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Articolo di Enrica Bardetti

«C’era il paese e altri che vivevano nel paese, non molti, qualche bambino, un po’ di vecchie, gli animali. Il paese si chiamava Pontescuro».
«Si chiamavano Gené, che non sapeva cosa sono i pensieri, e si chiamavano Emilio, detto il Zuntura, l’aggiustatutto, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore. Si chiamavano Làinfondo, perché il nome non gliel’avevano mai dato e allora indicava dove viveva, e si chiamavano Ciaccio, come il verso degli uccelli, don Andreino e don Antonio perché erano dei preti, e c’era Furàza, la vongola, una cosa che non si può aprire senza il prezzo di ucciderla».
Siamo nella bassa padana, anno 1922. Gli avvenimenti storici che hanno interessato l’Italia in questo e negli anni a venire, fatti di camicie nere di tentativi di resistenza e di passi che marciano sulla capitale, sono solo echi che non oltrepassano la cortina di nebbia che qui delinea il contorno delle cose e delle persone.

«La nebbia da queste parti è sempre stata molto importante, una di quelle cose impalpabili che però determina, per il solo fatto di osservarla da un punto o da un altro, o di starci dentro, chi sei, perché porti il tuo nome e com’è fatta la casa nella quale dormi, e su quale letto dormi, se è un letto».
Pontescuro è un paese che prende il nome dal ponte che fu costruito per unire due sponde del fiume Po fino a quel momento disabitate.
«Perché volete collegare due nulla” chiedevano le donne di quei costruttori». Loro rispondevano che se avessero edificato solo su una sponda, l’altra sarebbe rimasta disabitata; il paese si sviluppò così in forma circolare intorno al ponte.
La nebbia e il ponte sono solo alcuni degli esseri “non umani”, tanto determinanti nel racconto, da divenire voci di questo romanzo corale che con linguaggio poetico ci immerge nella meschinità dei non detto di un piccolo borgo di provincia dove molti degli abitanti non hanno occhi capaci di vedere la bellezza, perché «la bellezza non è nel nostro destino» e «Noi lavoriamo la terra da generazioni e la terra non è pulita, anzi sotto fa schifo, e non è pulito il padrone».
Sono rozzi contadini gli abitanti di Pontescuro sfruttati dal signorotto del paese dal quale dipendono, che non conoscono il significato delle parole possibilità, evasione e amore, parole capaci solo di dare inutili illusioni. Per questo «quelli incantati da tutte le bellezze che non ci appartengono, che siano di proprietà dell’uomo o della natura stessa, noi li rendiamo innocui, li neutralizziamo, li spingiamo ai margini della nostra terra, che siano un ubriacone muto o un declamatore di libertà, un poeta ignorante, un sognatore».
Ecco allora che quando la figlia del padrone locale, una ragazza ribelle che si concede per rabbia e per sfida diventando “la sgualdrina”, viene assassinata, i paesani, riuniti in chiesa sotto la guida del parroco reticente, non fanno altro che puntare il dito contro l’unico colpevole possibile: lo scemo del villaggio, quel giovane trovatello che si erano sforzati di accettare, ma sempre guardato con sospetto perché “fuori dagli schemi” del loro squallido vivere.
Di questo romanzo di Luca Ragagnin – Miraggi edizioni – ho amato tutto: la scrittura evocativa che ti fa “sentire” i suoni e i colori della terra in cui è ambientata, i personaggi così ben costruiti che te li porti dietro anche a lettura finita e le illustrazioni in bianco e nero di Enrico Remmert, semplici ed efficaci nel farti calare ancor più nella storia.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Pontescuro di Luca Ragagnin (Miraggi edizioni, 2019)