Di Zátopek avevo già sentito parlare, o letto degli aneddoti da qualche parte sul web, e l’immagine di quest’uomo e della sua leggendaria caparbietà mi era rimasta curiosamente impressa. Per questa ragione, quando mi sono trovata tra le mani Zátopek. Quando non ce la fai più, accelera!, ho pensato fosse arrivata l’occasione giusta per approfondire la sua storia.
Zátopek. Quando non ce la fai più, accelera! è una graphic novel nata dallo sforzo congiunto di Jan Nováke Jaromír99 e giunta in Italia grazie alla casa editrice torinese Miraggi Edizioni e alla traduzione di Stefano Baldussi. La storia è quella di Emil Zátopek, atleta cecoslovacco di fama internazionale e figura di particolare rilievo del XX secolo.
Disegni dai tratti spigolosi, pochi colori primari che creano un contrasto austero tra tinte calde e fredde rendendo l’atmosfera rigida e talvolta opprimente… l’opera dedicata al grande corridore riesce a trasportarti subito in un mondo altro, altrettanto spigoloso e ormai distante anni luce da quello che oggi conosciamo.
Ci troviamo del resto in un periodo storico particolarmente caldo, tanto per l’Europa quanto per l’allora Cecoslovacchia, dove Zátopek nasce all’inizio degli anni ’20. Emil si trova infatti a dover affrontare prima il periodo del nazismo, poi la guerra, e subito dopo il comunismo con l’influenza dell’URSS. Sono anni di cambiamenti radicali, tanto forti da segnare con la stessa forza, inesorabilmente, anche la vita privata, le scelte e i rapporti tra le persone.
Zátopek si muove in questo contesto cercando di fare del suo meglio, sbarcando il lunario con un semplice impiego in una fabbrica di scarpe, ma scoprendo ben presto il mondo dello sport e dell’atletica proprio grazie a una competizione organizzata dal calzaturificio.
Uno degli aspetti interessanti della narrazione è ciò che traspare del rapporto di Emil con gli organi di potere: emerge con chiarezza una continua ricerca di libertà, comune a molte personalità sportive del tempo, che tuttavia non portasse a destare preoccupazione negli alti livelli, attenti a mantenere una determinata immagine del paese anche attraverso i propri rappresentanti in ambito sportivo.
Il libro non si limita però a celebrare le vittorie e la figura di Zátopek, ma esplora anche la dimensione della sua vita personale, segnata in qualche modo anch’essa dalla stessa disciplina ferrea che Emil applicava alla corsa.
Zátopek. Quando non ce la fai più, accelera! è un’opera che coinvolge, ispira e commuove, unendo la Storia più grande a quella più personale di una figura straordinaria che, grazie a una determinazione e una forza fuori dal comune, ha saputo scrivere una pagina importante dello sport e non solo.
Quando cinque anni fa Sergio La Chiusa, palermitano d’origine e milanese d’adozione, fu finalista al Premio Calvino e premiato con la Menzione Speciale Treccani per il romanzo I Pellicani, poi pubblicato da Miraggi, ci fu chi ne salutò l’eterodossia rispetto alle forme narrative dominanti. Ispirato a maestri della letteratura umoristica come Gombrowicz e Beckett, quell’esordio in prosa di un ex-poeta attestava in effetti doti stilistiche non comuni, un senso pronunciato dell’assurdo e la capacità di osare senza manierismi il richiamo a certi capisaldi del modernismo letterario. Oggi sappiamo che quel libro fu scritto tra una fase e l’altra del lavoro quasi ventennale a un’opera più ampia, ora proposta con altrettanto coraggio dallo stesso editore torinese: Ilcimiterodellemacchine(Miraggi, pp. 400, euro 26) è un romanzo – mondo esaltante e benefico, perché dimostra come l’arte nata con Rabelais e Cervantes possa ancora esercitarsi in piena libertà.
ILBELLO è che fa ridere e non spaventa: il protagonista si chiama Ulisse Orsini, la sua peregrinazione estiva nella «città delle opere» (o «della moda e degli eventi») ammicca tanto all’antenato joyciano quanto al progenitore acheo di entrambi, la rete intertestuale è fitta e sfacciata nel chiamare in causa altre pietre miliari della cultura occidentale, letterarie quanto figurative o spirituali, eppure il romanzo non pecca né di grandeur né di epigonismo. Alto e basso vi si amalgamano anzi con una tale divertita disinvoltura da non lasciare dubbi sulle intenzioni dell’autore: abbordare ogni stortura del nostro presente con un mezzo più duttile possibile, sia linguisticamente sia nella composizione, e farlo attraverso un protagonista sfigato per bene, ma privo di una dimensione tragica. Orsini è infatti un quarantenne senza più lavoro, trascurato e depresso di conseguenza, indebitato quanto basta, che vive da solo fra condòmini più o meno molesti e da uno di questi si lascia avviare alla prima tappa del suo smarrimento: nel palazzo fatiscente dove ha sede l’ambulatorio del dottor Klammermann, kafkiano per nome e imperscrutabilità.
È solo l’inizio, ma già qui il narratore s’immischia parlando per sé e il proprio personaggio alla prima persona plurale, con il disincanto di chi sa quando rompere la finzione perché sa anche come ripristinarla, per poi di stazione in stazione concedersi divagazioni, accumuli, proliferazioni a latere che illuminano direttamente aspetti del reale. Il quale per il resto è qui trasfigurato in un cosmo metropolitano ad alto tasso immaginifico, non importa se si tratta di un artista mancato fattosi prete o di una venere dell’immondizia, di un bordello o di un reparto geriatrico: sempre le vicende di Orsini attraversano luoghi e s’imbattono in esseri di sorprendente vividezza e icasticità, e la sorte bislacca e inconcludente che sembra perseguitarlo nella prima parte è solo la premessa della sua avventura centrale – poiché a un eroe dei nostri tempi può toccare, nel migliore dei casi, di finire in una discarica.
È QUESTOILCIMITERO delle macchine: lo scenario alla periferia di una Milano mai nominata ma ben riconoscibile dove convergono gli estromessi di un sistema votato alla catastrofe. Ci sono i giovani incendiari, che dibattono puerilmente da posizioni ideologiche complementari ma inconciliabili, le antispeciste che indossano la mascherina per non ingerire i moscerini, gli imbrattamuri infoiati, il palestinese in crisi post-traumatica e la
naturista gravida. Ma soprattutto c’è Lazzaro Lanza, guru del «Movimento per la sopravvivenza dell’umanità» nonché imbianchino con l’Ape, capace di affondi profetici sull’oggi come di dialoghi notturni con Lao Tzu e altri «intellettuali insonni», e parente figurale sì di Gesù, giacché toccherà anche a lui una via crucis sui generis con annessa ascensione, ma anche del Franchino di Fantozzi, con pari dignità.
