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Villasanta mi provoca, chiedendomi di scrivere di scrittori che scrivono “da donna”.
Questa è domanda che potrebbe suscitare levate di scudi, indignazione, Dario.

Forse non sono la persona giusta a cui chiedere due parole su “uomini che scrivono –  bene – sotto spoglie femminili” perché io per prima ho grosse resistenze nel credere in un’ipotesi di letteratura strettamente di genere. Si rischierebbe di scivolare con facilità nel cliché obsoleto – e francamente odioso – di una supposta e non provata maggiore com-prensione del sentimento di pertinenza femminile, naturale quasi, fisiologica: se posso, una scemenza di proporzioni colossali: pensa, per dire, alla meraviglia di acutezza e linguaggio dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, di penetrazione impareggiabile.

Sarebbe voler confinare l’alfabeto dei sentimenti, l’abilità di decodificarli e riconsegnarli al lettore in purezza e interezza solo se in stretta, sola adesione al proprio genere, negandone l’universalità.

Siamo tutti madame Bovary, ammetteva e ricordava Flaubert, sancendo in maniera ufficiale ciò che di autobiografico e di iperidentitario si insinua comunque nella stesura di un romanzo, anche solo in potenza. Come non individuare una comunione, lettrici o lettori, coi dubbi, tormenti, ombre di frustrazione che agitano la sua protagonista, soffrire per le sue aspettative disattese, riconoscere infine le sequele di scarti di moti dell’animo impercettibili eppure registrati e riportati con misura somma. Pagine che hanno una grazia miracolosa della parola, di perfezione massima e inarrivabile, e a cui solo l’autore stesso può permettersi di trovare una – a noi invisibile – limitatezza, difficoltà di resa: la parola umana è come una caldaia incrinata su cui battiamo musica per far ballare gli orsi, quando vorremmo commuovere le stelle”, scrive.

Di uomini che scrivono (bene, sempre questo è il punto) “da donne”, poi mi vengono in mente tra gli altri due libri italiani che ho letto proprio di recente, un romanzo e una silloge poetica.

Il romanzo è La ragazza che andò all’inferno di Stefano Bon, pubblicato da Castelvecchi. Nella storia di una moglie e madre che perde improvvisamente il marito e che si “mette seduta, in attesa del dolore” c’è una visione femminile di fato avverso e precipizio di particolare intensità e forza introspettiva. L’autore ravennate sceglie con efficacia di spostare il nucleo di tutte le vicende sulla sua protagonista, ed è attraverso il filtro della sua visione di donna che cogliamo tutta la portata dello sgomento di fronte all’ingovernabilità di alcune fasi della vita.

L’altro, infine, è un libro straordinario, Poema bianco di Pasquale Panella uscito ora per Miraggi.

Qui la visione al femminile è palese e dichiarata: Panella (scrittore magnifico, tra i tanti talenti paroliere di Lucio Battisti nel periodo post-Mogol) si appropria di un’identità che non è la sua già in prima pagina La voce del poeta è femminile, afferma, per consegnarci assenze, e amore, e amore in assenza, versi di delicatezza e intimità accennata, mai violata.

Si fa donna “mistica, barocca, visionaria”, Panella, per concedersi di dire tutto e fa donne anche le parole:

se al maschile
abbiamo al mondo un fine
è la fine che abbiamo al femminile. 

La superficie è quella del ribaltamento, del gioco verbale: ma divertissement, sola superficie (vedrà chi vuole accostarsi a questa lettura che raccomando anche per la ricchezza delle pagine – in prosa, stavolta – che chiudono il libro) non è.

Anna Vallerugo