se non della missione, di una piccola casa editrice di progetto, e devo sempre ringraziare del supporto le istituzioni culturali ceche, con cui spesso collaboriamo splendidamente. Vedo che man mano il nostro seguito aumenta, mi pare che anche libri “particolari” trovino il loro pubblico, non secondariamente grazie al sostegno e alla fatica quotidiana dei librai che se ne innamorano. Invito tutti a continuare a seguirci: nei prossimi anni continueremo a pubblicare autrici e autori straordinari come Bianca Bellová, Markéta Pilátová, Tereza Boučková e Jan Balabàn, e tra i classici abbiamo in lavorazione ben tre libri del grande Škvorecký, e una graphic novel sulla vita del celebre corridore Emil Zatopek, dopo quella tratta da RUR di Čapek, con l’origine del nome “robot”. Ma la novità più “pesante”, in senso buono, di quest’anno, sarà un libro che è davvero un’impresa al limite della follia, per il quale di nuovo devo ringraziare le capacità e la sconfinata passione di Laura Angeloni. Si trada di “Ore di piombo”, un romanzo di circa 1000 pagine scritto da una grandissima autrice ceca, Radka Denemarková, già insignita di molti premi, e figura di intellettuale impegnata su diversi fronti. Già tradotto in Germania (tra l’altro la Denemarková è la traduttrice ceca del Nobel Herta Müller), è previsto in uscita per settembre, ed sarà uno di quei libri che fanno epoca, il grande romanzo dei nostri tempi, del cosiddetto “secolo cinese”, che affronta in tutta la sua complessità con risultati straordinari. Uno di quei libri-mondo che anche dal punto di vista editoriale presuppongono una certa dose di incoscienza. Miraggi, presente!
Buona Lettura, a questo punto, de “La perlina sul fondo ” e ” Compiti per casa ” di Bohumil Hrabal e di tutti i meravigliosi libri della Collana NováVlna
Una vita nell’armadio: la scelta di Hana per sopravvivere a se stessa
DIVENTARE INVISIBILI – La scrittrice ceca Tereza Semotamová ci offre una storia di rifugio e menzogne nella quale ognuno può ritrovare un periodo della propria esistenza. O del proprio vestiario
Per chi è pratico dei videogames vintage, Asteroids è stato un vero e proprio mentore: è stato – prima delle fiction – una interfaccia nella quale il giocatore può seguire un filo logico e razionale oppure, e qui vi è il gusto, premere il tasto hyperspace. Con questa funzione sapevi bene dove uscivi – quasi sempre una situazione di pericolo – ma accettavi il rischio di riapparire in un contesto ancora più drammatico di quello che abbandonavi. Hana, la protagonista del romanzo Nell’armadio della scrittrice ceca Teresa Semotamová (Miraggi Editore, traduzione di Alessandro De Vito), tenta qualcosa di analogo per fuggire dagli schemi precostituiti della società. Si muove come un Hobo, senza un faro ascoltando solo il suo cuore grondante di dolore: “L’amore è come scolpire qualcosa di meraviglioso nell’aria. Non fa che svanire ma noi siamo convinti che perduri e che lo veda anche l’altro. Come accade che due solitudini che si uniscono a volte formino una cosa viva e altre volte generano solo una specie di galera kafkiana?”. La storia è ambientata a Praga, città nella quale la protagonista rientra dall’estero: non ha una casa, non ha idea di come sbarcare il lunario e racconta bugie alla madre e alla sorella. Proprio quest’ultima, nell’atto di sbarazzarsi di un vecchio armadio, darà inizio all’iperbolica vicenda di Hana, capace di sistemare nel cortile della casa della sorella il prezioso nascondiglio per scappare da tutto e tutti.
“I’m not Here, This Isn’t Happening” cantava in un lamento malinconico Thom Yorke dei Radiohead, metafora dell’incapacità di sentirsi la persona giusta al posto giusto. Estraniarsi per sopravvivere, diventare invisibili per scelta, mentire per confondere, amare senza essere compresi, affogare la propria inadeguatezza alle regole sociali nell’alcool. “Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì, non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo”.