Non è tuttavia tra i rifiuti e gli scarti del capitale che finirà la deriva di Ulisse Orsini, né a Lanza basterà teorizzare ai margini, intenzionato com’è a conquistare il centro urbano con un nutrito seguito di diseredati inneggianti alla rivoluzione. Il trionfo pseudo-apocalittico in cui tutto culmina, prima del congedo di un Orsini sfrattato e spogliato, si sdoppia: ora in due varianti opposte e soltanto sognate di un diluvio che sommerge la città, ora in un ingresso cristico nella medesima che, quando non finisce a manganellate, è la farsa di un anzianotto accolto con ogni onore dalle autorità. Smarrito pure lui, non fosse per un’irresistibile ostia al cioccolato.
QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/archivio?autore=Stefano%20Zangrando
Quando nel 1926, in una nota a “Il Castello”, Max Brod divulga la volontà di Franz Kafka di fare terminare il romanzo con la morte dell’agrimensore K. proprio quando dal castello arriva la concessione all’uomo di poterci vivere e lavorare, Kafka apre una questione mai risolta sul rapporto tra essere umano e libertà.
Già nel quinto paragrafo del quinto libro di Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, dal titolo “Il Grande Inquisitore”, l’autore russo mette l’Inquisitore nella condizione accusatoria contro il Cristo ritornato, che aveva tentato di portare la libertà a un popolo non in grado di riconoscerla e di usufruirne. In questo al pari di Vasilij Vasil’evič Rozanov, che nel suo “La leggenda del grande inquisitore” analizza quel rapporto in seno al potere ecclesiastico, vero responsabile della deriva nichilistica dell’essere umano, allontanato da se stesso e da Dio.
Perché sei venuto a infastidirci?, dice l’Inquisitore a Cristo, disvelando quell’inquietante verità del bisogno di un’autorità che governi e induca l’illusione di felicità negli uomini, che è una finta libertà, che acquieta e abiura l’incertezza.
La domanda viene ripetuta ancora, è il cardine di un consolidamento di potere, perché è nel binomio potere-libertà che l’Uomo fa i conti con la persecuzione, la solitudine e la colpa dinnanzi all’autorità.
Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato».
E prosegue, “I fratelli Karamazov”, col dubbio su chi fosse nel giusto, se Cristo o colui che l’interrogò.
In questa enunciazione vi è la forte opposizione dell’essere e del non essere, che è propria del gioco sottile del potere, che tenta di annientare qualsiasi volontà. L’Uomo acconsente perché il peso della libertà è insopportabile. L’irresolutezza, secondo l’Inquisitore, condurrà l’essere umano a innalzare una nuova Torre di Babele al posto del Tempio di Dio, in mezzo alla pena, agli affamati, ai torturati, nel ciarpame e nelle discariche del mondo. E in questo inganno consisterà la sofferenza. Nel non trovare un posto nel Castello, nel non poter incontrare Klamm, il sommo funzionario, sfuggente, iperboreo, a cui K. vuole rivolgersi per risolvere la sua situazione. In ceco “klam” significa inganno, illusione, e tale sarà il funzionario, le cui competenze non verranno mai esperite nel romanzo.
Ulisse Orsini invece non ha nessuno a cui rivolgersi. Nella sua innocua nullità non ha nemmeno un Mefistofele moderno che gli insidi l’anima. Ulisse Orsini è un ultimo, un esodato, un rifiuto, una crosta purulenta, un ibrido umanoide senza identità. Ce l’aveva, Ulisse Orsini, ma l’ha persa. È stato costretto, Ulisse Orsini, ad andare via da casa, dal lavoro, dalla società. Ulisse Orsini non esiste più. E al suo creatore, Sergio La Chiusa, non resta altro che regalargli la parte in un romanzo per tenerlo in vita, da cui entra ed esce, con un “tu”, con un “noi”, a seconda di chi lo segue, se i lettori da soli o insieme a lui, il protagonista, lo scrittore e chissà chi.
Calma però, calma: Ulisse non sa d’essere in un romanzo: è un personaggio serio, a suo modo, e invece di perdere tempo mettendo in discussione i ruoli cerca una via d’uscita.
Lo inducono ad andare dal dottor Klammerman, il deus ex machina, in ospedale, che il suo sia un caso clinico?, quest’Ulisse che sragiona, che non sa che farsene della sua libertà, ora che la società non lo vede più.
Ma è l’inizio di un’odissea tra gli antispecisti, tra statue e manichini, in un condominio frequentato da fantasmi, tra incendiari ed enigmisti, con la sua valigia piena di vestiti o di niente, come un moderno “Bad Boy Bubby”, alienato, visionario pronto a tutto, che non è capace di ribellarsi, o per meglio dire, che in una smaniosa, affettata e quanto mai disperata ribellione non trova la felicità. E allora vaga tra discariche e relitti umani scambiati per guru, mentre Sergio La Chiusa svuota le frasi del superfluo, quei pensieri che a Ulisse Orsini mancano, vanno e vengono si fanno ipotattiche paralisi dinnanzi all’abisso.
Come aveva fatto nei precedenti testi, La Chiusa, “Che ci facevo sulle scale di un caseggiato in rovina?La mia situazione mi sembrava così irreale che sospettai di essermi inventato tutto (“I Pellicani”, pubblicato da Miraggi Edizioni, finalista al Premio Italo Calvino – Menzione Treccani; al Premio Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Megamark) e “Tali interrogativi mi spaventano e m’allontanano pericolosamente dalla realtà” (“Madre nel cassetto”, pubblicato da Industria & Letteratura), dicevo, come aveva fatto nei precedenti testi, lo scrittore induce il suo protagonista in una realtà deliroide fatta di frasi stroboscopiche sapientemente dosate, che allargano la visione del lettore e la costringono a vedere tutto in primo piano, non esiste più la tridimensionalità, la visione di fondo, ogni cosa è percepibile accanto all’altra, senza soluzioni di continuità ma con forme nitide e riconoscibili nonostante non siano scisse dalle altre.
A La Chiusa non resta che l’ironia, il tragico umorismo come primordiale autocoscienza del personaggio, in questi tempi in-drammatici e non più tragici. E così Cristo torna tra noi, in una versione burlesque e anacronistica alla James Ensor, autore del quadro che lo stesso La Chiusa cita nel romanzo, “L’entrata di Cristo a Bruxelles”, un’opera pittorica del 1889, in cui Gesù è attorniato dalla trasfigurazione epigonale di categorie ridicole. Buffoni, medici, paladini, maschere da ruolo sociale. Quest’opera è da subito ribattezzata “L’ingresso di Cristo nella città della moda e degli eventi nel 2004”, alludendo a Milano, nella sua impostura più spietata, città finta e di superficie.
