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Recensione di Malapace su «exlibris 2.0»

Recensione di Malapace su «exlibris 2.0»

di Federico Prezioni

Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace(Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.

Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.

Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza.
Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.

Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare. 

Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.

Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.

«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.

Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».

Boris Vian, chi era costui? La recensione di Stefano Fornaro per sulromanzo.it

Boris Vian, chi era costui? La recensione di Stefano Fornaro per sulromanzo.it

In una miscela narrativa giornalistica e radiofonica il cantautore, comico e scrittore rivitalizza uno dei geni più antitradizionalisti e anarcoidi della Francia del secondo dopo guerra.

Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés (Miraggi edizioni, 2018) è l’ultimo romanzo di Giangilberto Monti, cantautore italiano e poliedrico artista milanese: dalle recitazioni con Dario Fo e Franca Rame alle collaborazioni con i comici di Zelig, passando per le incisioni discografiche (Opinioni da clown – 2015 Egea/Warner) e concludendo una vasta attività con molti romanzi concentrati sulla storia della musica. D’altronde una passione centrale lui ce l’ha: la canzone francese del secondo dopo guerra, ovvero gli chansonnier parigini. Così come conserva perfettamente intatta da quel 1995 (Boris Vian-Le Canzoni – Marcos y Marcos edizioni) la sua ossessione: Boris Vian. Per l’appunto. Ma chi era Boris Vian?

Come ammette nelle ultime righe del libro lo stesso Giangilberto, Boris Vian è uno dei più grandi talenti artistici incompresi o stroncati dalla critica letteraria e musicale transalpina.

Questo libro si carica sulle spalle l’enfasi di una passione energica per far riscoprire e per riattualizzare la figura di questo scrittore e cantautore parigino (Saint-Germain-des Prés è un quartiere della capitale) che stravolse le radici culturali della Francia novecentesca.

Copertina, quarta di copertina, impaginazione e testo scritto. Formalmente siamo davanti a un libro, ma in realtà siamo di fronte a un genere ibrido, originale e multidimensionale. Ispirato un po’ alle prestigiose firme della biografia latina (il pathos di Tito Livio e la profondità psicologica di Tacito), un po’ alla tecnica cinematografica di Orson Welles (alcuni aneddoti narrati dai conoscenti di Boris Vian ricordano le interviste sul miliardario Charles Forster Kane di Quarto Potere) e in parte all’intervista giornalistica odierna (più quella da rotocalco che di stampo politico), Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-dés-Pres è in tutto e per tutto un radiodramma (Non saprei… forse un radiodramma, così lo etichetta lo stesso giornalista reporter che indaga sul passato del poeta francese). Non sembra di leggere un libro, ma la partitura scritta di un programma radiofonico e in particolare un approfondimento culturale notturno. Fra interviste spezzate, dettagliati atti cronachistici (del narratore onnisciente in terza persona) e la presenza di testi originali e tradotti della canzone francese si crea una miscela narrativa ibrida e travolgente.

Giangilberto Monti presenta in toto il suo artista: i romanzi flop e quelli più conosciuti (su tutti L’Écume des Jours,1947); i testi teatrali sarcastici meno noti e il capolavoro Les bâtisseurs d’empire; le traduzioni dei romanzi inglesi; le sue poesie musicali e quelle più liriche; i racconti e i saggi sulla musica moderna; infine più di metà libro dedicato alla canzone antimilitarista e anticonformista sviluppata dal jazz francese in fusione con lo swing e il primo rock ’n’ roll.

Non bastano queste poche righe per disegnare l’immagine di un artista eclettico, anarcoide, pazzoide e dinamico, che rappresentava la briosità creativa dei jazzisti degli anni Cinquanta (quelli il cui background culturale era di essere stati degli zazou durante la seconda guerra mondiale) con i loro ritmi swing, jazz, animati e strampalati. Il fascino narrativo di questo libro è soprattutto nella prima parte, quando Boris Vian diventa a Parigi l’icona di un musicista, letterato e poeta (apprezzato e lodato da Jacques Prevert) capace di vivere fra il suo matrimonio, le belle donne, la musica nei locali e le nottate a base di alcol fino all’alba. Il perfetto ritratto di un moderno simbolista o surrealista e se il paragone non è dileggiante un archetipo di quello che diventeranno Jim Morrison, Janis Joplin e Jimmy Hendrix due decenni dopo.

