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Mona – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

Mona – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

A volte non abbiamo bisogno che di parlare con qualcuno, soprattutto per essere ascoltati. Mona ha bisogno di parlare: è stanca, spossata, stremata, il lavoro e la guerra la abbattono, ogni giorno di più, ma lei resiste. E così parla con Mun. Mun è il nome del bue che porta al pascolo. O perlomeno Mun è il nome che Mona dà al bue quando, portandolo al pascolo, gli parla. Mun le vuole bene, si vede, o perlomeno è Mona a cui sembra di vedere ciò, che si sforza di capire i discorsi che lei gli fa, anche quando sono troppo impegnativi per lui, che è solo un povero bue, e le è così affezionato che quando lo vendono non vuole che nessun’altra persona al mondo lo conduca fuori dalla stalla se non Mona stessa. Mun è un bel ricordo per Mona, che ogni tanto si estrania da tutto ciò che la circonda e torna a parlare con Mun, a confidarsi con lui, anche se gli argomenti spesso sono inquieti come la sua anima. Mona, infatti, non ha tempo per riposarsi un attimo, intorno a lei brulica la frenesia di un ospedale in tempo di guerra, dove si urla per salvare vite o per il dolore: adesso, per esempio, Mona è da sola in mezzo agli strilli. Il medico di turno ha avuto una giornata impegnativa al fronte, non vuole svegliarlo (sì, è distrutto tanto da riuscire nonostante tutto a dormire), può cavarsela benissimo con le sue forze. La sua esperienza è tale che saprà certamente dare una mano a quel povero ragazzo amputato e disperato: legge il nome sulla targhetta del letto, Adam…

Lei ha scritto moltissimo, e con ogni probabilità, quantomeno è quello che tutti i suoi lettori certamente si augurano, continuerà a farlo, ma soprattutto hanno scritto moltissimo su di lei, in quanto è non solo fra le autrici più interessanti, originali, anche se dalla prosa ricca di riferimenti artistici e filmici, oltre che letterari, liriche, intense e particolari, ma anche fra le più premiate della Repubblica Ceca, nazione dalla tradizione letteraria di tutto rispetto, centrale per quel che concerne la cultura mitteleuropea ponte fra l’esperienza occidentale e i paesi che vivono ancora i retaggi della lunga appartenenza al grappolo di stati satelliti sovietici: Il lago è la sua opera certamente più nota, tradotta in molte lingue, ma Mona segna un punto di svolta nella produzione di Bianca Bellová. Si tratta infatti non solo di una riuscita allegoria del potere salvifico della parola, capace di valicare ogni ostacolo, ma è anche una riflessione sentita, composta, profonda e potente sull’abiezione della guerra, la violenza della dittatura, la fragilità dei rapporti umani, le conseguenze che ogni azione determina nella vita di ogni singolo individuo che la compie o la subisce e della collettività alla quale egli appartiene, la cognizione del dolore, il senso di straniamento che dà la sofferenza, la speranza generata dall’amore, in questo caso quello fra l’infermiera di un ospedale devastato da un conflitto e il soldato, adolescente o poco più, che arriva, col suo carico di paura e d’impudenza dovuta all’età acerba, gravemente ferito dal fronte.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/mona

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO

Nello studio, oltre, con ogni evidenza, alla laurea, risalta un’istantanea. Una foto in formato gigante, quasi a grandezza naturale, che lo ritrae giovane in divisa, per la precisione una di quelle da allievo ufficiale, in atteggiamento forzatamente militaresco, con tanto di stivali e spada. Spiccano gli occhi rotondi e le labbra carnose, marcate da punti angolosi decisi. Gli occhi del bambino che osserva l’immagine però si focalizzano su un oggetto intruso in quello studio di posa, che ha lo sfondo di una tela dipinta: un libriccino. Piccolo, quasi invisibile, spunta appena da dietro il tacco dello stivale, gettato in apparenza frettolosamente sul tappeto, forse scalciato verso il retro, per nasconderlo alla vista. Da bambino, quando guarda quella foto, il narratore sogna, o forse vede davvero, chissà che non sia così, la figura staccarsi dal fondo e avanzare verso di lui, a velocità impercettibile, come quella alla quale si muovono le lancette delle ore…

Il tempo del secondo dopoguerra è la mitologia dei tempi più recenti, un po’ come è stato il Risorgimento per diverse generazioni tempo addietro: è come se l’epoca del boom fosse ammantata di una sorta di aura di felicità, come se improvvisamente l’Italia fosse divenuta la terra promessa dove scorrevano latte e miele. Certo, i progressi, in ogni campo, dalle infrastrutture alla società, sono innegabili, e davvero per non trovare lavoro bisognava non aver voglia di farlo, ma gli avanzamenti sono pure minori di quanto avrebbero potuto essere, e se sono apparsi così sfavillanti è anche perché si partiva da una situazione di grande arretratezza, oltre che di orrore dittatoriale e bellico: gli anni Sessanta del Novecento, dunque, non sono quasi mai raccontati con toni meno che iperbolici ed entusiastici. Curti, classe ’43, torinese, laureato in fisica, docente di matematica, autore di poesie, racconti, gialli, testi drammaturgici, direttore di festival, teatri e compagnie, porta invece con mano sicura il lettore, per così dire, a visitare la faccia nascosta della luna, descrivendo lo smarrimento della generazione che ha fatto la guerra – in piena sintonia col tema primonovecentesco dell’alienazione dell’uomo moderno – rappresentata da un latinista di provincia piuttosto sfortunato e al tempo stesso lo sguardo dei figli, che non solo cominciano a vivere i primi palpiti del cuore, ma sempre più cercano la propria strada lontano dal solco tracciato da chi li ha preceduti.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.mangialibri.com/libri/quando-i-padri-camminavano-nel-vuoto