«Cari concittadini, come potete vedere vi abbiamo riportato Gesù in persona, la nostra giunta comunale ha lavorato a lungo per arrivare a questo risultato che ci ha permesso di vincere un’agguerrita concorrenza internazionale. Tutte le capitali europee se lo contendevano: Parigi, Berlino, perfino Londra, che avrebbe voluto metterlo in coppia con la regina ed esibirli insieme a Buckingham Palace, e più tardi al museo delle cere, e siamo davvero onorati che nonostante le molte proposte alla fine Gesù abbia scelto la capitale morale del Belpaese per ripresentarsi nell’arena pubblica, e ciò è motivo d’orgoglio per la nostra città delle opere, sempre all’avanguardia, sempre un passo avanti… Ma ora basta! Ve l’abbiamo fatto vedere!».
Il Cristo pare vacillare, non è più di questi tempi, il Grande Inquisitore l’ha spodestato, tra palestrati, assessori, imprenditori, tutti a chiedere sciocchezze da talk show, incapaci di focalizzare le questioni essenziali. Sindaco e Cristo, come ne “I fratelli Karamazov”, solo che ora è una farsa, la farsa dei pomeriggi in tv, degli esperti che vedono talenti dappertutto, anche se il talento è fuggitivo ed è meglio che quello vero si disperda, liquefatto dalla prestazione posticcia di un qualsiasi saltimbanco da circo, fino a distorcere la parabola dei talenti.
Perché oggi si preferisce il fenomeno e tra tutti il morto singolo, fenomeno dei fenomeni, quello empatico, che scippa una lacrima al tizio seduto in poltrona a casa sua.
E chi vuole la verità?
Sono io il vero Ulisse, il signore è un impostore. Un personaggio! Posticcio e inattendibile pure come personaggio!
Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.
In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi; quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.
Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.
Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.
Tornare a casa, prendere tre bottiglie di birra rossa forte, trovare il modo per imbottigliare un passato che non vuole saperne di essere dimenticato. Svegliarsi di soprassalto per la rottura della vetrina di un negozio di computer. Ladri che fuggono. Insonnia. Scendere, andare in un bar aperto tutta la notte. Ancora birra. La sigaretta come un catalizzatore che riavvolge il cinema della memoria. Martin è di nuovo nell’acciaieria dal nome poco originale di Nová Hut’, la fatica, i turni inumani, il calore estremo, il nero e il giallo della “Nová svoboda”, quella “Nuova libertà” dell’impero sovietico che sa molto di prigionia. Gli aguzzini sono quei russi senza volto che eppure sembrano essere dappertutto, capillarmente, in ogni aspetto della vita ceca. Tuttavia nella vita di Martin c’è Eva, più simile a una visione che a una realtà, una boccata d’ossigeno nell’atmosfera soffocante di coke e carbone. Allora fuggire da quel mondo “giallonero” diventa un’esigenza vitale, una questione di sopravvivenza e la fuga nel privato domestico non è più sufficiente a garantire quel minimo spazio vitale che permette di non crepare nella solitudine. Quello che restano sono i piccoli, inutili gesti di ribellione, come chiamare il ristorante Stalingrad “U Hitlera” (“Da Hitler), nonostante i professori di storia cerchino di soffocare ogni parallelismo tra i due tiranni…
Il romanzo di Jan Balabán è avvolto fin dall’inizio da un senso di spaesamento che arriva al lettore in modo concreto fin dalle prime pagine. Aprendo il libro a pagina 5 ci si trova infatti davanti al titolo “Diciannovesimo”. Chi legge cercherà invano errori di impaginazione o di allestimento: il diciannovesimo è davvero il primo capitolo, segno di un inizio in medias res che è come un salto per tuffarsi nel passato lontano. La vita di Martina è sospesa su un filo, da una parte il comunismo, con il suo conformismo, con le sue vite standardizzate da un’industrializzazione violenta e soffocante e con le sue ribellioni di gioventù, dall’altra una società post sovietica incerta nelle sue fumose promesse. Nei ricordi di Martin affiorano luoghi, fatti e personaggi, come il compagno di scuola Tonda Gona, che da bambino soffrì ogni forma di umiliazione da parte della sua docente. Insegnante Piskalová che gode dell’impunità dell’oblio perché “Gli insegnanti cattivi hanno la fortuna che i bambini rimuovono la crudeltà dei momenti di umiliazione nelle stanze oscure della loro anima”. Tonda Gona diventa così un personaggio tragico, al punto da diventare Tonda Antigone, in un lungo monologo che rivela come tutte le promesse del regime siano in realtà un terrificante tradimento. Martin si spinge oltre e denuncia come illusori tutti i regimi, siano essi capitalisti, comunisti, russi, tedeschi, austriaci o ebrei (sic). Il libro di Balabán è un gioco al massacro in cui la posta in gioco è la vita di un’intera generazione, passata in attesa del “passaggio dell’angelo”, quell’unico momento di riscatto che si può perdere o cogliere al volo. La prosa è densa, ricca di riferimenti alla storia e alla letteratura ceca, ma fortunatamente un apparato di note non invasivo aiuta a non perdere la bussola. Un romanzo dolceamaro per chi voglia capire qualcosa di più dei paesi che sono stati all’ombra opprimente dell’Unione sovietica.
Il viaggio ferroviario, potente metafora dell’esistenza che potrebbe richiamare alla mente Moska-Petuškì di Venedikt Erofeev, o ancora La freccia gialla di Pelevin, fornisce il ritmo narrativo a Io sono l’abisso, prima opera di Lucie Faulerová a essere tradotta in Italia. Una scrittura onnivora, densa, carnale e affabulatrice non immemore della peculiare esperienza poetica di Hrabal; una sorta di monologo joyciano nel quale la parola scandaglia il reale con implacabile lucidità. Pensieri e ricordi si susseguono, trovano corrispondenze analogiche in un flusso travolgente e ininterrotto. Una confessione di estrema crudezza, ma anche percorsa da un afflato profondamente umano e mitigata da un umorismo tipicamente ceco.
Il titolo italiano proviene da un brano estratto dall’interno del testo, ed evoca inquietudini mitteleuropee. Se, come scrive Thomas Bernhard, “i nostri interlocutori cercano sempre di spingerci contemporaneamente in tutti i possibili abissi”, Faulerová espone al nostro sguardo le prospettive più vertiginose della propria anima. Il titolo originale, che letteralmente significa Ragazzamorte, ci introduce in una realtà costantemente sull’orlo del baratro. Tirando fuori dall’acqua un fantoccio che rappresenta Morana, la dea della morte nella mitologia slava, la protagonista Marie compie un gesto di sfida, una ribellione nei confronti dell’incomprensibile. Le continue allusioni alle differenti modalità del suicidio pongono l’accento sugli aspetti pratici e crudi del gesto. Residui del mondo infantile balenano nella narrazione.
