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Quelle prime settimane mi permisero di mettere via un certo gruzzoletto. Con Satchmo c’era talmente da fare che avevo a malapena il tempo di dormire, figuriamoci per spendere dei soldi. I viaggi di andata e ritorno dal Pigneto, anche se non esageratamente lunghi, erano spossanti, e qualche notte finii per addormentarmi all’aria aperta dalle parti del Pincio o vicino alle Terme di Caracalla o sotto i ponti del Tevere, dove non potevo essere visto, come un vero vagabondo, uno di quei pitocchi che si facevano la strada a piedi e vivevano di espedienti. A volte, se avevo tempo sufficiente, prendevo il collegamento e raggiungevo la spiaggia di Ostia, dove mi addormentavo sotto le stelle. Com’erano belle le stelle romane. Veniva da pensare che fosse su quella spiaggia che agli uomini fosse venuta in mente l’idea delle costellazioni, che fosse stato lì che avessero pensato di unire tutti i puntini e pensarli sotto forma di oggetti o animali, e immaginare per ognuno di loro una storia. Ecco, le storie erano persino nel cielo. Fandonie nel cielo. Mi stendevo sulla sabbia ancora calda per il giorno e assaporavo la brezza, e tendevo le braccia verso l’alto come se potessi afferrare quei puntini lumino- si e spostarli, creare un disegno tutto mio. Avrei voluto disegnare una costellazione con la forma del mio cuore, per vedere cosa ci fosse davvero dentro. Ero convinto che finché avrei continuato a guardare il cielo, e a meravigliarmene, sarei stato per sempre giovane.

Nicola Manuppelli

brano tratto da Roma, Miraggi Edizioni, 2018, pp. 162-163.

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Nicola Manuppelli è nato a Vizzolo Predabissi nel 1977. Scrive, traduce, scopre autori americani e irlandesi (tra cui Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault, Don Robertson). Collabora, fra gli altri, con Mattioli, Minimum Fax, Nutrimenti, Aliberti. Suoi articoli sono apparsi su Chicago Quarterly, Numéro, D di Repubblica, Satisfiction, Il Primo Amore, IBS Café. Ha pubblicato i romanzi Bowling (Barney Edizioni, 2014) e Merenda da Hadelman (Aliberti, 2016), la biografia della scrittrice Alice Munro, La fessura (Barbera, 2014) e la raccolta di poesie Quello che dice una cameriera (Miraggi Edizioni, 2017). È biografo ufficiale dello scrittore americano Chuck Kinder.

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Roma (Miraggi Edizioni, 2018, pp. 320, euro 18) è un libro sul cinema, un mix di realtà e finzione, ambientato nel secolo scorso. È un concatenarsi di storie sulla città eterna, dove tutte le strade portano. Quanto tempo ha impiegato per scriverlo?

Se parliamo di stesura, di scrittura del libro, ho impiegato tra i 4 e i 5 mesi. Per quanto riguarda il materiale, i riferimenti che ci sono nel libro, si tratta di cose accumulate negli anni, sia a livello di sentito dire, sia di viaggi fatti a Roma, che poi sono tutti confluiti nella trama. Quello che mi piace dire è che rispetto ai due romanzi precedenti che ho scritto, questo è per me il primo romanzo in cui davvero mi riconosco, dove il modo di lavorare l’ho sentito molto mio: ho lavorato alla storia come fossi un regista, facendo domande, sopralluoghi, chiacchierando con le persone. Si è trattato di un lavoro di collaborazione, insomma. È stato proprio come fare un film, pur non avendo a disposizione i mezzi del regista.

Leggendo il romanzo mi è parso di trovarmi ora nel cottage dello scrittore protagonista del Grande Gatsby (Tommaso, il protagonista, è giornalista e scrittore), ora sul set di un film di Fellini. La sua scrittura è cinematografica, si è trattato di una scelta o di una combinazione?

Ho tre grandi passioni artistiche: la musica, la letteratura e il cinema. Per quanto riguarda la musica, diciamo che non posso sfogarmi nella stessa, come autore intendo, così la posso recepire soltanto in maniera passiva. Ho sempre sognato invece di lavorare per il cinema. Come passione direi che il cinema è forse addirittura superiore alla letteratura: quando guardo un film, infatti, riesco ad isolarmi e mi passa tutto. Il cinema, soprattutto quello di cui parlo nel libro, quello della prima Cinecittà, degli anni Cinquanta e Sessanta, ha una grandissima influenza. Per anni ho provato a scrivere un romanzo partendo dal mio background letterario, che è molto americano perché lavoro su autori americani, e mi venivano delle cose americane, così succedeva che le sentivo meno mie, mentre il mio background di spettatore cinematografico è molto italiano; amo Monicelli, Scola, Fellini e ho capito che con il romanzo dovevo andare lì. Per quanto riguarda la scrittura in scene è anche molto voluta, perché quando penso e leggo un libro, la prima cosa che cerco è di vedere. Fellini domandava: Come si fa un film? E rispondeva: Trova sette scene buone, mettile insieme e avrai il film. E questo modo di scrivere i romanzi è antico, sono un affastellarsi di episodi… Volevo la libertà di raccontare delle cose che vedevo e mi immaginavo di volta in volta, aspettando che il libro terminasse da solo. Io ero dentro Roma e, a mano a mano, vedevo le cose e le raccontavo. Per me scrivere è inventare, utilizzare la scrittura per creare. Non volevo un senso generale del libro, a un certo punto erano i personaggi stessi a reclamare il loro proprio spazio. Un personaggio diceva: ma come, l’altro personaggio ha avuto una storia, quell’altro pure e la mia non la racconti? Bè, è interessante, pensavo, e mi dicevo: in effetti si potrebbe raccontare anche… e a un certo punto mi sono dovuto strappare il libro dalle mani, perché avrei potuto continuare all’infinito, avevo in mente anche altre storie di altri personaggi.