In una recente intervista l’autrice ha dichiarato che desiderava descrivere l’agonia di quando non si è più in grado di dire agli altri che le cose non vanno bene e si inizia a mentire anche a se stessi. “Non ci sono più. No, sono nell’armadio. È notte. Anzi, è notte fonda e stringo la fiaschetta. Con le mani intirizzite e l’umore di quando si va in campeggio che stavolta però non finirà mai, perciò sarà difficile fare il conto alla rovescia dei giorni che mancano. Fisso il buio pesto e mi dico: Ehi razza di materia oscura, devo aspettare il tuo grande collasso o tornare a insinuarsi nel regno del sonno?”. Flashback continui su relazioni sentimentali con data di scadenza sorpassata si alternano a flussi di coscienza su ogni aspetto dell’umanità: “Gli adolescenti di solito hanno un periodo di ribellione in cui si allontanano dai genitori perché non li sopportano. Spesso quel periodo perdura. Essere sfuggenti con loro significa sfuggire a ciò che non sopportiamo di noi stessi, perché per due terzi siamo la copia di chi ci ha generato. Si tratta di venirci a patti, in qualche modo”. E la chiosa è per i loser: “Dicono che in ognuno di noi ci siano due lupi: uno buono e uno cattivo. E prevale quello che nutri di più. Quando la mente è completamente serena, allora quello che hai corrisponde a quello che vuoi. Se invece desideri una realtà diversa da quella che è, allora è come insegnare a un gatto ad abbaiare”.
Un armadio tutto per sé. Intervista a Tereza Semotamová, autrice de “Nell’armadio”
La casa editrice Miraggi Edizioni si riconferma il progetto editoriale più importante in Italia per la ricezione e la diffusione della letteratura ceca. Con Nell’armadio (Ve skříni) di Tereza Semotamová la collana Nová Vlna, interamente dedicata per l’appunto alla letteratura ceca, arriva a ben quindici titoli pubblicati negli ultimi tre anni. In particolare, si aggiunge un tassello alla scoperta della scena letteraria contemporanea di un paese particolarmente florido sotto questo aspetto. Il romanzo Nell’armadio, pubblicato in Repubblica Ceca nel 2014 e tradotto in italiano da Alessandro De Vito, è un’ulteriore conferma di questo aspetto, già evidenziato da altre grandi voci tradotte nella collana come quelle delle autrici Bianca Bellová, Tereza Boučková o Jakuba Katalpa.
Tra le tante necessità della letteratura contemporanea, una delle più complesse si prefigura nel tentativo di problematizzare la dimensione psicologica dell’individuo all’interno di un duplice rapporto, ovvero quello con la propria individualità e quello con la dimensione sociale esterna. Due entità che, in aggiunta, entrano spesso in conflitto tra di loro. Nel romanzo, narrato rigorosamente in prima persona, la protagonista si trova a dover scontrarsi con questa problematicità. In un mondo dove “la drammaturgia della vita segue una follia diabolica”(p. 21) e dove la propria individualità viene continuamente recisa, l’unico modo per sopravvivere sembra essere quello di trovare uno spazio, un luogo tutto per sé – usando un’espressione woolfiana particolarmente nota. O, volendo impiegare un riferimento presente anche nell’opera, si potrebbe citare la canzone di Karel Gott “Kdepak, ty ptáčku, hnízdo máš?” (Uccellino, dove ce l’hai il nido?).