La protagonista vorrebbe imparare a scomparire, come un mago, per scoprire il segreto dell’esistenza. Svegliarsi a volte è piacevole, perché si resta per un istante sulla soglia del nulla. La visita al planetario pone interrogativi impossibili sull’universo. “Il serbatoio di domande e misteri era inesauribile”, scrive Faulerová. “Dio misericordioso, quanti misteri ci sono al mondo”, scrive dal canto suo Erofeev. Anche l’individualità, sempre sul punto di sgretolarsi, appare un enigma. “Ma io chi sono da sola?”, si chiede Marie cercando di collocarsi in prospettiva con gli altri. Il suo cercare un contatto fisico nella folla anonima è un gesto per affermare la propria esistenza. Il nulla è una minaccia costante. La paura è quella di svanire, come la ripresa illeggibile di una telecamera di sorveglianza. “Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono soltanto un’imitazione”, si chiede angosciata la protagonista.
Il viaggio si rivela faticoso, fantasmagorico, irto di immagini speculari e prospettive illusorie che confondono i sensi. Le facili teorie, che presumono di avere una spiegazione per tutto, vengono demolite con corrosiva ironia. Il senso di colpa per non aver saputo impedire il suicidio della sorella e le tragiche vicende familiari sono l’occasione per una narrazione totalizzante sul senso dell’esistenza. Decidere se cercare di sopravvivere, a qualunque costo, o punirsi lentamente, o farla finita per sempre è un dilemma che lacera la coscienza. “Ed è come se avessero tirato via la tovaglia dentro di me, e tutti i piatti cadessero a terra frantumandosi in milioni di minuscoli cocci”, una immagine magnifica che ben definisce la peculiare voce di Faulerová, la sua capacità di far presentire la fragilità, il carattere effimero della nostra esistenza.
Sergio La Chiusa, Il cimitero delle macchine, Miraggi ed./Scafiblù, 2024.
Avevo molto apprezzato l’esordio narrativo di La Chiusa, il romanzo “I Pellicani” (Miraggi, 2020), cui ha fatto seguito il godibilissimo racconto lungo “Madre nel cassetto” (Industria e Letteratura, 2023). Ma devo dire che con “Il cimitero delle macchine”, (che riprende e rielabora una prima stesura degli anni 2003-05) mi sembra che l’autore segni una svolta nella sua poetica e acquisisca sempre più consapevolezza delle sue capacità autoriali. Il romanzo gronda letterarietà da ogni pagina. Sia per l’architettura formale e le tecniche narratologiche che lo sostengono, sia per le scelte simboliche (il personaggio “Ulisse” e il suo viaggio surreale; “la città delle opere”), sia infine per i riferimenti e gli omaggi letterari (tra tutti, a mio vedere, Buzzati e Bianciardi). Il pedinamento del personaggio, la voce narrante che segue il personaggio e ne racconta pensieri e azioni, narratore e personaggio che a volte si sovrappongono e il soggetto diventa un “noi”: sono espedienti narrativi che qualificano l’opera e certificano un impianto formale studiato, curato e interessante. C’è fin da subito nel romanzo anche, come dicevo, un impianto simbolico: l'”odissea” surreale del personaggio che, di passaggio in passaggio, finisce per perdere dignità sociale e identità tanto che le ultime pagine del romanzo lo vedono cercare riparo e luogo dove passare la notte nel cimitero della “città della moda e degli eventi”.
C’è, va detto, una ripresa del topos presente ne “I Pellicani”, ma qui volutamente più ridondante: quello del condominio fatiscente, dei cantieri edilizi, le impalcature, i palazzi in costruzione. C’è l’esatto opposto dei sentimenti di vitalismo che volevano proporre i futuristi (“La città che sale”). La città cresce, sì, in altezza e si espande, ma qui in più di un cantiere si trovano nicchie dormitorio per i senzatetto e i loro cani, orde di abusivi, tanto per chiarire che la città delle opere nutre in seno possibili apocalissi future.
C’è un ricorso a piccole resistenze urbane (non pagare le spese condominiali, essere in ritardo con l’affitto); iniziative velleitarie e come si vedrà autolesionistiche, che comunque rappresentano le uniche piccole anarchie che Ulisse Orsini può mettere in atto contro il sistema. Troviamo nel romanzo paesaggi urbani desolati: periferie piene di capannoni industriali, containers, cimiteri di automobili, cantieri abbandonati, stazioni dismesse rifugio di reietti umani con i loro cani. Nella desolazione urbana e suburbana svetta simbolicamente -vi compare più volte nel testo- il duomo della “città delle opere”. Ma è un ricorso corrivo: le sue guglie si sollevano dal marasma umano, sì, ma puntano su un cielo sempre cupo e plumbeo. Su un cielo da cui cade quasi sempre pioggia (ho pensato a “Hard rain” di Bob Dylan).
Nel suo andare, (nel suo fuggire?, nel suo cercare? nel suo disumanizzarsi?) Ulisse Orsini passa da un contesto simbolico all’altro, ognuno con personaggi che esercitano il potere o lo combattono: il condominio con l’amministratore e i vicini che si coalizzano per farlo sfrattare; la struttura ospedaliera con infermieri corrotti e ambigui; il cimitero delle macchine con i ragazzi incendiari che s’illudono di combattere il sistema; le campagne accanto alla statale, con donne contadine che s’impegnano per i diritti umani che devono valere anche per gli animali. Troviamo anche un povero Cristo redivivo, col suo asino, ridotto a disdicevole evento. E in questo “paese dei campanelli”, che mette a profitto persino l’impensabile, svetta la figura di Lazzaro Lanza, un guru della resistenza urbana, un profeta delĺ’anticonsumismo e della difesa dell’ambiente che Bianciardi avrebbe trasformato in guerrigliero urbano ed eroe ma che La Chiusa preferisce ironizzarci su e presentarcelo come un borderline.
Forse, magari sul finire, qualcuno avrebbe anche apprezzato maggiore sintesi, ma l’affabulazione, la ridondanza, il flusso di parole sono cifre dello stile di La Chiusa. Il romanzo scorre sui binari del tragicomico e del grottesco. E probabilmente senza l’eccesso, senza l’espansione del discorso e -diciamolo- il divertissement verbale, questo autore non sarebbe più lui.
Le sue parole che, se a un certo punto non decidesse di fermarle con la parola Fine, avvolgerebbero il mondo, sono troppo preziose e godibili per chiedergli maggiore sobrietà. Non è quello il suo stile. Come non è il suo stile rappresentarci la “città delle opere” come luogo dove possa regnare un qualche bene del mondo. Al contrario, in quell’ombelico della postmodernità, vi si annidano per il nostro autore tutti i mali possibili. Pesantezza? No, nel modo più assoluto. Perché La Chiusa sa raccontare quei mali con la corriva ironia e con la piacevole affabulazione del cui sapiente uso è abilissimo estensore.
