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Nicola Manuppelli, come è nata l’idea di Roma e perché ambientarlo in quel periodo storico?
«L’idea è nata da un pettegolezzo su una coppia di amanti emiliani che avevano dimenticato un dildo dentro un cespuglio. Il dildo era stato ritrovato dall’anziana vicina di casa della coppia. La donna, non sapendo di cosa si trattasse, aveva chiamato gli artificieri. Qualche giorno dopo, ero in un ristorante vicino a Cinecittà con Pasquale Panella, il paroliere dell’ultimo Battisti, che mi raccontava di quando da ragazzo scavalcava il muretto per andare a vedere gli studi cinematografici. Da questi due episodi è nata la scintilla. Anche se già da un po’ di tempo avevo deciso che avrei scritto un  libro su Roma».

La scelta di Fellini era nei tuoi pensieri fin dall’inizio o si è fatta strada durante la scrittura della storia? Fellini è un autore che ami? Quali suoi film preferisci e perché?
«Adoro Fellini. Adoro I vitelloni, Amarcord, La dolce vita, Le notti di Cabiria e potrei andare avanti a elencare tutti i suoi titoli, disegni, copioni. Fellini è un autore a cui sono arrivato col tempo. Come mi è successo con Fitzgerald. Nella mia testa, li vedo come due autori molto simili, seppur con una diversa tonalità di voce, ma la sensibilità è quella. Anni fa, a Rimini, ho avuto per la prima volta l’impressione di essere davvero entrato in contatto con la sua opera. Più tardi, ospite a casa dello scrittore americano Chuck Kinder a Pittsburgh, buttai giù un romanzo mai pubblicato che fu il mio primo approccio con un modo di narrare “felliniano”. Sia in Gatsby che in La dolce vita il protagonista/voce narrante è dentro e fuori dalla storia. Questo era lo stesso tipo di approccio che cercavo. Così prima ho pensato a Roma, poi ho pensato che Roma potesse essere una sorta di nostra los Angeles, così come Milano poteva essere una nostra New York. Il protagonista si sposta da Milano a Roma. E a quel punto, ho pensato che il libro dovesse essere una grande festa, con un tocco di malinconia come le feste di Fellini e Fitzgerald – chiamiamoli le due F, i miei numi tutelari – dove ci si perdeva e dove far girare la mia giostra di personaggi. Fellini mi lascia continuamente meravigliato. Pensare a lui in corso della lavorazione del libro è stato inevitabile. Volevo che fosse un personaggio del libro, la luce verde del protagonista. E ho rivisto tutti i suoi film mentre lavoravo a Roma. La Dolce Vita, visto forse per la decima volta, mi ha lasciato ancora a bocca aperta. Non è solo un capolavoro di immagini, ma di moda, dialoghi, struttura narrativa. Un film immenso».

Quanto all’epoca storica, volevo che fosse il tramonto di un’epoca di Cinecittà, e c’era anche l’idea di un doppio piano per cui i protagonisti del libro si trovavano all’interno di una Roma ricostruita sul set di Roma di Fellini, che venne girato fra il ’70 e il ’71. 
«L’uso di più personaggi, poi, con tutte le loro storie, mi permetteva di spaziare anche in altre epoche di Roma, facendo del romanzo una sorta di piccola cronaca di Roma».

A leggerlo si ha la sensazione che sia un’opera in qualche modo “destinata” a trasformarsi in un film. L’hai pensata con questo obiettivo o è casuale?
«Sì, è una delle cose che voglio fare in futuro scrivere per il cinema. E mi piacerebbe molto che Roma potesse diventare un film. Per la prima volta, in un romanzo, ho lavorato in questo modo; visitando i set, visionando gli attori che volevo ne facessero parte – per esempio, mi sono divertito a riprodurre la parlata di Walter Chiari o quella di Fellini -, suddividendo il tutto in scene, parlando con gente che sapeva informazioni che cercavo. Nella mia ottica, mi sono aperto alla collaborazione. Ho fatto come un regista che lavora con dei collaboratori, mentre nei libri precedenti mi chiudevo da qualche parte a scrivere, qui sono uscito e ho ascoltato e ho lasciato che io e tutto il resto fossimo al servizio della storia, o delle storie».

Quanto ti ha impegnato il lavoro di documentazione?
«Sei mesi. Oltre a tutto ciò che avevo accumulato ogni volta che ero stato a Roma e ogni volta che l’avevo vista rappresentata in un libro o un film, da Petronio a Belli fino a Scola e Monicelli. E poi mi è stato  molto utile l’appoggio di amici romani, che mi hanno aiutato per esempio col dialetto. Su tutti, un magnifico libraio che si chiama Emanuele Spinelli e suo padre Franco che è una sorta di Omero romano».

Quanto ha influito la tua esperienza come traduttore di importanti scrittori americani?
«Come ogni altra esperienza biografica influisce sull’opera di uno scrittore. Non amo molto essere visto come “traduttore”. Tradurre fa parte del mestiere dello scrivere. E scrivere rientra nella categoria più grossa del raccontare storie. Vorrei essere in primo luogo uno che racconta storie, quindi per derivazione uno scrittore e infine un traduttore».

Il riferimento a Il giorno della locusta di Nathanael West è esplicito…
«È uno dei miei libri preferiti e ho avuto anche il piacere di tradurre. Non ho invece mai visto il film. In Roma c’è anche un omaggio all’autore, un produttore che di cognome fa Locusta. Invece il libro è in memoria di William Styron, autore un po’ dimenticato ma che con La scelta di Sophie ha scritto uno dei romanzi più belli del secolo scorso».