Il romanzo presenta una trama tutt’altro che arzigogolata, dove gli avvenimenti che fanno da cornice ai pensieri e alle riflessioni della protagonista si distribuiscono in modo chiaro e lineare. Tuttavia, sono proprio quest’ultimi a conferire dinamismo all’opera. Volendo dunque attingere a questa “cornice”, occorre evidenziare quello che è l’avvenimento chiave del romanzo, ovvero quello da cui l’azione si evolve. Difatti, proprio nelle prime pagine viene focalizzata l’attenzione su un fatto tutt’altro che bizzarro, la necessità della sorella della protagonista di liberarsi di un vecchio armadio. Nel riflettere sui vari tentativi riguardo a come sbarazzarsi del vecchio armadio, improvvisamente questo diventa la chiave che potrebbe risolvere una difficile condizione esistenziale. L’armadio assume così un valore metaforico all’interno dell’opera in rappresentanza di uno “spazio altro”. Si osservi come viene descritto all’interno del romanzo:
“Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino così per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo. All’improvviso comincia a scorrermi in corpo una calda energia vitale.” (p. 10)
A partire dalla decisione di vivere nell’armadio si dipana la vicenda narrata nel romanzo, che diventa luogo di un percorso esistenziale. Il piano dell’esistenza è, infatti, quello dominante. Per districarsi nella sua complessità l’autrice costruisce la sua prosa sulla base di una fitta rete dei riferimenti eterogenei. A questo proposito, una delle caratteristiche più interessanti della struttura del romanzo risiede nella sua intertestualità. La prosa dell’autrice procede inserendo citazioni tratte da diverse fonti, non solo letterarie ma anche, ad esempio, cinematografiche e musicali. Si trovano citati autori come il Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere o il Dostoevskij de I demoni, ma anche lo slovacco Juraj Jakubisko, regista del celebre film Sedím na konári a je mi dobre (Sono seduto sul ramo e mi sento bene). Aderendo a una di quelle caratteristiche che vengono comunemente attribuite alla letteratura cosiddetta “postmoderna” – sebbene il concetto di postmodernismo sia particolarmente vago, specialmente se applicato a contesti come quello ceco – Semotamová inserisce la sua opera in un dialogo con la tradizione culturale, in primis letteraria, non solo ceca ma mondiale.
Concludendo questa breve presentazione, in modo tale da lasciar maggiore spazio alle parole dell’autrice che si è dimostrata disponibile nel rilasciare un’intervista, è necessario riconoscere come Nell’armadio si presenti in termini di un’opera profondamente attuale. Nel romanzo l’autrice presenta al lettore una condizione esistenziale quanto mai applicabile a diverse situazioni che affliggono gli individui all’interno dell’attuale conformazione sociale. A prendere parola è una voce narrante che esprime i suoi bisogni di trovare il proprio spazio, un “posticino nascosto” in cui poter costruire un equilibrio senza che questo venga minato dell’esterno. In questo senso l’armadio diventa il luogo in cui costruire una dimensione esistenziale in cui il mondo assume un ritmo diverso. Ne Nell’armadio si realizza una disamina della quotidianità quanto mai contemporanea.
Riportiamo qui di seguito l’intervista con l’autrice Tereza Semotamová che ringraziamo per la disponibilità nel rispondere ad alcune domande.
MM: Innanzitutto le vorrei chiedere come ha deciso di iniziare a scrivere romanzi. Se non sbaglio, ha studiato sceneggiatura e drammaturgia…
TS: Ho sempre scritto prosa. Sin da bambina finivo di scrivere dei libri che leggevo se, per esempio, non mi piaceva il finale. In Repubblica Ceca di fatto non si può studiare come scrivere in prosa, ho pensato che mi sarebbe potuto piacere studiare sceneggiatura e drammaturgia. Si è scoperto che molti cineasti in Repubblica Ceca sono anche registi e sento di non avere questo talento. Ho scritto diversi drammi radiofonici ma non sono mai stata soddisfatta di ciò che realizzavo. Questo è stato un grande incentivo per scrivere un romanzo. Ma, a dirla tutta, ho sempre voluto scrivere un romanzo. Almeno da quando, per la prima volta, ho letto Piccole donne di Louise M. Alcott.
MM: Nel suo romanzo c’è una forte intertestualità che il traduttore Alessandro De Vito ha saputo ben trattare con l’impiego di note esplicative che sono necessarie, in quanto alcuni riferimenti non sono comprensibili al lettore comune. Come spiegherebbe questo aspetto e, soprattutto, che ruolo gioca questa intertestualità nella stesura di un romanzo?
