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Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

“Rettangolo di muri di pietra / un quadrato di ferro il cancello / serrato dal cielo lontano, / in alto il filo spinato: / questo è il nostro giardino, questo il nostro campo”: così il poeta descrive, con la forza della poesia, la sua prigionia, che non è solo fisica ma interiore, metafora del corpo recluso ma anche della mancata libertà morale, di espressione, giacché il regime nazista era già al potere, e aveva iniziato a colpire gli intellettuali dissidenti. Altro riferimento agli avvenimenti che stavano formando la Storia di quel tempo: “…tu vorresti che questo mondo fosse più felice / che vi si possa discernere il bene / e non dover gridare di terrore…/”, un “tu” generico che prende tra le sue braccia tutti gli individui, un “tu” universale. Sembra esistano due velocità del tempo: “Il tempo si trascina sui miei giorni troppo lento, / così pesante che a terra li schiaccia…niente porta via e indugia/tempo troppo, troppo lento” quando si è rinchiusi in uno spazio circoscritto che rende angusto anche lo scorrere dei giorni mentre, potendo godere della libertà, del lusso di vivere il quotidiano comune la velocità è diversa “Tempo…dov’è il tuo passo feroce…dov’è la fretta e la furia”. Cosa può ristorare questo tempo che va a velocità dimezzata, se non le piccole cose, quelle che seppur minime, toccano e per un istante risollevano l’anima del poeta prigioniero? Anche solo un cielo terso, dove le nuvole sono “visioni di paradiso!…promesse di portenti, peccato però, /peccato che così fuggitive… / si disperdano subito in un niente”, una pausa troppo breve “mentre la miseria senza sponde e fondo / non si disperde, non svanisce, ma quaggiù immota dura”, in un luogo dove anche la poesia sovente perde il suo valore, la sua utilità (Smettila, grillo, con quel tintinnio / cosa cerca qui la tua canzone? / qui, tra le mura della prigione il tuo gaio canto / pace e calma finge ove è rinchiuso muto compianto”)…

Il poeta ceco Josef Ĉapek nasce nel 1887. Artista eclettico, si dedica prima alla pittura (dopo un soggiorno a Parigi dove frequenta l’ambiente del postimpressionismo, tornato in patria è tra i fondatori del gruppo dei Testardi), poi alla scrittura: pubblica qualche racconto e saggio sulla pittura, ma il suo contributo più importante resta il romanzo/trattato Il pellegrino zoppo (1936). Parallelamente diventa redattore del quotidiano “Lidové Noviny”, organo di stampa del partito nazional-liberale da dove mette in guardia dall’avanzata del nazismo. I suoi interventi attirano l’attenzione della Gestapo che, nel settembre 1939, lo arresta. Ĉapek subisce diversi trasferimenti, in prigioni e campi di concentramento. Morirà di tifo nel campo di Bergen-Belsen nel 1945. È proprio durante la sua detenzione che scrive tutte le sue poesie, giunte a noi grazie ai suoi compagni sopravvissuti che le hanno portate con loro una volta liberati. Ciò che colpisce, leggendole, è la grande capacità di far “vedere” i versi, di visualizzare le immagini che descrive, di sentirle parte di una realtà vissuta che, proprio perché vissuta, ha una potenza davvero rilevante. Pur essendo una poesia soprattutto descrittiva, non perde la sua valenza lirica e mantiene un lessico interessante, variegato, non scade nel languido o nel vittimismo. Non è uno stile barocco, l’aggettivazione è dosata. Da sottolineare inoltre l’assenza di versi rivolti agli aguzzini, il centro delle sue poesie è l’uomo, spolpato della sua libertà, immerso nella sporcizia e nel fango dei campi di concentramento, ma ancora capace di stupirsi della natura (vedi la poesia Nuvole), che mantiene ancora la sua dignità perché attento a mantenere la sua anima salda e presente, viva e pulsante. Poesie che restano dentro, come deve essere.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/poesie-dal-campo-di-concentramento

