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Il titolo del romanzo di Ada Sirente – Dura mater, o in italiano «dura madre» – è un termine scientifico: indica la più spessa delle membrane che rivestono il tessuto nervoso centrale, una sorta di guscio all’interno del quale, in certo senso a nostra insaputa, si formano i pensieri, le sensazioni, i desideri.
Stesa in un letto d’ospedale, in coma farmacologico in seguito a un intervento al cervello, Mariella ci parla da questo luogo interno e inaccessibile, dove il confine tra i viventi e i morti si assottiglia fino ad annullarsi, e le figure familiari della sua infanzia in un piccolo paese dell’Abruzzo si muovono in mezzo alle sagome anonime e misteriose dei medici. Il suo è, o potrebbe essere, una sorta di lungo sogno ultracosciente; sicuramente dei sogni possiede la vividezza dei particolari e la sonorità nitida di una lingua in cui non c’è soluzione di continuità fra l’eco del dialetto e il lessico della scienza. Nella capacità di governare senza sforzo questo contrasto, nel mettere in scena una contemporaneità stratificata sulla memoria, sta la forza del libro, che presento con piacere al Premio Strega.

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