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“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

Philip Roth, nell’ultima parte della sua vita, sarà stato sicuramente mortificato per non aver ricevuto il Nobel. Certo, però, non era in buona compagnia: quasi ogni cretino, anche con una sola plaquette di poesia pubblicata, è convinto di essere un vincitore ingiustamente mancato. Sono veramente pochi a non avere l’ego tanto grande da ambire a un qualche riconoscimento sovradimensionato rispetto alle loro reali qualità artistiche. Per fortuna, ogni tanto, capita di trovare uno scrittore che, con estrema modestia, non si sente in competizione con i grandi e non ambisce a scalzarli dal loro trono. Come Andrea Serra che, con il suo Frigorifero Mon Amour, Miraggi 2018, non è sceso in campo con l’intento di rivoluzionare la storia della letteratura. Molto più serenamente, lo scrittore torinese di origini sarde si limita a regalarci qualche momento di leggerezza e riso. E lo fa raccontandoci la  toria tragicomica di una famiglia comune, la cui vita si trascina tra un’avventura grottesca e l’altra. Travolti dalla sua inguaribile tendenza a tramutare ogni situazione in un’occasione di divertimento, siamo andati a intervistarlo con l’animo sollevato, sicuri che non ci avrebbe ammorbati con la solita tiritera, della serie “sono il migliore, ma ancora nessuno l’ha capito”.

Insomma, ragazzo mio, hai letto i classici: Dostoevskij, Kafka, Camus, Sartre. Hai studiato a Torino, con pensatori del calibro di Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris. Ti sei laureato in Filosofia a pieni voti… Com’è che poi hai deciso di non prenderti per niente sul serio e diventare l’autore di Frigorifero Mon Amour?

Questo libro che parla dell’amore per un frigorifero è qualcosa di serissimo. Ed è la diretta conseguenza dei miei studi filosofici e della mia imbarazzante dipendenza dai classici. Solo dopo aver conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia Morale ho capito che, se volevo scrivere qualcosa di serio, dovevo evitare in tutti i modi la serietà.  l mio intimo amico Franz Kafka, quando leggeva agli amici le pagine di Il Processo, rideva fino alle lacrime.

Hai scritto un libro che diverte ed è segnato da una profondissima leggerezza di fondo. A tuo avviso, nel mondo letterario, c’è bisogno di qualcuno che faccia ridere, di autori che non perseguano il tragico come partito preso?

Sì, penso che la leggerezza sia necessaria, soprattutto in questa nostra società liquida e liquefatta che viaggia a ritmi vertiginosi. La leggerezza, d’altronde, non è superficialità, come già affermava Calvino, ma qualcosa di essenziale e profondo. Basta solo non dimenticarla nello scomparto dell’umido. Insomma, non bisogna lasciarla ammuffire nel frigorifero, ma cibarsene quotidianamente. I medici consigliano di consumarne almeno cinque porzioni al giorno.

Quando ti ho presentato a Cagliari, hai confidato al pubblico di aver scritto qualcosa già prima, un libro che, se non ricordo male, avevi anche inviato al Premio Calvino. Quando ti è stata recapitata la scheda finale di valutazione, il tuo testo è stato bocciato senza possibilità d’appello e tu sei stato invitato a levarti dalle palle. Ci potresti raccontare dell’accaduto? Sono sicuro che saprai presentare un momento così difficile per uno scrittore come qualcosa di divertente e, magari, tirare un po’ su di morale i tanti scrittori che sono abituati a ricevere solo rifiuti. Ah, già che ci sei, potresti pure dirci cosa ne pensi dei premi letterari in generale.

Certo! Pensa che io avevo lavorato a quel manoscritto per diversi anni. Si trattava di una serie di racconti esoterici collegati tra loro. Il risultato era tra il terrificante e l’imbarazzante. Per fortuna, la giuria me lo fece notare. Io ci rimasi malissimo ovviamente, perché chi scrive pensa sempre di essere vicino al Nobel per la Letteratura. Ma le critiche e le stroncature, alla fine, sono il momento più prezioso, se si vuole davvero migliorare nell’arte della scrittura. Se non avessi ascoltato i consigli e i pareri negativi che mi sono stati rivolti, adesso non sarei qui a rispondere alle tue domande. Perciò, mi sento di suggerire a chi inizia a scrivere di fare tesoro di tutte le critiche e i suggerimenti, perché proprio lì si possono cogliere i segnali da seguire per trovare la direzione giusta. I premi letterari, inoltre, sono una bella occasione per mettersi alla prova e per confrontarsi con altre persone che hanno la tua stessa passione.

La cifra distintiva della tua narrazione sembra essere quella dell’esasperazione del quotidiano in chiave dolcemente grottesca. Com’è che hai deciso di adottare una simile soluzione nella tua scrittura?