TS: Forse queste spiegazioni non turberanno il lettore italiano. Mi piacciono davvero molto. Per me l’intertestualità è una caratteristica naturale della letteratura. Molta di questa intertestualità non è riconoscibile… Non mi vergogno delle mie fonti. Ma va detto che l’originale non comprende spiegazioni o fonti, quindi potrebbe non essere così evidente quante ne ho “copiate”. Mi viene in mente che la letteratura è un grande acquario in cui è possibile immergersi, molto è già stato scritto e detto, quindi perché non usarlo. Sono una persona che sta continuando a scrivere qualcosa. Penso che il bello della letteratura risieda nel fatto che si possono seguire i pensieri di altri e coglierli a modo proprio.
MM: Da questo punto di vista, ci sono riferimenti letterari che preferisce? Mi spiego: ha qualche modello concreto?
TS: No. In questo sono molto democratica. Cito volentieri sia Platone che la stampa scandalistica. Nel mio caso si tratta di una visione bizzarra su qualcosa, di uno stile basso o strano.
MM: Le faccio una domanda che faccio sempre a tutti gli autori con cui parlo. Cosa ne pensa della scena letteraria ceca contemporanea? Glielo chiedo in quanto ritengo sia parecchio ricca ed eterogenea.
TS: Credo che ogni scena letteraria venga percepita da lontano come ricca ed eterogenea. E penso che nel caso di quella ceca sia proprio così. Negli ultimi anni, soprattutto, ci sono molte giovani autrici che non scrivono in modo mainstream. E, al tempo stesso, anche la scena poetica è parecchio dinamica. Penso che qui ognuno possa trovare il proprio posto. Tuttavia, mi mancano voci maschili che scrivano in modo intelligente di temi come il femminismo o la paternità. Leggerei volentieri qualcosa del genere.
MM: Durante la lettura mi è sembrato chiaro, mi dica se mi sbaglio, che lei abbia voluto descrivere la società contemporanea, anche il suo lato più oscuro. Pensa che possa essere una buona descrizione? La protagonista del suo romanzo si confronta con molte domande oggi importanti…
TS: Esatto. Al tempo stesso il libro si può leggere come un racconto intimo, non tutti possono vederci un aspetto sociale. Non volevo proprio descrivere la società contemporanea, non è proprio possibile, ma piuttosto raccontare la storia di una persona che nella società non si sente bene e che si sente tutt’altro che normale, ovvero di vivere da qualche parte a andare al lavoro da qualche parte, scappare dentro un armadio. Penso che a volte ognuno di noi senta questa voglia di nascondersi da qualche parte.
MM: Nel libro gioca un ruolo importante l’armadio come simbolo, che rappresenta la dimensione psicologica della protagonista… Potrebbe spiegarlo brevemente? Da dove proviene l’idea?
TS: L’idea, in realtà, è nata in modo banale. Mia sorella mi aveva chiesto se conoscevo qualcuno che avesse bisogno di un armadio. Ero in visita da lei e vivevo in Germania. La domanda nella mia testa era come sarebbe stato prenderle l’armadio, portarlo giù nel suo cortile e viverci. In un certo senso in quel momento avevo bisogno di scappare dalla situazione che stavo vivendo e mi era sembrata una buona soluzione. Alla fine l’ho fatto in un modo un po’ diverso. E, per il resto, questa dimensione psicologica è particolarmente esistenziale. La mia protagonista trova la forza di scappare da ciò che è estraneo, ma non trova la forza di continuare ad agire e così si nasconde nell’armadio. Solo che poi l’estate finisce e si chiude dentro. E con questo? Volevo scrivere di quest’agonia, di quando qualcuno sta davvero male, di quando non si è più in grado di dire agli altri quanto le ose vadano male e quindi si nasconde fingendo anche davanti a sé stessi che vada tutto bene. Ma non è così.
