Frammenti. Credeva De Roux che il deserto fosse il nulla: un nulla puntinato di miraggi, intervallato da inganni. E sentiva che la scrittura fosse parte del niente, quella parte del niente che addenta l’essere. Il letterato francese considerava la modernità come una concessione alle circostanze: tutte le filosofie condannate a essere soltanto un avvicinamento alla verità; il tradimento complementare al segreto; la disperazione, spesso, una linea retta. Perché “qualsiasi speranza è assolutamente inutile, qualsiasi cosa accada”. Giurava De Roux che non poteva esistere grande cultura se l’uomo non si dava un nuovo senso del mondo: è la condizione della specie, ripeteva, “soltanto all’essere è dato di dire tutto dell’essere”. L’uomo metafisico non poteva che essere, fisiologicamente, reazionario. La parola “nazionalismo” doveva significare: “nascita, natura”. Questo suo quaderno di massime, aforismi, meditazioni e provocazioni nasceva prendendo congedo: “immediatamente. Itinerario nel doppio miracolo dell’apparizione delle cose, da una parte, e della loro sparizione, dall’altra”. Prendendo congedo, de Roux restituiva la sua letteratura: i suoi scrittori. Dante, Ezra Pound, Heidegger, Hölderlin “abitano insieme sotto il cielo, ai piedi della Misura; abitano la misura”. Salutare Ezra Pound significava “inchinarsi davanti alla mirabile essenza della poesia universale”: perché la sua attività di poeta, la sua concentrazione spirituale in quel momento rappresentava “l’autentico tentativo di reintegrazione spirituale di fronte alla disintegrazione della materia”. De Roux non considerava possibile la chiacchiera sui silenzi del poeta dei Cantos. Gombrowicz: tutto era sogno in lui: la sua era “una pratica essenzialmente orfica”. Nei suoi scritti, “la nostalgia di una felicità pagana affrancata dalla coscienza faceva da contrappeso all’utopia”. Foucault, invece, nelle sue acrobazie politiche: “una farfalla che batte il tempo coi piedi”. Malraux? “Un afasico. Ogni tre parole, mentre parla, emette una virgola. È lui il lancio di dadi che abolisce il caso”. Henry James, un maestro: “Rammentare ai giovani scrittori, e a ogni lettore, le parole di Faulkner: ‘Credo che Shakespeare non abbia letto Freud’. E consigliargli Henry James”. James, uno che aveva smesso di scrivere storie di fantasmi perché, diceva, “sono un binario morto”. Credeva de Roux che la letteratura fosse – anche – la distanza tra la realtà che si allontana e il sogno, il sogno che si inventa da sé…
Credeva De Roux che il deserto fosse il nulla: un nulla puntinato di miraggi…
Siamo di fronte alla prima edizione italiana di Immédiatement, originariamente apparso in patria, per la Bourgois, nel 1971, quindi ripubblicato dalla Table ronde, nel 1995 e nel 2009: merito della collana Tamizdat della Miraggi, una collana diretta da Francesco Forlani. Nelle parole di Forlani: “de Roux non solo fa parte della tradizione degli infrequentabili del Novecento, ma potremmo dire che sia stato il primo a intuire, di quelle nature scomode e insieme necessarie alla cultura occidentale (Céline, Artaud, Pound, Gombrowicz, Bernanos, tra gli altri), il ruolo di visionari, una grandezza da proteggere a tutti i costi […]. La vocazione di de Roux è in questa funzione vitale di conservazione, diffusione, traduzione e allo stesso tempo crescita parallela della parola che da materiale diventa quasi subito spiriturale, corpo a corpo, senza risparmiarsi”. Chi era Domininique de Roux? Un romanziere, un reporter, un editore: un letterato estremamente competente e un uomo fragile, morto appena quarantaduenne, nel 1977. Aveva fondato, nemmeno trentenne, la rivista «Cahiers de l’Herne», giocata per monografie dedicate a figure laterali, maledette e rimosse della cultura europea: fatalmente, come ben sappiamo, ciò avveniva (e continua ad avvenire) per lo più per basse ragioni ideologiche e spesso per bieche rappresaglie politiche. Stando a quanto ci riferisce la bandella dell’edizione Miraggi, la pubblicazione di questo suo personalissimo diario frammentario, Immediatamente, irritò il mondo intellettuale ed editoriale francese, in primis sua maestà Roland Barthes, “costringendo de Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo”. Che malinconia. Pubblicò l’ultimo romanzo, Le Cinquième Empire, pochi giorni prima di morire; altro apparve postumo. Qui in Italia, pochi anni fa abbiamo potuto apprezzare il suo saggio La morte di Céline, per merito della piccola Lantana di Alessandra Gambetti. Immediatamente è stato pubblicato col sostegno del Centre National du Livre; ritroverà, faticosamente, un suo pubblico, frammentato e irregolare come la sua scrittura. Peccato che i tanti riferimenti a de Gaulle, al Vietnam e alla Cina siano oggi sostanzialmente materiale da storici o giù di lì: difficile che certe battute vengano accolte con la stessa immediatezza. Diverso il discorso per le intelligenti, profonde e amene reminiscenze letterarie (l’arte non invecchia, s’impolvera soltanto).