Questa esasperazione grottesca non è studiata o programmata, fa parte di me da sempre. È una tragica tendenza della mia troppo fervida immaginazione. Mia moglie è giustamente disperata perché, conoscendomi bene, sa che, quando le racconto un fatto, questo non corrisponde mai al vero. Sono sostanzialmente un individuo disturbato che trascrive su carta i suoi deliri quotidiani.

Andrea, è la vita a essere divertente e la tua scrittura, di conseguenza, la imita; oppure la vita è così dolorosa che la letteratura deve riscattarla buttando in vacca ciò che è solo pena e afflizione? Perdonami la domanda che fa palesemente il verso a Marzullo.

Grazie per questa domanda marzulliana, che tuttavia non ho compreso completamente. Ma per non sfigurare voglio rispondere citando la Critica della Ragion Pura di Immanuel Kant, che, tra l’altro, fa molto figo. Direi che sono le nostre categorie mentali a dare forma al mondo. La realtà è divertente, tragica o noiosa sulla base degli “occhiali” che portiamo. L’ironia è un abito mentale, un abito che andrebbe insegnato a scuola a mio parere, perché permette di guardare le cose da prospettive diverse e consente di trovare soluzioni inaspettate. Con questa risposta credo di esserne uscito alla grandissima e, nello stesso tempo, di aver spremuto completamente il mio unico neurone. Ti chiederei pertanto di abbassare notevolmente il livello delle prossime domande.

Tu hai, diciamo pure, un buon successo presso il pubblico dei social, un successo che molti scrittori che perseguono la serietà a ogni costo si sognano. Da cosa pensi che dipenda una simile attenzione che tu riesci evidentemente ad attirare e altri no?

Ho iniziato a postare alcuni dei miei racconti da un paio d’anni, quindi relativamente tardi. Il mio approccio ai social è poco virtuale: io tratto tutte le persone che interagiscono con me come persone reali, per cui, se mi scrivono e commentano i miei post, rispondo sempre e, magari, nasce una conversazione, uno scambio, un’amicizia che va al di là della rete. E non importa se devo replicare a trecento messaggi in una sera. Sono tutte persone che hanno impiegato il loro tempo per dirmi qualcosa e il minimo che io possa fare è dare risposta a ognuno. Credo che il segreto stia qui. D’altronde, quello di cui abbiamo bisogno tutti è di essere riconosciuti, mentre i social, al contrario, spingono verso la massificazione e l’anonimato.

Non ho mai capito perché, ma mi pare che molti autori italiani si sentano provinciali a raccontare di ciò che li circonda. Tu, invece, sembri molto legato al quotidiano, alla vita di tutti i giorni. Infatti, come si evince da Frigorifero Mon Amour, prendi ispirazione dalla tua famiglia, dai colleghi di lavoro, ovvero dalle persone che ti ruotano intorno ogni giorno, per quanto ti conceda di trasfigurarli in chiave ironica. Non pensi che ci sia qualcosa di profondamente triste in tutti questi scrittori che hanno timore di raccontare con semplicità e onestà ciò che sono, la loro quotidianità, e tentano pietosamente di ambientare i loro romanzi in America o in altri posti che forse hanno visto di sfuggita per una settimana, durante le vacanze?

Sì, sono assolutamente d’accordo con te. Il meraviglioso e lo straordinario sono nel quotidiano che abbiamo davanti agli occhi. Non avrei altro da aggiungere. Scusa la brevità della risposta. Sono ancora un po’ stanchino, dopo la domanda precedente.

Tu hai scritto anche poesia, almeno in passato, giusto? Perché non ce ne reciti una, raccontandoci anche il retroscena?

Se proprio insisti… posso recitarti questa che si intitola A Pasqua. È la prima che ho scritto, avevo sette anni: “A Pasqua fuma la vasca,/ fuma da Pavia,/ in provincia di Lombardia”. Questa poesia, come vedi, anticipa l’ermetismo, il simbolismo e il provincialismo. Nasce dal fatto che, quando ero piccolo, mio padre, per farmi il bagno, mi immergeva in una vasca di acqua bollente che riempiva la stanza di vapore. Il riferimento a Pavia, invece, non è del tutto chiaro. Alcuni critici hanno pensato a un viaggio segreto compiuto all’età di un anno e mezzo, mentre altri pensano si tratti di un’influenza massonica lombarda.

Prova a immaginare di finire nei manuali di letteratura tra cinquant’anni. Secondo te, cosa scriverebbero i curatori in merito alla tua poetica?

Sicuramente parlerebbero di “poetica dell’elettrodomestico”, perché per primo ho dato voce al frigorifero, alla lavatrice e al forno. Quello che mancava nella storia della letteratura era proprio una corrente alternata e ammuffita.

C’è qualcosa di cui vorresti scrivere, ma per cui non pensi di avere le capacità?