MM: Un’ultima domanda: ha intenzione di scrivere altri romanzi?
TS: Sì, certo. Ma forse non succederà. Non lo so proprio. Ho un bambino molto piccolo e posso scrivere davvero poco, il che mi dispiace perché penso che la maternità sia un tema molto ampio e mi piacerebbe parlarne, ma semplicemente non trovo abbastanza tempo ed energie. Chi ha letto Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf penso mi possa capire appieno.
Futuro prossimo. Fabbrica Rossum’s Universal Robots. È giorno di presentazioni, si annunciano nuove invenzioni rivoluzionarie. Il direttore Domin domanda e si domanda: “Qual è, secondo voi, l’operaio migliore? Quello affidabile? Onesto? Niente affatto. Il più economico. Quello con minori bisogni. Il robot”. E cosa sono questi nuovi “robot”? Sono uomini senz’anima: uomini artificiali, meccanicamente perfetti. L’uomo è un “prodotto imperfetto”, forse perché Dio non era tecnologicamente così evoluto; i robot, invece, hanno un altro equilibrio. Sono parecchio più performanti. Stacco. Cocktail post presentazione. Ordini già in arrivo da mezza Europa. Helena Glory si presenta al direttore, con un biglietto di suo padre, il presidente Glory. Vorrebbe tanto poter vedere (in via eccezionale, si capisce) le segrete stanze della fabbrica. È figlia di un presidente: può entrare. Il direttore Domin promette che le mostrerà tutto: ecco le vasche (ciascuna contiene materiale per mille robot), ecco la storia della scoperta. Nel 1920, diverso tempo prima, il vecchio Rossum era sbarcato su quest’isola per studiare la fauna marina; voleva riprodurre, tramite sintesi chimica, la materia vivente detta protoplasma, finché non aveva scoperto un’altra sostanza che si comportava proprio come la materia vivente ma aveva una diversa composizione chimica. Ciò succedeva circa 12 anni più tardi, nel 1932. Quella scoperta era, concretamente e tecnicamente, un grumo di gelatina apparentemente senza senso. Rossum poteva, a quel punto, dare vita a qualunque genere di creatura, con quel grumo: aveva invece deciso di ricreare l’uomo. “Ma voi li fate davvero gli uomini?”, domanda lady Glory. “Più o meno”. Il vecchio Rossum era ateo, era materialista: pensava di poter spodestare Dio e ricreare ex novo un uomo, fino all’ultima ghiandola. Poi era arrivato suo nipote e gli aveva detto che era ridicolo impiegare addirittura dieci anni per replicare un uomo, serviva essere più veloci di madre natura. Quel giovane rappresentava la nuova epoca, davvero! Aveva capito che un bravo ingegnere poteva migliorare l’essere umano, perfezionandolo qua e là; cavando via qualche ghiandola, l’appendice, le tonsille, tutta una serie di cose inutili. Tipo i sentimenti, per capirci. “L’uomo ha bisogno di fare tante cose inutili”, spiega il direttore. “Fare passeggiate, suonare il violino, provare gioia. Sono cose inutili quando c’è da fare calcoli, tessere stoffe, lavorare…Vede, a un motore non servono ornamenti. E produrre robot è come produrre motori”. E così, il giovane Rossum aveva buttato via l’uomo per creare un uomo nuovo, chiamato robot: un operaio prodigioso dalla memoria eccezionale. Oppure una cameriera, una commessa, una dattilografa. Indifferente che fosse maschio o femmina. Il robot non aveva comunque passione e non aveva sentimento. “I robot sono più perfetti della natura ma non possono inventare niente di nuovo. Potrebbero benissimo insegnare all’Università”. Ogni giorno vengono prodotti quindicimila nuovi robot. I più longevi durano anche vent’anni. Poi si deteriorano e vanno rottamati come si deve. Non serve farsi scrupolo: non sono attaccati alla vita, non ne hanno motivo. Non provano più emozioni. Non vengono dotati di anima perché non è nell’interesse della fabbrica. Costerebbe troppo a livello di produzione…