Per finire voglio rendere merito ai responsabili delle edizioni Miraggi: intercettare un autore della portata di Sergio La Chiusa, capirne le prospettive, investirci pubblicando un romanzo denso di contenuti ma accattivante al sommo grado e di forte profilo letterario, non è cosa da tutti. Come non è cosa da tutti poter realizzare un libro con tanta minuziosa cura, senza economia di mezzi, con un progetto grafico d’avanguardia come è questo. Grazie.
“A Madla ci penso ininterrottamente. Un binario cieco. Un tunnel senza fine. La pagina vuota di un libro”. L’assenza della sorella risuona in ogni parola di Marie, la protagonista di Io sono l’abisso, che isolata da tutto e da tutti cerca a fatica di uscire da un mondo di cicatrici, ferite e “dolori fantasma”.
Se già il romanzo di debutto, Gli acchiappapolvere (2017), non era passato inosservato, con Smrtholka, del 2020, la giovane scrittrice ceca Lucie Faulerová (1989) ha vinto il prestigioso premio Magnesia Litera e il premio dell’Unione Europea per la letteratura. Il titolo ceco suonerebbe alla lettera “Ragazzamorte”, uno dei nomi della dea Morana, tradizionalmente legata ai riti primaverili della rinascita. Per la difficoltà di trovare un efficace equivalente è stato cambiato in uno dei pensieri ricorrenti della protagonista: “l’abisso è lì, vedo l’abisso, l’abisso vede me, l’abisso è in me, io sono l’abisso”.
Pubblicato nell’empatica traduzione di Laura Angeloni, fedele e inventiva traghettatrice di gran parte della letteratura ceca recente, questo romanzo prosegue il meritorio lavoro portato avanti dall’editore Miraggi. Nella collana “Nová vlna” (il rimando è alla celebre nouvelle vague del cinema ceco degli anni ’60) sono stati pubblicati in sei anni 21 volumi, in maggioranza di autori contemporanei, ma con grande attenzione alle scrittrici. Questa notevole letteratura al femminile, che nel caso della Faulerová è legata anche a una forma narrativa originale, è ancora troppo poco nota fuori dalla Repubblica Ceca.
Io sono l’abisso è il resoconto di un lungo viaggio in treno, con l’intera vita della protagonista che scorre davanti al finestrino: è una partenza o un ritorno a Carogna, il paesino da cui è scappata? Tutto ciò che ci viene raccontato si svolge davanti ai nostri occhi, anche gli episodi del passato, come se gli scompartimenti del treno rappresentassero stanze della memoria, che ci vengono aperte da una narratrice non sempre affidabile. Il movimento del treno determina il ritmo. Le espressioni onomatopeiche, che riflettono i rumori della locomotiva e degli scambi, danno vita a una raffinata tessitura linguistica, sottoposta a continue accelerazioni e rallentamenti, nell’estenuante tentativo di ricostruire un ordine.
Marie ha appena ventitré anni, ha già cambiato facoltà all’università due volte, ma soprattutto ha dovuto fare i conti con la follia della madre e il recente suicidio della sorella, che aveva già combattuto contro un cancro. La realtà frantumata della sua vita riemerge in modo disordinato, solo pian piano acquisisce senso e i tasselli si rimettono insieme. I suoni del treno funzionano come un metronomo della memoria, che oscilla tra i demoni interiori della narratrice e la dolcezza di ricordi ormai lontani.
Ma Io sono l’abisso non è soltanto un romanzo sul dolore, la simbiosi tra la protagonista e la sorella offre all’autrice la possibilità di sviluppare un altro gioco nel gioco. La frequentazione di seminari esoterici di vario tipo, dove “la questione è sempre la stessa: purificarsi, concentrarsi, armonizzarsi”, permette allo stesso tempo di ironizzare goliardicamente, con tutta la spensieratezza della gioventù, sulle questioni essenziali. Lucie Faulerová sa osservare il passato come se fosse un film e il finestrino fosse lo schermo sul quale la memoria può proiettare la vita, tornando a piacere avanti e indietro, alla ricerca dell’istante chiarificatore, che naturalmente non c’è: “La registrazione termina qui, poi non c’è più niente, qualcuno deve aver disconnesso le telecamere di sorveglianza”.
Marie non è mai stata se stessa, si reputa una “parassita”, “una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. Una frase incompiuta”. E al lettore viene progressivamente presentato un quadro di autolesionismo: un dito tagliato, la fronte sbattuta contro lo specchio, una matita colorata nell’occhio, la lingua recisa che la rende quasi muta, metafora anche di un linguaggio che non riesce a esprimere il dolore. Una personalità da ricostruire, che ha abbandonato il padre e il fratello Adam, e sembra più volte sul punto di seguire il destino della sorella Madla: “come sull’orlo di un abisso che a furia di scrutarlo ti scruta dentro lui”.
Marie è oggi una vera esperta in materia di suicidi, conosce macabre statistiche su chi salta da un tetto, cerca di annegare, si impicca, etc., percentuali che cercano invano di rendere comprensibile l’atto della sorella. E di mettere a tacere i propri sensi di colpa e cancellare un ricordo in particolare: il fantoccio di Morana, coperto di paglia su una croce, viene lanciato nel fiume e colpito con i sassi da tutti i bambini del paese. La protagonista invece non lo fa e decide di recuperare il fantoccio e nasconderlo nel bosco: “Ho salvato la morte!”. È quello il momento in cui è iniziato tutto?
Io sono l’abisso è una ricerca, drammatica e poetica allo stesso tempo, del senso della propria vita, della possibilità che Marie possa ancora vivere “in un mondo in cui Madla non c’è”.
Un classico della letteratura ceca scritto nel 1922 e tradotto, dopo più di un secolo, da Andreas Pieralli: «In questo capolavoro di Eduard Bass lo sport è un pretesto narrativo per raccontare di valori positivi quali onestà, passione, determinazione, perseveranza, fratellanza e spirito di sacrificio, così necessari ancora oggi».
Gli invincibili undici di papà Klapzuba. Una storia per grandi e piccini, pubblicato da Miraggi editore, con le illustrazioni originali di Josef Čapek, è il capolavoro del 1922 di Eduard Bass, pseudonimo di Eduard Schmidt, che fu scrittore, giornalista, drammaturgo, attore, cabarettista, cantante e tante altre cose. Nato nel 1888 a Praga, vi morì nel 1946. Gli invincibili è la prima traduzione italiana di Klapzubova jedenáctka, libro ambientato nella neonata Repubblica cecoslovacca, fondata nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale con la dissoluzione dell’Impero Austro-ungarico.