Lei è mai stato a Cinecittà e se sì, cosa l’ha più colpita?

Sono stato a Cinecittà dopo averla sfiorata per tantissimo tempo, perché tante volte sono andato lì e non c’è stata occasione di entrarvi, perché era chiusa. Era un desiderio forte quello di poterla vedere, poi è accaduto che una volta mi trovavo lì vicino a pranzo con Pasquale Panella, che è il paroliere di Lucio Battisti, e lui che ha sempre abitato nei pressi di Cinecittà mi raccontava di quando da ragazzino scavalcava i muretti di Cinecittà e vi entrava per vedere cosa succedeva e questo racconto-ricordo è stato anche uno dei punti di partenza del libro. Poco dopo hanno aperto Cinecittà per vedere alcuni set e sono andato a vederla per la prima volta. Era il 2017. E’ stata per me una fascinazione totale, lì ho deciso che volevo ambientare il romanzo, oltre che a Roma, anche a Cinecittà. Ho trovato con entrambi un set naturale e molto materiale è rimasto fuori, quindi è nato il progetto di scrivere una biografia raccontata di Fellini per il 2020. Non sarà il mio prossimo libro, ma quello dopo.

C’è una bella metafora a un certo punto del libro che parla di spiagge, barche e navi dirette verso la “gioia di vivere”. Qual è oggi una gioia del suo vivere?

Io sono felice. Una cosa che non sopporto nella letteratura è il cinismo. Nel libro esalto gli epicurei, scelgo appositamente dei personaggi epicurei. A me piace tutto, mi piace proprio il vivere. Vede, ho sempre inseguito quello, ho sempre cercato di fare quello che mi rende felice, perché credo che è ciò che a una persona riesce meglio. Oggi faccio un lavoro che mi piace, leggo e scrivo, e in futuro mi piacerebbe anche lavorare per il cinema… e sto insieme a persone che mi rendono felice e ho degli amici che mi rendono felice e dove non trovo questo sentimento mi allontano. Per me essere felice è esattamente quello che sto facendo oggi, che ho fatto ieri e spero farò domani.

A pag. 110 si parla degli odori che scandiscono le ore della giornata ed evocano storie, momenti che solo grazie agli stessi odori possono ricordarsi. Quale odore è legato alla sua infanzia e quale ricordo, se vuole ripercorrerlo con noi di Satisfiction, le evoca?

Mi ricordo mia mamma profumata, mia mamma che quando entravo in casa aveva sempre un buon profumo, fresco e accogliente. Questo è il profumo che mi ricordo dell’infanzia, poi c’è un profumo ch

e appartiene agli anni dell’adolescenza: i primi anni di liceo, quando arrivava il mese di gennaio e finiva il primo quadrimestre e ogni tanto c’era qualche giornata che annunciava la primavera e c’era un profumo particolare nell’aria che sento anche adesso e tutte le volte che sento quel profumo lì, rivivo i miei 14 anni. Mi piace ragionare per profumi e attraverso i sensi. La letteratura western include i personaggi spesso in questi grossi paesaggi naturali, mi piace che ogni tanto i personaggi alzino la testa e vedano il cielo e si ritrovino dentro il paesaggio con tutti i sensi e le percezioni attivati, in modo che non siano solo loro i protagonisti, non siano solo le parole, ma ci sia anche questa parte qua.

Prendendo a pretesto un personaggio marginale del libro, che fa i Tarocchi, le chiedo se lei crede alla fortuna.

Credo alla buona stella. O me la do come scusante. Come dicevo prima rispetto all’approccio alla vita felice, la vedo come una cosa bellissima, la vita, e siccome ho questa predisposizione buona, spero possa essere ricambiata. Non sono una persona coraggiosa, però rischio cose, dicendomi che in fondo ho una buona stella. Credo che se uno si asseconda e crede fermamente nelle cose che fa, la fortuna se la procura.

Emanuele fa da cicerone al protagonista Tommaso nei primi momenti dell’arrivo di quest’ultimo a Roma e contestualmente anche il lettore viene ad apprendere molte cose sulla città eterna, i suoi monumenti, i suoi passaggi segreti. Quale racconto da lei a sua volta appreso, riguardante Roma, l’ha più affascinata?