Angolo nullo – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

Angolo nullo – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

“Se mi chiedi da dove vengo… / precisi bene da quale paese vieni? / …freno la tua paura per i documenti / e ti racconto che ho preso un aereo / sono atterrato e ne ho preso un altro / sono atterrato e ne ho preso un altro / sono atterrato e sono arrivato”. Lasciare la propria terra, le proprie radici per costruirsene altre ha un prezzo da pagare: il prezzo è dover giustificare la propria presenza in un Paese dove non assomigli a nessuno, per tratti somatici, colore, e qualsiasi altro elemento che ti rende un “diverso”. Anche se “ti parlo nell’unica lingua che conosci”, “ti racconto la storia del tuo Paese” la risposta è sempre “e mi rispondi che non basta” perché “bisogna nascere qui per appartenere a tutto ciò”. Poiché non si è nati nel paese in cui si vive, l’insulto diventa lo stigma del razzismo (“il primo vattene / l’ho subito su questa terra / il primo qui non ti vogliamo / l’ho subito su questa terra / il primo tornatene a casa tua / l’ho subito su questa terra”. E quando, dopo quattordici anni, ritorni nel tuo paese di nascita, la tua identità non la trovi nemmeno lì, nemmeno “Nel posto in cui speravo di sentirmi finalmente completo / nel posto in cui mi ero immaginato di sentire / le mani di mio nonno ricucire tutti i miei pezzi sparsi”; ti senti “diviso in due: / una parte que habla en este idioma / e l’altra che si riascolta in silenzio” e ti ritrovi “sconosciuto, / straniero, / ovunque nel mondo straniero”. Chi vive questa condizione e inoltre possiede il dono della poesia, non può sottrarsi all’immedesimazione con altri che lasciano la propria patria, lasciandosi alle spalle guerre, povertà e fame, per trovare una patria sostitutiva. Quanti sono i migranti che finiscono il loro viaggio inghiottiti dal mare? “Non esistono più settecento circa / nomi da pronunciare /…e mai sapranno le madri e i padri / dello sprofondare / in quel canale di Sicilia / grande come settecento circa oceani, / dei loro figli assetati / e spogliati dal sale / settecento circa / immigrati, ingrati, profughi, / negri / clandestini, / primitivi / o settecento circa / persone, con settecento circa / voci da sempre / e per sempre / costrette a strozzarsi nel silenzio”…

Non si dovrebbero leggere le poesie di Jaime prima di addormentarsi, non si ha il tempo di metabolizzare a sufficienza la responsabilità che ti viene buttata addosso. La responsabilità della bellezza e del disagio, della rabbia, del dolore e della verità. Che sia la sua storia personale (nascita, appartenenza etnica, radici, amore, solitudine, discriminazione), che siano i corpi dei migranti che si sciolgono nel Mediterraneo o la disperazione di una madre che offre erba come cibo alla propria figlia perché altro non possiede (poesia struggente a pag. 18) ti senti il pedone investito sulle strisce. Così la rabbia e la frustrazione diventano le tue, così la poesia ha raggiunto il suo scopo. Jaime Andrés De Castro è un giovane poeta, giovane di età ma con già una discreta “anzianità” poetica. Nato a Barranquilla, Colombia (ecco perché ha dovuto pagare il prezzo del giustificare la propria presenza nel nostro paese), vive nella provincia milanese. Alla sua seconda pubblicazione (la prima è stata ¡Afuera Todos Saben Vivir! uscito per Matisklo nel 2016), è anche poeta/slammer di grande intensità. Non segue la metrica nelle sue poesie, poesie fisiche dove coesistono versi brevi e versi lunghi, quelle più arrabbiate sono ricche di anafore. La sua è la rabbia sacrosanta per le ingiustizie, provate personalmente, provate come individuo vivo e consapevole, che sembra cosa detta e ridetta, scritta e riscritta ma mai abbastanza. Poveri noi se ci arrendiamo alla nostra impotenza. Che chi sa scrivere le scriva, le ingiustizie e le barbarie che vede perché, come scrive Jaime nella poesia conclusiva di questa raccolta “vorrei scrivere una poesia/che alla fine/ti faccia capire/che c’è ancora una speranza/e che quella speranza/ è la poesia”. Consigliato? Certo che sì!

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/angolo-nullo