Il libro racconta le straordinarie vittorie, con risultati iperbolici, e le avventure di una squadra di calcio che finisce prigioniera, dopo un naufragio, su un’isola dei cannibali. L’autore guarda anche a Verne e a Defoe. Gli Undici di Klapzuba FC è una squadra composta interamente da fratelli, allenati dal loro papà fin dalle 5 del mattino nel bosco vicino casa, poi sul prato trasformato in campo sportivo vicino la loro “casupola” a Dolní Bukviček, vicino a Kouřim, città reale. Papà Klapzuba è un contadino astuto e un allenatore intransigente, grande fumatore di pipa che per questo particolare mi ha richiamato il grande Bearzot che condusse l’Italia alla vittoria nel Campionato del mondo (diversi suoi calciatori lo consideravano infatti un padre, non un allenatore…).
Dopo più di un secolo di ritardo nella traduzione in Italia di questo classico della letteratura ceca, ho cercato di sapere per quali vie ci si era arrivati; sono riuscito a contattare il traduttore Andreas Pieralli, giornalista ed esperto dell’Europa centrale che collabora alla televisione pubblica ceca e che vive e lavora a Praga. «In realtà – mi ha risposto – la proposta di tradurre questo libro, che non conoscevo, mi arrivò dall’editore, Alessandro De Vito, anche lui traduttore italo-ceco come me. Incuriosito, lo lessi e me ne innamorai immediatamente, e così accettai». Ancora alla domanda sul perché questo libro dovrebbe interessare il pubblico italiano, Andreas ha aggiunto: «Innanzitutto perché è una storia divertente e coinvolgente, che si legge tutta d’un fiato, ambientata nel mondo del calcio, sport così amato nel nostro paese. Inoltre, perché in questo capolavoro di Eduard Bass lo sport è anche un pretesto narrativo per raccontare di valori positivi quali onestà, passione, determinazione, perseveranza, fratellanza e spirito di sacrificio, così necessari ancora oggi. E, infine, perché permette al lettore italiano di avvicinarsi a un periodo storico interessante, quello immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, scoprendo la nascita della nuova Repubblica cecoslovacca di cui, in ultima analisi, la squadra degli 11 di papà Klapzuba non è altro che una felice metafora».
Infatti, gli 11 + 1, poiché il papà, allenatore-contadino, è l’uomo in più in campo che fa la differenza con la sua saggezza e previdenza, vincono non solo per l’abilità tecnica, ma per una virtù fondamentale trasmessagli in famiglia, «la pura e genuina fratellanza» (p. 48). Essi formano un solo fraterno blocco, anzi come viene detto a p. 125, «un unico blocco inaffondabile»: colpiti da una tempesta, al ritorno della partita con l’Australia, da campioni del mondo, si tengono sulla scialuppa «ben saldi l’uno sotto al braccio all’altro», scampando al naufragio grazie a delle tute di gomma gonfiabili. Tute che sono una sorta di mezzo magico fornito in tre situazioni pericolose ai figli da papà Klapzuba che a Berlino, durante una partita, aveva comprato una grande valigia con questi dispositivi. Nel primo caso, il papà, intuendo dalle foto sui giornali che i giocatori del Barcellona volevano azzoppare e mandare all’ospedale tre dei suoi figli-calciatori (che la propaganda spagnola aveva dipinto come dei cattivi «energumeni») fa indossare loro la provvidenziale armatura di gomma, così che i Klapzuba all’ingresso nel campo, con gli immancabili effetti comici, somigliano più a una «squadra di rugby» che di calcio. La seconda volta i Klapzuba, dopo il naufragio del piroscafo Timor nel viaggio di ritorno dalla partita con l’Australia e la successiva distruzione della scialuppa, si salvano coi gusci di gomma gonfiabili che li avevano trasformati in «in dodici bizzarre boe». Nel terzo caso, “la partita di calcio” con i cannibali sull’isola che in cambio della vita, salva solo per i vincitori, si dovrà giocare senza palla ma prendendosi letteralmente a calci, le provvidenziali armature li trasformano in «undici sfere animate» ̶ per i selvaggi la sfera era sacra ̶ vale a dire in «undici creature celesti» che terrorizzano i cannibali fino all’immancabile fuga sulla canoa dei Klapzuba bersagliati da lance e frecce.
La storia è anche una fiaba da collocare nel genere del libro per ragazzi, adatto però anche agli adulti – qualità che costituisce poi la caratteristica del “classico” della “letteratura per l’infanzia” – sia per l’argomento sportivo, sia per il linguaggio che si apre a vari registri, con inserimenti di articoli di varie testate sulle imprese della squadra, sia per l’umorismo di fondo che caratterizza il testo. Non mi sembra, quindi, che sia possibile ascrivere ad un genere univoco questo capolavoro che Pieralli definisce «romanzo sperimentale» nella postfazione. Memorabile la telecronaca della partita degli invincibili 11 con l’Huddersfield del cronista dello “New Sporting life”, munito di un casco telefonico, dal balcone delle gradinate; presenti allo stadio il re e la regina. La squadra era campione d’Inghilterra proprio nel 1922. Non mancano nel libro gli squarci lirici, come nella descrizione della placidità del Mar mediterraneo e del Mar Rosso (pp. 94-95) nel viaggio degli undici verso l’Australia.
Diversi inserti fiabeschi sono poi trattati con originalità: dopo che il principe del Galles, futuro erede al trono, durante la partita con l’Huddersfield chiede, tramite il papà il Re a colloquio con papà Klapzuba, di giocare con gli invincibili undici, nel villaggio boemo le «anziane» vanno in crisi poiché non sanno cosa rispondere ai bambini che chiedono come sarà il principe (p. 42) che sta per arrivare. Racconti secolari di principi e principesse con «draghi» e «carrozze d’oro» rischiano di essere cancellati di fronte alla prova della realtà. Ma una «nonna più scaltra» ebbe l’idea di rievocare ai bambini il vero paese delle fiabe, la Tartaria, rispetto a cui l’Inghilterra è un paese normale come il suo principe; la Tartaria, in cui vi sono foreste, sorgenti «d’acqua viva» draghi, le principesse con la «stella d’oro», è quella terra che si può raggiungere solo ed esclusivamente dai bambini in volo: «la sera quando chiudono gli occhietti e un angioletto ce li porta superando i nove mari». «L’isola che non c’è», insomma, nata dalle leggende delle steppe euro-asiatiche.