Mentre facevo un po’ di ricerche per il libro, mi ha colpito l’episodio del rastrellamento del Quadraro, che è un episodio davvero impressionante e poi Cinecittà durante la guerra. Erano cose che sapevo o avevo sentito raccontare, ma approfondite mi hanno colpito profondamente. Questo per quanto riguarda gli episodi storici. Dall’altro lato, c’è da dire che Roma è fatta di tante piccole storie, di tanti piccoli episodi, che sono straordinari. Per esempio, anche se nel libro è marginale, mi ha colpito molto la storia di Pasquino o quella che racconto della bocca della verità. Le stesse storie dei registi e degli attori che frequentavano Roma sono affascinanti. È pieno. Ecco, non riesco forse a identificare una storia precisa, devo dire che la prima fascinazione romana, pura, è stata per le poesie di Giuseppe Gioacchino Belli e per i film di Luigi Magni. Lì ho iniziato a vedere una Roma particolare che mi attraeva molto. C’è una storia romana però, ad onor del vero, che avevo sempre in mente quando lavoravo al libro. Si tratta delle due morti diverse di Seneca e Petronio, al tempo di Nerone. Seneca fece una morte da stoico bevendo la cicuta; Petronio invece si accomodò in una specie di vasca, si tagliò le vene, invitò tutti gli amici, chiacchierando e bevendo vino insieme a loro. Fece a sua volta una morte in linea con la sua filosofia. Questa storia è stata molto presente durante tutta la scrittura di Roma.

Nel suo libro trova spazio anche la poesia. Si racconta ad esempio di come Catullo arrivò a Roma, si citano versi e infine molte pagine sono intrise di poesia per lo stile e per una sorta di sentimento nostalgico che dimora in esse. Lei legge poesia e se sì, quali poeti apprezza di più?

La mia prima passione letteraria è stata l’opera del poeta irlandese William Butler Yeats. Il libro con cui ho iniziato a scrivere, nel senso di libro che una volta finitane la lettura, ha fatto sì che il giorno dopo prendessi in mano una penna per scrivere a mia volta, è stato I cigni selvatici a Coole di William Butler Yeats. Ho poi scritto un libro di poesie dal titolo Quello che dice una cameriera (Miraggi Edizioni, 2017) che per me ha rappresentato uno spartiacque, ovvero è stato il primo libro in cui mi sono davvero riconosciuto. E poi è arrivato Roma che, come ho già detto, è stato il primo romanzo in cui mi sono riconosciuto. Il mio libro di poesie raccoglie del materiale molto vecchio – fino naturalmente al più recente – e la prima persona con cui ho avuto a che fare nel mondo letterario e alla cui attenzione ho sottoposto la lettura delle mie poesie, è stata niente meno che Fernanda Pivano, che voleva farne pubblicare alcune, di quelle poesie. Non ci riuscì all’epoca. Se poi vuole dei nomi dei miei poeti di riferimento direi che mi piacciono molto Catullo, Lucrezio, Marziale, Foscolo, Shakespeare, Yeats, Francois Villon, Sylvia Plath, Anne Sexton, Emily Dikinson, Leonard Cohen. Questi sono i miei riferimenti. Dei contemporanei invece, il mio poeta preferito, che è anche un amico, è Edward Field, che ora ha più di 90 anni e lui è indubbiamente il mio poeta vivente preferito.

Nei ringraziamenti c’è scritto che il libro nasce da un pettegolezzo e da un ricordo. Ci racconta il pettegolezzo?

La zia di mia moglie è una sorta di cantastorie, conosce tante storie e ogni tanto ne racconta qualcuna. Da una di queste è nato il mio prossimo romanzo che in realtà ho iniziato a scrivere prima di Roma ed è un libro ambientato negli anni Cinquanta. Da lì ho iniziato a prestare ascolto attento a quanto raccontava e una volta ha raccontato un episodio vero accaduto in provincia di Piacenza riguardante una coppia che “dava scandalo”, come si usa dire, coppia che viveva vicina ad un’anziana signora. Quando la coppia andò via dalla casa in cui abitava, gettò un dildo in un cespuglio che confinava con la casa dell’anziana signora, la quale lo ritrovò. Non sapendo cosa fosse, iniziò a chiamare carabinieri, vigili del fuoco e artificieri, pensando che si trattasse di chissà quale ordigno. Questo episodio è stato quello che ha fatto scaturire l’inizio del mio libro Roma. Il ricordo invece, che ha dato il via a Roma, è quello raccontato prima, di Pasquale Panella e dei muretti.

Quest’ultima domanda ha a che fare con il cielo. Come è il cielo sopra Nicola Manuppelli?

Roma è un libro dove il cielo ha un ruolo enorme. È la prima cosa che mi viene in mente della città. Ed è immenso. Spero sia sempre immenso, chiaro e limpido, come quando di notte i protagonisti del libro, in una certa scena, lo vedono tutto stellato e si immaginano per ogni stella una storia e si immaginano di unire quelle stelle come puntini, per creare qualcosa. Ecco, forse questo è esattamente il mio cielo.

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