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La scrittura come ricerca della verità. “I tedeschi” di Jakuba Katalpa

I tedeschi. Una geografia della perdita (Němci, 2012) è il primo romanzo della scrittrice ceca Jakuba Katalpa ad essere pubblicato in Italia. L’opera è tradotta da Alessandro De Vito ed edita lo scorso febbraio da Miraggi Edizioni come dodicesimo volume della collana NováVlna. Nel 2013 il romanzo è stato insignito del prestigioso Cena Josefa Škvoreckého (Premio Josef Škvorecký) e del Cena Česká kniha (Premio Libro Ceco dell’anno). Jakuba Katalpa è lo pseudonimo utilizzato da Tereza Jandová nelle vesti di autrice, dove “Katalpa” (in italiano Catalpa) è il nome di un albero dalle foglie caduche.

Katalpa è già autrice di altre opere, tra cui la raccolta di racconti Povídka beze jména (“Racconti senza nome”, 2003) o i romanzi Hořké moře (“Mare amaro”, 2006) e Doupě (“La tana”, 2017). L’ultima pubblicazione della scrittrice è invece il romanzo Zuzanin dech (“Il respiro di Zuzana”, 2020). Si segnala, inoltre, l’incontro con l’autrice organizzato dal Centro Ceco di Milano, che si può recuperare al seguente link.

All’interno di uno dei suoi saggi, la studiosa tedesca Aleida Assmann sostiene che il ricordare e il dimenticare risultano strettamente legati perché insieme organizzano i ritmi mutevoli dell’esistenza. Ciò che affiora grazie al ricordo non è altro che la superficie della coscienza, una materia in continuo movimento, tra la riscoperta e il riconoscimento. L’atto del ricordare si materializza quando si dissolve quella distanza temporale che si situa tra il soggetto e l’evento, oppure quando viene superata una condizione priva di consapevolezza. All’interno del romanzo di Jakuba Katalpa il recupero del passato è alimentato da entrambi questi aspetti. Innanzitutto, occorre chiedersi quale sia il passato che viene rievocato, sebbene sia meglio parlare di diverse manifestazioni di quest’ultimo. Infatti, la prosa di Katalpa è rappresentata da un continuo intersecarsi di due dimensioni: quella intima, legata al contesto famigliare, e quella di un passato che si identifica con la Storia stessa.

La narrazione ha inizio con la morte di Konrad, che riporta sua figlia e due dei suoi tre figli a rincontrarsi a Praga. Tutti a parte uno hanno già da tempo lasciato il paese e per la figlia il ritorno nella città d’origine rappresenta un’occasione inaspettata di indagare sulla vera origine della propria famiglia. Il ricordo dei dolciumi che ogni anno giungevano per posta dalla Germania e il ritrovamento delle bretelle sono i due aspetti che mettono in moto questa sua necessità e fanno scattare in lei il dubbio sulle verità che le sono sempre state date per assodate – secondo lo stesso meccanismo che alimenta la verità delle masse. La questione messa in gioco da Katalpa è quella che ruota intorno al problema dell’identità e che si costituisce tanto del presente quanto di un passato di cui, paradossalmente, non si è stati protagonisti diretti e di cui sono rimaste poche tracce effimere. Konrad ha sempre rifiutato ogni contatto con “i tedeschi”, quei parenti che vivono oltreconfine e che per quarant’anni a partire dal ‘47 hanno spedito in dono dei dolciumi.

Con gli anni i pacchetti di nonna Klara sono entrati a far parte delle leggende d’infanzia, e a prova della loro esistenza sono rimasti solo i francobolli tedeschi che i miei fratelli avevano incollato negli album.

La figlia di Konrad, nonostante sia stata educata a non porsi domande su questi “parenti fantasma”, decide di tentare di fare chiarezza su una vicenda che ha un sapore del tutto generazionale. Per riuscire in quella che si rivela essere una vera e propria impresa è necessario per la protagonista, che nel romanzo è curiosamente l’unica ad essere priva di nome nonostante il suo ruolo chiave nella storia, crearsi un percorso fisico all’interno di quello spazio che nel sottotitolo viene definito in termini di “una geografia della perdita”. La chiave di volta di questa riscoperta non solo del passato, ma di una verità raggiungibile solo grazie alla presa in considerazione di più prospettive, è rappresentata proprio dalla nonna Klara, la nonna tedesca che non ha mai conosciuto. Nonostante la figlia di Konrad riesca a ritrovarla, la faccenda viene ulteriormente complicata dal fatto che la donna soffre di Alzheimer, altro emblema che enfatizza il tema della perdita.