In generale di tutto. Io sono estremamente critico verso ciò che faccio e, soprattutto, che scrivo. Dopo aver rivisto centinaia di volte quello che mi esce dalla tastiera del pc, mi sorge sempre l’istinto di darlo alle fiamme. In tutta sincerità, non credo di essere particolarmente dotato con la penna. Ci sono tantissimi scrittori veri, molto più bravi di me. Io mi limito a mettere nero su bianco una storia quando proprio ne sento la necessità e, con tutti i mezzi che ho a disposizione, cerco di limitare i danni.

Stai scrivendo un secondo romanzo, se non ho capito male. Di cosa parlerà? Dobbiamo aspettarci un nuovo Andrea Serra, o quello che oramai ci è caro?

Quello che ho iniziato a scrivere è la continuazione di Frigorifero Mon Amour. Però ci saranno tante novità, sia in termini di trama che di personaggi e, soprattutto, di numerazione delle pagine. Per la prima volta nella storia della letteratura, queste non saranno indicate con i numeri, ma con i puffi disegnati da Luna (mia figlia). Ad esempio, al posto del numero uno, a pagina uno ci sarà Puffo Ercole; a pagina due, Puffo delle Mezze Stagioni; a pagina tre, Puffo Caccola Verde… E via dicendo.

Matteo Fais

 

Non disturbare: l’ironia di Marinaccio si abbatte su chi ha sempre qualcosa da dire (o da proporti)

Non disturbare: l’ironia di Marinaccio si abbatte su chi ha sempre qualcosa da dire (o da proporti)

La stand-up comedy in forma scritta: è “Non disturbare”, di Claudio Marinaccio, torinese, scrittore (Linus, Il Mucchio Selvaggio, Gq, Donna Moderna) e lavoratore (ma mantiene il più stretto riserbo su cosa faccia nella vita: nulla di illegale, comunque…). Se negli States si tratta di uno dei generi di maggiore successo – e di maggiore difficoltà, visto che la presa sul pubblico non deve mai calare, uno contro tutti a teatro come negli show televisivi -, in Italia è una forma di intrattenimento ancora poco frequentata, se non ignorata (o evitata) del tutto. Marinaccio ha accettato la sfida, passando dal romanzo d’esordio (“Come un pugno” del 2016) a un libro costruito su descrizioni fulminanti e dialoghi nonsense. Un susseguirsi di ritratti e situazioni nato dalle sollecitazioni su Facebook.

“Scrivevo dei post, in cui prendevo in giro quelli che ti scocciano al citofono oppure al telefono. I Testimoni di Geova che vogliono convertirti o i call-center delle aziende che vogliono farti firmare un contratto. Erano dialoghi surreali. Sono piaciuti, ne ho ideati altri ed è nato il libro. Volevo creare una stand-up comedy scritta. Da noi non tira, negli Stati Uniti va alla grande: c’è un professore di lettere che ha definito la stand-up comedy un genere letterario e la insegna così. E’ libera, racconta la realtà per come è sporca. Negli States sanno ridere di tutto in maniera intelligente, partendo dalle situazioni di vita quotidiana. Come ho provato a fare io”.

Perché il titolo “Non disturbare”?
“Siamo sempre in comunicazione 24 ore su 24, tra internet e WhatsApp. Non rimaniamo più da soli. Riceviamo milioni di input, tutti possono avere un’opinione e oggi manca un’intimità dell’opinione. Non sono obbligati a dirmela, invece lo fanno. Adoro una citazione di Palahniuk: “Quando ti chiedono come è andato il week-end è perché non vedono l’ora di raccontarti il loro week-end”.

Riflette il tuo modo d’essere?
“Amo stare in mezzo alla gente, la mia famiglia è numerosa e nel libro spuntano nonne e zie. Ma mi piace anche la solitudine in mezzo alle persone, senza uno scambio di parole. Si tratta di spazi vitali da difendere, si deve poter ritagliare la propria solitudine”.

E’ la posizione da cui guardi chi diventa protagonista dei tuoi racconti?
“Mi piace osservare quello che succede: entrare in una bar, vedere le persone, anche ascoltarle. Lo adoro. E poi mi piace passeggiare, ti dà la misura della realtà. Ti costruisci un’idea della gente e vedi le cose”.

Riveli una passione per i Testimoni di Geova…
“Ora mi scrivono quando al citofono si presentano i Testimoni di Geova. Non ho niente contro di loro ma mi fa ridere questo essere fuori del tempo, questa idea di convertire al citofono”.

E’ stato complicato il passaggio dal romanzo al racconto?
“Il romanzo è più vincolante nello sviluppo della trama, i racconti sono molto più liberi. A me sono sempre piaciuti i grandi classici: Hemingway, Dostoevskij, Bukowski. In loro è presente un’ironia di fondo, la mia è più cinica, quella che maggiormente si addice ai pezzetti di vita di “Non disturbare”.