Altra notevole fiaba è quella del fischietto d’oro, mezzo magico che viene donato da San Pietro in veste di un povero e affamato vecchio ad Honza, il nonno dei Klapzuba, allora giovane, allontanatosi in cerca di fortuna dalla sua povera famiglia. Il fischietto lo fa arricchire trasformandolo in un arbitro straordinario; fischia tutto da solo in modo preciso e intransigente i falli. Il problema è che fischierà poi anche le truffe e le male azioni nella realtà che circonda Honza, il quale finisce per trovarsi a mal partito, circondato dalla malvagità nelle ricche città, per cui se ne ritorna al suo idilliaco paese, Dolní Bukvičky, dove il fischietto «può anche andarsene in pensione». Dopo la morte, il fischietto salverà Honza dall’inferno fischiando il fallo di San Pietro che lo scambia con un omonimo: «il sibilo trafisse l’intero spazio Celeste, da una stella all’altra, dal Sole e dalla Luna giù fino alla Terra, uno strillio terribile, urlante, che penetrava nelle ossa. L’atroce fischio svegliò Gesù Cristo, la Vergine Maria si tappò le orecchie, Dio Padre s’accigliò ed era già tutto tuoni e lampi e gli angeli svolazzavano come colombi spaventati e in tutto quel rimbombare e fischiare e nella baraonda e tra i lampi riecheggiarono severe le parole del padre Altissimo: “Pietro, Pietro, qualcuno ha subito un torto!”. Bella anche la postfazione di Pieralli, che rilegge in senso politico le avventure degli «invincibili Undici»: il messaggio del libro, dopo il Trattato di Versailles, è «la necessità, sul piano nazionale, di cechi e slovacchi di unirsi per farsi più grandi a fronte di vicini pericolosamente inclini all’espansionismo, e, su quello internazionale, di creare un cuneo più robusto contro i futuri revanscismi nazionalistici delle confinanti potenze sconfitte».
Non mancano gli appelli alla pace nel volume, sotto forma di metafore calcistiche, come nel «Discorso della Corona» del fratello acquisito dei Klapzuba, il principe di Galles, che una volta divenuto Re d’Inghilterra fa suoi gli insegnamenti di Papà Klapzuba, critico verso la monarchia («il calcio è un affare assai più arduo che regnare», p. 37) e di suo padre stesso che, nel colloquio sul campo dell’Huddersfield con il suo avversario allenatore-contadino boemo, conclude che le nazioni farebbero meglio a coltivare squadre che eserciti, al fine di dirimere le loro controversie non con la guerra ma su un campo di calcio. In un capovolgimento ironico del proclama con cui Francesco Giuseppe dichiarò guerra alla Serbia, il giovane re afferma (p. 50): «Ai miei popoli! […] promettiamo di astenerci dal commettere fallo e di non mettere la nostra nazione a rischio di subire un rigore bellico […]. Intendiamo vegliare affinché il gioco di testa non venga giammai trascurato…». La giovane Repubblica, per Bass, doveva guardare all’Inghilterra come culla della democrazia; ma ciò non poté salvarla dall’occupazione nazista qualche decennio dopo e dalla dittatura sovietica a seguire. Speriamo che al crollo del muro e alla rifondazione del totalitarismo russo da parte di Putin non segua un ennesimo triste epilogo al romanzo-fiaba di Bass che consiglio vivamente di leggere.
Smarrirsi infinite volte in un albergo, ma per quale motivo? “Gli amanti perduti nel transfinito” sembrano suggerircene più di uno
Perdersi…
Che pensate di questo verbo, cari lettori? Ha un’accezione positiva o negativa?
«Dipende», direte voi…
«Mi sono perso di notte in una zona poco abitata. Mi sono perso nel nulla».
Oppure… «Lei si era persa nei suoi occhi». O ancora «Entrambi si sono persi nel centro di Parigi al tramonto. Che giornata fantastica!».
Evidentemente il concetto di perdersi ha una valenza che risente del “dove” e del “quando”. Ma cosa succederebbe se tale smarrimento avvenisse infinite volte in un luogo infinito?
Succede che la Miraggi Edizioni ha avuto il coraggio di credere in un testo che davvero risulta appartenere alla nicchia della nicchia. Questo fa del titolo di Piergianni Curti un libro dignitosamente emblematico dell’editoria indipendente.
In poco più di centoventi pagine l’autore dà vita ad una storia che non ha un inizio ed una fine, nel senso canonico dell’espressione, ma potremmo dire invece che si tratta di una finestra sull’infinito.
La trama, di base, non esiste: una coppia, Maria e Giuseppe, si reca in un albergo dove si rivolge al concierge per prendere una camera. Fine. Non sembra molto interessante, vero?
La chiave del libro, invece, è proprio nell’entità di questi 4 elementi. Chi è Maria e chi è Giuseppe? Sono quei famosi Maria e Giuseppe della Storia? Quel concierge è un portiere d’albergo qualunque? Ma soprattutto questo Hotel Hilbert, che prende il nome da un matematico tedesco di metà ottocento inizio novecento, che tipo di struttura è? Una sorta di residence con infinite stanze per infiniti clienti può davvero esistere nel mondo? Magari non esiste nel mondo finito, ma nell’infinito funziona egregiamente.
Come potete vedere tante le domande, perché tanti sono gli spunti di riflessione che lo scrittore, fisico e matematico, ha voluto sottoporre alla nostra attenzione.
L’idea di base è che l’hotel sia ubicato nel transfinito: un concetto introdotto dal matematico Cantor per esprimere la molteplicità degli insiemi infiniti. Di fatto lo studioso ha concepito e spiegato DIVERSI GRADI DI INFINITO nelle sue teorie.
Una volta chiarito che il luogo in cui si incontrano questi tre personaggi è collocato in un posto che non ha un limite, tutta la “vicenda”, estremamente semplice nella sua essenza, avrà conseguentemente delle sfaccettature “infinite”. Quella Maria, una influencer della castità, e quel Giuseppe, attivo nel settore della lavorazione di materiali fra i quali il legno, hanno problemi di coppia che risentono anche dell’ingombrante presenza del padre di lei. Entrambi finiscono per esternare le proprie difficoltà e il Signor F. dell’accoglienza tenterà di sfruttare la situazione per sedurre l’unica donna protagonista. Anche se… Maria è davvero l’unica protagonista de Gli amanti perduti nel transfinito? La riposta è “no”, perché esistendo infiniti insiemi, infiniti numeri ed infinite situazioni, ci saranno altre Marie che nello stesso momento e nello stesso albergo staranno subendo le stesse avances da altri signor F. di fronte ad altrettanti Giuseppe contrariati e scorbutici.
Le riflessioni, le ipotesi e le teorie ed i drammi che si consumano all’interno di queste declinazioni di persone costituiscono, di fatto, il libro di Piergianni Curti.
Il testo è un continuo susseguirsi di stimoli che vanno al di là della trama, dell’autore e dello stesso lettore. Per quanto possa sembrare assurdo, paradossale ed inattuabile, il concetto di transfinito non è poi così lontano nella vita di noi tutti.