La storia procede allora nel tentativo di ripercorrere le tappe della vita di Klara, dall’infanzia passata in una famiglia alto-borghese, al momento del trasferimento a Rzy, il paese che di trova “nel distretto dei Sudeti, quattrocento chilometri a Est di Praga.” Katalpa non sceglie un luogo qualunque per l’ambientazione della vicenda, ma la colloca in un paesino inserito in una zona fondamentale per le questioni che riguardano i rapporti tra cechi e tedeschi nel corso del secolo scorso. Arrivata a Rzy, Klara viene etichettata come “straniera”, oltre a sentirsi lei stessa estraniata osservando quanto accade fuori dalla sua finestra.

Erano tedeschi diversi da quelli che conosceva nel Reich, rapaci e scontenti. La studiavano, valutavano fino a che punto per loro potesse rappresentare un problema, e lei non aveva idea di come convincerti di non essere un pericolo.

Per Klara inizia un vero e proprio processo di integrazione tutt’altro che semplice, in quanto identificata immediatamente come “tedesca del Reich” e automaticamente associata alla figura di Goebbels. Rzy non è solo l’ambientazione del romanzo, ma anche un microcosmo creato dall’autrice stessa, all’interno del quale indagare la questione sociale tout court. Katalpa, infatti, intreccia la storia di Klara con quella degli abitanti del villaggio, analizzandone le inclinazioni psicologiche e, si potrebbe dire, quasi patologiche. La messa a fuoco dei personaggi corrisponde al volerne sottolineare la fragilità, spesso invece celata nella dimensione quotidiana. Attraverso questa messa a nudo vengono proposti temi che si accavallano a complicare una vicenda che, al contrario, è raccontata da Katalpa con una prosa piuttosto tradizionale. Tra questi, il tema della malattia che compare a più riprese nel romanzo e che in Melman si lega alla paura della morte. L’ombra di una fine spinge Melman a liberarsi della sua figura istituzionale e alla necessità di prendere coscienza di sé, mettere in atto un’analisi della propria condizione esistenziale, nonostante tutti i danni che questa potrebbe arrecare. Un altro tema fondamentale è quello della maternità, legato alla dimensione della donna – non a caso, infatti, le figure femminili hanno un ruolo di particolare importanza nel romanzo.

Oltre al riferimento spaziale, non bisogna però dimenticare il ruolo che viene giocato dalla dimensione temporale della narrazione, nella quale si staglia questa costellazione di eventi. A questa ricerca delle radici più intime si connette il tentativo di Katalpa di mettere in discussione degli aspetti che hanno a che fare una memoria di stampo collettivo, riallacciandosi ad eventi del secolo scorso che, per certi versi, rappresentano dei nervi ancora scoperti nella grande narrazione della Storia. L’autrice spinge il lettore a porsi delle domande simili a quelle di Klara, che hanno un respiro nettamente più ampio di quello del singolo personaggio. Katalpa stessa, in occasione dell’intervento che si citava inizialmente, sostiene che esista una necessità impellente di  interrogarsi riguardo ad aspetti che rappresentano ancora una sorta di ferita nella memoria collettiva europea. Le domande che la Storia pone all’individuo hanno molto spesso un carattere profondamente morale, illudendo chi ne fa parte attivamente che quest’ultima sia in qualche modo afferrabile, nonostante non lo sia affatto. La questione della verità e quella della colpa vengono evocati col fine di mettere l’accento sulla loro natura profondamente cangiante, un terreno instabile in cui bisogna cercare di fare chiarezza ponendosi delle domande. L’opera si presenta solo nelle vesti come la storia del recupero del passato di una singola famiglia, per aspirare invece a una dimensione universale. La forza della prosa di un’autrice come Katalpa si rivela chiara già in un romanzo come I tedeschi, dove gli eventi frastagliati in uno spazio che sfugge a qualificazioni si rincorrono e concorrono a creare una nuova immagine della verità, che sembra essere afferrata solo dalla pratica della scrittura.

Mi ha colpita un dolore risalente a quasi sessant’anni fa, e stavolta non è solo il dolore di mio padre, tante volte declamato e sofferto con un certa solennità, è qualcosa di ancora diverso a rodermi dentro, un’incertezza e una pena, scoprire che tra verità e menzogna c’è un confine così labile che lo si può rimuovere con un semplice gesto della mano, con un battito di ciglia.

QUI l’articolo originale:

https://www.andergraundrivista.com/2021/04/13/in