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Hrabal. Un boccale pieno di racconti

Prima edizione italiana per il Libro d’esordio dello scrittore ceco che per tutta la sua avventurosa vita raccolse le voci delle strade – e delle birrerie – nella sua Praga

Ecco un breve résumé delle principali occupazioni svolte da quattro grandi scrittori cechi del secolo scorso. Franz Kafka: impiegato presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro del regno di Boemia. Jaroslav Hašek: impiegato di banca. Vladislav Vančura: medico. Karel Čapek: giornalista. Ed ecco invece un elenco, senza pretesa di esaustività, delle principali occupazioni svolte da Bohumil Hrabal: copista notarile, capostazione ferroviario, telegrafista, assicuratore, commesso viaggiatore (articolo trattato, giocattoli di seconda mano), operaio metalmeccanico, cameriere, magazziniere, addetto alla preparazione del malto in una fabbrica di birra, “assemblatore” di blocchi di libri pressati da mandare al macero su disposizione della censura sovietica (!), comparsa teatrale. Nel tempo libero scrittore e gran bevitore di birra Pilsner.

Per Hrabal, nato a Brno nel 1914, curriculum letterario ed esistenziale coincidono perfettamente: i racconti di La perlina sul fondo ne sono una nitida testimonianza. Li porta per la prima volta nelle librerie italiane – per ora solo in quelle virtuali – l’editore Miraggi (con la cura e postfazione di Alessandro Catalano e la traduzione di Laura Angeloni), presso cui hanno trovato casa già diversi titoli interessanti di letteratura ceca di nuova proposta e non solo (da ultimo il sommo e da tempo introvabile Bruciacadaveri di Ladislav Fuks).

Primo libro pubblicato da Hrabal a Praga nel 1963, La perlina sul fondo era rimasto inedito finora in Italia, dove sono state privilegiate sin da subito le opere successive, come Ho servito il re d’Inghilterra o Una solitudine troppo rumorosa. Scrittore-grammofono, Hrabal mostra in questi aneddotici racconti una compiuta maturità dello sguardo, e le intenzioni della sua letteratura sono già dichiarate: invitare il lettore a un giro senza meta sulla linea di un tram praghese, ascoltarne il brusio indistinto e imparare a distinguere le voci. Ma senza affezionarsi troppo perché si scende subito, le voci proseguono il loro viaggio mentre il lettore aspetta la prossima corsa (il prossimo racconto). Un vero e proprio Presepe praghese – titolo del racconto che chiude la raccolta – da attraversare guardando da vicino quegli uomini semplici e chiacchieroni che Hrabal aveva ribattezzato con amore «stramparloni» (pabitel), tra i quali si collocava lui stesso e con i quali volentieri si ubriacava di parole e non solo nelle taverne e soprattutto nelle birrerie della città (il protagonista di Una solitudine proverà a stilarne un memorabile elenco – questa volta sì, con pretesa di esaustività).

E dire che avrebbe anche potuto vestire i panni del tranquillo avvocato di provincia, Hrabal, ma la storia ha immaginato per lui qualcosa di diverso: si è appena iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Praga quando i carri armati del Reich sconfinano in Cecoslovacchia. Da lì in poi il destino suo e quello di Milan Kundera – che pure è stato nella stessa scuola a Brno qualche anno dopo di lui – si distanziano vistosamente. Niente università dopo la guerra, niente carriera accademica o gruppi di poesia d’avanguardia, e soprattutto nessun autoesilio a Parigi: Hrabal resta per tutta la vita in mezzo alla sua gente, quella da cui apprende le storie che finiscono nei suoi racconti, e grazie alla quale potrà costruire uno degli stili più riconoscibili (e imitati) di tutta la letteratura europea del Novecento. Una lingua a metà strada tra argot céliniano e un certo tocco surreale, favorito da quella «ironia praghese» di cui Hrabal parlerà a lungo nell’intervista al suo traduttore Sergio Corduas pubblicata in appendice a Treni strettamente sorvegliati (edito in Italia da E/O nel 1982; il romanzo, storia di un ferroviere boemo durante l’occupazione nazista, ha ispirato il film di Jiri Menzel premiato con l’Oscar nel 1967).

Fin dal dopoguerra, oltre a cimentarsi nel lavori più strambi, Hrabal non si fa mancare i problemi con il regime: nel clima ostile dello stalinismo, i suoi racconti circolano soltanto come samizdat, autopubblicazioni non registrate. Poi nel ’63 esce La perlina e diventa un piccolo best seller.Dura poco: con la fine della Primavera di Praga i suoi libri passano dall’essere venduti e apprezzati a essere vietati espressamente dalla censura sovietica, tanto che vengono fatti stampare all’estero e avventurosamente contrabbandati in patria. Paradossalmente – si direbbe per qualunque scrittore, ma non per lui – comincia il periodo più felice della sua produzione letteraria, fino al 1976, anno della «riabilitazione» da parte del regime.

Come tutta la sua vita, anche la sua morte è avvolta nella leggenda: a 83 anni, quando è ormai da tempo un autore canonizzato e celebrato in tutta Europa, cade dal quinto piano di un ospedale praghese, dove è ricoverato per i postumi di una caduta. Si è buttato – dicono – o forse voleva allungarsi verso un piccione che si era posato sulla balaustra. Tutte le possibilità erano già contemplate nella sua letteratura, comunque; in un libro del 1989 si legge: «Quante volte avrei voluto buttarmi dal quinto piano, dalla mia casa, in cui tutte le camere mi fanno male, ma l’angelo all’ultimo momento mi salva sempre, mi tira indietro, come dal quinto piano voleva buttarsi il mio dottor Franz Kafka, dalla Maison Oppelt».

Si è fatto seppellire in una cassa di quercia con sopra inciso il nome di una fabbrica di birra. Era il luogo dove sua madre aveva conosciuto l’uomo che avrebbe fatto da padre adottivo al piccolo Bohumil. Ma è anche l’estrema burla praghese con cui Hrabal si congeda dal mondo – dopo aver raccolto dal fondo della strada l’ultima perlina sporca di fuliggine.