Intendiamoci in molti si sono espressi sulla concezione dell’infinito con annessi e connessi. La matematica è il campo più adatto per affrontare questo tipo di elaborazioni. Niente è più concreto e, allo stesso tempo, più astratto dei numeri. L’autore cita Cantor, Hilbert, Gödel, ma nomina anche Sant’Agostino, Nietzsche e Borges.
Il suo testo narra ancora della crisi di coppia che si confronta con il sesso, della crisi dei fondamenti della matematica, ma racconta anche che nell’infinito esiste una ripetitività che di fatto non potrà mai mettere la parola fine a qualcosa. Infiniti noi si troveranno a svolgere le nostre azioni infinite volte, magari cambiando qualcosa oppure senza cambiare nulla.
Gli amanti nel transfinito non è certamente il primo scritto che affronta tali tematiche, ma è certamente uno dei pochi che imposta tutta questa complessa impalcatura composita a livello di intrattenimento.
Nel titolo della collana “scafiblù”, della Miraggi, c’è un occhio critico che attrae, perché da un lato è funzionale alla narrazione, ma dall’altro lato è la narrazione stessa. Ritroviamo così religione, psicologia, delusione e speranza, inganni, gelosia, passione, filosofia, drammi irrisolti e addirittura un colpo di scena finale, collegato all’ingresso di un (altro?) personaggio storico.
Persino imprese colossali come la Marvel o la Shūeisha assieme alla Toei Animation (quelle di Dragonball per intenderci) si sono servite degli sviluppi di concezioni simili alle teorie utilizzate da Piergianni Curti.
Il concetto del multiverso, tanto sfruttato dai comics e dai cinecomics, o la visone delle altre dimensioni, nei manga e negli anime giapponesi più recenti, è così diverso dal punto di partenza dell’autore?
Condensare tante tematiche in poche pagine non era facile. Orchestrare ogni aspetto in maniera tale che il testo potesse essere fruibile per tutti, era ancora più difficile. Credere in un titolo del genere, in conclusione, è davvero raro.
Complimenti all’autore, alla Miraggi ed a tutte le Miraggi Edizioni che amano perdersi nel transfinito e non solo.
Roma, anni ‘70-‘90. Marie divide un appartamento di quattro stanze, una comune, con alcuni compagni “rivoluzionari”: Pietro, Tommaso e Anna. Lei è una giovane ceca, giunta a Roma con la famiglia in fuga da Praga, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, poiché il padre era un chimico e intellettuale dissidente. Dopo qualche anno, però, il padre di Marie sparisce nel nulla, lasciandola con la madre e la sorella. Nonostante le ricerche, non vi è alcuna traccia dell’uomo: si alimentano così le congetture sulla sua fine, tanto che la ragazza si convince possa essere stato rapito da una qualche polizia segreta. Al tempo della comune Marie insegna matematica in una scuola professionale di periferia, a stretto contatto con le classi sociali che dovrebbero beneficiare di quella rivoluzione di cui i suoi amici parlano tanto, ma che a lei in realtà sembra solo risolversi in gesti gratuitamente violenti. La ragazza inoltre intrattiene una corrispondenza con Pavel, uno storico ceco, amico del padre, con cui ha una relazione profonda, ma platonica. Pavel le ha chiesto di raccogliere il suo lavoro scientifico contenuto nelle diverse lettere che periodicamente le spedisce: la preoccupazione è che nel suo paese tali scritti, testimoni delle sue ricerche, verrebbero sequestrati dalla polizia. Marie allora funge da “cassetta delle lettere” per contenere e preservare il lavoro intellettuale di Pavel, con cui però vorrebbe avere una vera relazione sentimentale, fatta di parole e gesti concreti. Forse proprio per questo bisogno d’amore insoddisfatto, Marie ha una relazione con il giovane rivoluzionario Mels. Tutti gli uomini legati alla ragazza sono però destinati a rimanere lontano: Pavel a Praga, prigioniero di un regime totalitario, Mels alla ricerca della sua “rivoluzione” senza mai riuscire a fermarsi in un luogo, il padre in un passato che continua a essere presente…
Sylvie Richterová (Brno, 1945) è una scrittrice e studiosa ceca, trasferitasi a Roma dopo l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei russi. Compiuti gli studi filosofici e letterari all’Università Carolina di Praga e a La Sapienza di Roma, ha assunto diversi incarichi universitari a partire dagli anni ’70. È autrice di saggi, di romanzi e di poesie. Si sottolinea il suo impegno politico durante gli anni del regime comunista che l’ha vista collaborare con numerosi intellettuali in esilio e dissidenti cechi. Le opere narrative della Richterová sono ritenute sperimentali per le particolari soluzioni narrative, dal momento che l’autrice sovverte le tradizionali coordinate spazio-temporali e moltiplica i narratori, togliendo al lettore certezze e stimolando contemporaneamente la ricerca di più significati. Nel romanzo Il secondo addio le questioni affrontate sono importanti: l’esilio con il conseguente peregrinare di chi è costretto a lasciare il proprio paese a causa di un regime totalitario; la ricerca del senso della Storia, ma anche dell’esistenza; la scrittura come espressione di autenticità e come unica eredità possibile. È in particolare la scrittura a essere il tema privilegiato: Marie, Pavel, Jan (il compagno della protagonista nel corso della storia), Tommaso scrivono e lasciano le loro parole a dei custodi che sappiano decifrarle, affinché il senso segreto della loro esistenza possa alla fine essere compreso. Forse il senso della vita è proprio la scrittura stessa e tutti i personaggi vivono in funzione di essa, poiché “le loro parole sono le tracce della loro esistenza errante”. Tale convinzione è evidente nell’articolazione a più voci del romanzo, dal momento che la narrazione non è univoca, ma si distende attraverso vari soggetti narranti che si alternano senza un ordine e una “gerarchia” di racconto. A parlare talvolta è Pavel attraverso le sue lettere, ma non solo; altre volte è Mels, alla ricerca esasperata di fissare le parole che sente fluire dentro di sé sulle pagine del libro che lui avverte urgentemente di dover scrivere. I personaggi, poi, così come le voci, aumentano o si sdoppiano, rendendo faticoso capire chi realmente stia parlando e da quale prospettiva (è un vero narratore? O qualcuno sta riportando le sue parole?). Alla fine, si deve far pace con l’idea di non poter per forza comprendere a chi appartengano le parole, accettando di seguire solamente le riflessioni universali che l’autrice vuole stimolare. In conclusione, anche il “secondo addio” del titolo è soggetto a più interpretazioni: può riferirsi al saluto definitivo alla città, Praga, lasciata e ritrovata dopo la fine del comunismo come una patria ormai impossibile, ma anche quello nei confronti delle ideologie, delle certezze, delle epoche vissute e private ormai di significato, rappresentate dalla “frontiera”, un tempo temuto luogo di morte, ora linea di semplice passaggio, priva di interesse.
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