1920. Nella distopia R.U.R. Rossum’s Universal Robots, opera di Karel Čapek, viene coniato il termine “robot”: viene dalla parola ceca “robota”, diventerà qualcosa di estremamente comune. L’invenzione della parola “robot” si deve al fratello di Čapek, Josef, pittore; Karel aveva pensato a un più didascalico “labor”. Questa la vulgata. 2020. Cento anni più tardi, Kateřina Čupová pubblica questa graphic novel, per la Argo di Praga. Secondo Luca Castelli del «Corriere della Sera», “di luce e colori abbondano le tavole della Čupová, che con l’autore dell’opera condivide la nazionalità, le iniziali e l’età in fase di creazione (è nata a Ostrava trent’anni fa). Il suo tratto elegante, gentile, quasi giocoso, discendente dalla tradizione dei cartoni animati dell’Est Europa, aiuta ad alleggerire una trama che spesso lambisce scenari cupi alla Metropolis di Fritz Lang (film che risentì parecchio dell’influenza di R.U.R.)”. A dar retta a Maurizio Di Fazio de «la Repubblica», si tratta di una “rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca”. Nella postfazione, il professor Alessandro Catalano puntualmente osserva che durante questi cento anni, a partire dall’invenzione di Čapek, “il robot, multiforme alter ego dell’uomo, sua copia infedele, spesso aggressiva, ha subito mutamenti sostanziali”: tanto che, paradossalmente, oggi è più famosa la parola “robot” che l’opera sua matrice, R.U.R. Rossum’s Universal Robots. “I robot hanno infatti da subito iniziato a vivere di vita propria, fino alla definitiva identificazione con l’essere artificiale antropomorfo di tipo meccanico, dominante a partire dalla fine degli anni Venti e infine istituzionalizzata da Isaac Asimov e dalle grandi saghe cinematografiche”. In R.U.R. Invece il robot è un essere umano “dalle ridotte esigenze e dalla maggiore efficienza lavorativa”. Cosa che, politicamente e simbolicamente, in genere, ha ben diverso peso e ben diversa consistenza. Direi che la distopia del notevole Karel Čapek (Malé Svatoňovice, 1890 – Praga, 1938) aveva parecchi elementi di visionaria critica ai totalitarismi figli del socialismo: i suoi “roboti” sembrano quei cittadini-sudditi cinesi della nostra epoca, estranei a qualunque forma di protesta e di ribellione, vuoti e obbedienti e quando serve aggressivi e famelici, come formichine. I robot di Čapek conosceranno una sorte differente da quella che avevano previsto i loro progettisti, in fabbrica: speriamo che sia così per gli “inconsapevoli automi” derivati e originati dai dispotismi asiatici e dai totalitarismi di nuova generazione. L’opera è stata pubblicata dalla Miraggi di Alessandro De Vito & c. nella nuova e promettentissima collana MiraggInk, con il contributo del Ministero della Repubblica Ceca. Siamo dalle parti di quei fumetti che scintilleranno di grazia e di intelligenza per diverse generazioni, nelle vostre biblioteche. Compratelo e fatelo leggere ai vostri bambini e ai vostri ragazzi, spiegate loro che i totalitarismi non sono un gioco e che l’anima e i sentimenti sono tutto quel che abbiamo. Chiudiamo con qualche cenno biobibliografico. Karel Čapek, giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento. Nelle sue opere antesignane e visionarie ha trattato temi delicati e oggi decisivi come l’intelligenza artificiale, le epidemie, l’energia atomica. Kateřina Čupová da Ostrava, Cechia, classe 1992, animatrice e fumettista, si è laureata presso il prestigioso Dipartimento di Animazione all’Università Tomáš Baťa di Zlín. A dar retta agli amici della Miraggi, “il suo stile accattivante e simile a un cartone animato è fermamente radicato in decenni di apprezzata animazione ceca”. Vediamo di apprezzarla a dovere anche quaggiù in Italia!
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