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Il calcio è una cosa umana. Intervista ad Angelo Orlando Meloni

Intendiamoci subito: Santi, poeti e commissari tecnici, opera di Angelo Orlando Meloni pubblicata da Miraggi Edizioni, non è una raccolta di racconti a tema calcistico. Non solo, almeno. Perché a fatica troveremmo l’epica sportiva a cui siamo fin troppo abituati, il campione solo contro tutti, la forza del gruppo che riesce nell’impossibile, la redenzione attraverso il sacrificio sportivo.

Potremmo descrivere, con un certo grado di correttezza, Santi, poeti e commissari tecnici come l’affresco di una Sicilia ricca di storia e di storie. Un messaggio d’amore che non risparmia critiche alla presenza ingombrante di piccoli e grandi boss di provincia, tangenti, brutture industriali e architettoniche. Una prosa che rovescia gli stereotipi, che ci costringe a guardare a fondo nelle cose. Nel racconto L’aeroplano, per esempio, l’immagine dei ragazzini che giocano a calcio su strada, considerata ormai un emblema di purezza giovanile, diventa teatro di violenza e soperchierie. In questo teatro, il calcio viene vissuto come valvola di sfogo e denominatore comune.

Lo stile dell’autore diverte e provoca fitte al cuore, ci accompagna attraverso un piccolo mondo di giocatori bolliti, bluff conclamati, campioncini in erba senza possibilità, ci fa ridere per le loro disavventure per poi lasciarci a contemplare qualcosa di amaro, in eterno equilibrio tra incanto e disincanto.

La sensazione precisa era quella di un bluff, però il pensiero magicamente non riguardava nessuno. Lindo Martinez avrebbe segnato a valanga, Tito Recchia avrebbe vinto il Seminatore d’Oro, Siracusa avrebbe inglobato Catania, Palermo, Napoli, Roma, Torino e Milano,sarebbe partita in orbita e dall’alto del cielo stellato i tifosi avrebbero finalmente potuto pisciare sulla testa della gente, senza ritegno per nessuno,eccezion fatta per il papa, Maradona e forse Sofia Loren. “Precisi siamo”, sussurrò Fausto a Lino e a Gimmi, e quelle furono le uniche parole che pronunciò quel pomeriggio di luglio che c’era un caldo bestiale e tutti avevano lo stesso voglia di saltare e di cantare e nessuno di lavorare

Ho intervistato Angelo Orlando Meloni per parlare di sport e di vita, che sperro è quasi la stessa cosa. Lo ringrazio per la disponibilità:

Puoi raccontarci com’è nata questa opera, in che arco di tempo hai scritto i racconti?

La raccolta è nata in due momenti diversi. Uno dei racconti addirittura è il primo che ho scritto, un secolo fa, e tra l’altro era stato già pubblicato, ma la stesura era così ingenua che ci ho sofferto per anni. Così quando ho scritto gli altri testi che compongono il libro mi è sembrato fosse giunto il momento di rimettere a nuovo un paio di altre storie, più vecchie, ma sempre a tema calcistico. Non vorrei apparire presuntuoso, ma il libro mi sembra molto compatto e… no, non è nato in base a quelli che i poeti laureati all’università dell’autopubblicazione o della bolla social chiamano “urgenza espressiva a lungo repressa”. Il libro è nato perché è nato, cioè per un coacervo di cose che si mescolano fino a che questo stesso groviglio di amore per la lettura, nonché di sogni mostruosamente proibiti, vanità, ambizioni, passioni e idee mi ha portato ancora una volta a scrivere.

Angelo Orlando Meloni

Lo sport vive di un’epica tutta sua, che è quella con cui viene raccontato da cronisti, giornalisti, esperti. Nella tua opera questa epica viene meno: la demistifichi e la svuoti di significato, ci porti in un mondo grottesco che è molto lontano da quello che vediamo su Sky Sport o alla Domenica Sportiva. Potresti riassumere ai nostri lettori che tipo di calcio hai provato a raccontare?

Bella domanda, mi sa che hai centrato il punto. Senza nulla togliere alla professionalità dei giornalisti, dei telecronisti, tutta gente con una preparazione enorme, che sanno quello di cui stanno parlando, c’è però un tono di fondo, epicheggiante, che accomuna e livella quasi tutti i giornalisti e critici e rende ahimè a volte indigeribile il mondo del calcio, almeno per me. Non avete anche voi nostalgia della Gialappa’s band e di Mai dire goal? Il mondo del calcio si prende troppo sul serio, i tifosi già al mattino davanti al caffè si prendono troppo sul serio, gli ultrà poi sono di una serietà talmente seria che fa paura, sono in guerra con l’universo, anche se nessuno è in guerra con loro. È un mondo monolitico che secondo me ha bisogno di un po’ di autoironia. Ed è anche per questo che ho raccontato un calcio grottesco, se vogliamo, di sicuro lontano dall’epos e dalle agiografie a cui siamo abituati.

Non è semplice definire il tono di questa raccolta. Il comico e il tragico, l’incanto e il disincanto, sembrano uniti in uno strano gioco di specchi. Spesso, tra le maschere che conosciamo nella tua raccolta, mi è venuto in mente il concetto di carnevale come lo definiva Bachtin, una sorta di rovesciamento divertito e violento dell’ordine sociale. Lo sport viene spesso raccontato così, con la persona più umile e sfortunata che può diventare un grande campione. Nei tuoi racconti succede sempre o quasi sempre il contrario. Anche il calcio è un gioco di potere?

Il calcio è una cosa umana e quindi è anche un gioco di potere. Avere entrature funziona sempre a tutti i livelli in tutto il mondo in qualsiasi ambito del sapere o dell’agire umano. Non sto dicendo che è giusto, sto dicendo che negarlo equivale a negare la realtà. Circa il tono di questa raccolta, ho sempre in mente un romanzo, Comma 22 di Joseph Heller, libro bellissimo pervaso di umorismo demenziale, che si trasforma pian piano da rappresentazione comico-grottesca della guerra in vera e propria tragedia. Incanto e disincanto, comico e tragico, come dici tu, possono andare di pari passo, forse perché la nostra stessa esistenza in questo pianeta va avanti in questo modo.

Molti ci dicono che lo sport è una metafora della vita. Secondo te è così?

Ovviamente è una formula che è stata ripetuta talmente tante volte da aver perso qualunque significato. Da un altro lato, però, a furia di ripetere che il calcio è una metafora della vita abbiano creato una specie di incantesimo e quindi… sì, il calcio è la metafora della vita, qualunque cosa ciò significhi. Per esempio, se applicata all’Italia questa formula magica ci rende egregiamente l’idea d’una nazione popolata da sessanta milioni di persone, in cui però vince sempre e soltanto e solamente il padrone; e agli altri restano le briciole.

I tuoi sono racconti di finzione. Se dovessi raccontare una storia vera di sport, quale vorresti raccontare? E perché?

Mi piacerebbe prima o poi scrivere di pallacanestro, sport sublime, ma rimanendo in ambito calcistico è fin troppo facile rispondere alla tua domanda con un nome: Zdeněk Zeman. Un genio, un personaggio unico, una spanna al di sopra di tutti gli altri, lui sì mito vivente del calcio.

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