Sono i ricordi agrodolci delle battute piccanti dell’ex moglie Michelle Leglise o le risposte seccanti delle collaboratrici passate della casa musicale del produttore Jacques Canetti a creare un quadro stratificato e pulsante: le notti passate alla macchina da scrivere; i litigi con gli editori; le polemiche dissennate fra artisti e imprenditori musicali; le feste e le esibizioni canore. Non solo del protagonista, ma di tutti gli amici e i colleghi che hanno creato il mito degli chansonnier e della loro vita artisticamente spumeggiante.

Nel corso del romanzo o meglio docu-romanzo, talvolta, può capitare che il dilungarsi su esordi amatoriali o gestazioni narrative/teatrali di secondo piano avviluppi il lettore in una noiosa “storiografia”, perfino pedante, ma il tono serioso, documentaristico e imparziale del giornalista che vaga per le rue parigine spesso cela l’animo da appassionato di Giangilberto Monti. La tecnica narrativa (l’uso in particolare della terza persona) non nasconde l’attrazione artistica smisurata dello scrittore. Lo si percepisce nel recupero dei giudizi positivi riportati su Boris Vian e nella conclusione appena velata che riconosce ben più di un merito alla sua figura musicale e letteraria.

Il libro è ben suddiviso in sequenze tematiche definite, ovvero per ogni genere ci sono uno o più capitoli, accompagnati da parti di interviste, ricordi vissuti e documentazioni biografiche. È questa una struttura narrativa che fa da contraltare a un difficile controllo della materia. Infatti spesso le alternanze fra interviste, narrazione e attualità (l’iter di ricerca del giornalista protagonista) non sono ben chiare e distinte, così come può un po’ confondere il bombardamento di informazioni sulle numerosissime figure attive del periodo in cui visse Boris Vian.

Alla fine da questa combinazione di generi emerge una scrittura lucida, ma non razionale, dettagliata, quasi chirurgica a tratti, che dà parola alle emozioni attraverso gli intervistati.

Pur senza le tecniche di sovraimpressione cinematografica, Giangilberto Monti con la sua scrittura riattualizza un mito internazionale (dice bene quando in fase conclusiva si afferma che Boris Vian non è a oggi molto conosciuto in Italia), a darne un’immagine simpatica e sfaccettata e infine a evidenziare la grandezza culturale, musicale, artistica e umana di un genio assoluto della scrittura provocatoria, esorbitante, parodica, umoristica e dissacrante.

Come il jazz anche questo romanzo è in grado di restare in uno stato melodico piano, lento e cadenzato e a un tratto di modificare il ritmo con un tempo di scrittura frenetico e saltellante.

Non si può non confrontare la personalità di Boris Vian con quella del cantautore italiano e nel dinamismo culturale di cui è protagonista quest’ultimo nei nostri decenni forse si lascia intravedere il desiderio di assomigliare alla personalità creativa dello chansonnier parigino.

Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés è l’apice di una costante e lodevole indagine e documentazione da parte del cantautore italiano. Personalità come quelle di Vian stregano, affascinano e non possono passare sotto traccia nella storia della cultura novecentesca. Se le scuole con i loro programmi troppo standardizzati non sono in grado di farlo, è una gran fortuna che ci siano scrittori odierni che si dispensino in questa attività di recupero del passato meno recente.

P.S.: è consigliabile accompagnare la lettura di questo libro con un ascolto coinvolto dei testi musicali proposti e adattati da Giangilberto Monti, perché solo in questo modo si coglie la parola geniale, intellettualmente ironica e musicalmente jazz di Boris Vian.