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PONTESCURO – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

PONTESCURO – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

Pontescuro è un ponte di pietra. Pontescuro è un paese della bassa padana. C’era una volta un fiume, due sponde unite da questo ponte che, all’epoca della sua costruzione, univa il nulla con il nulla. Poi, da una parte un castello del padrone e, dall’altra, il paese “della malora”.

Pontescuro, il bellissimo libro di Luca Ragagnin, pubblicato dalla sempre attenta Miraggi Edizioni, è un po’ storia, un po’ favola nera, un po’ leggenda. La nebbia avvolge ogni cosa in quel luogo. Sono gli anni ’20 del secolo scorso, anni di marce e violenze fasciste. Anni di paura e di rancori. In quel luogo dimenticato da Dio, ma non dal male, la giovane figlia del padrone, la sfacciata, libera, troppo libera, Dafne, viene trovata morta con un nastro rosso attorno al collo.

Attorno a questo fatto una storia corale, raccontata dai vari protagonisti ma anche dal fiume, dal ponte stesso, dalle blatte e dalle ghiande. Uomini e natura parlano una lingua che incanta ma che colpisce duro. E raccontano una storia, un ambiente in cui la cattiveria, il rancore, l’invidia, l’ipocrisia, avvolgono tutto, proprio come quella maledetta e insana nebbia che si infila nei polmoni, che taglia il respiro, che lascia il fiato corto della bugia, del non detto, del pettegolezzo usato per scaricare le responsabilità sempre su altri e altro.

Un mondo di male in cui ciò che non si conforma, ciò che provoca, ciò che non si sottrae allo scandalo diventa, inevitabilmente, colpevole. E poco importa che, in realtà, sia solo la proiezione dell’infamia altrui. Questa sarà dunque la sorte della giovane Dafne e di Ciaccio, bambino abbandonato sulla riva del fiume e poi divenuto lo scemo del villaggio. Un marchio che, se da una parte lo difenderà, dall’altra sarà la sua condanna, il pregiudizio che si porta addosso.

Luca Ragagnin (Foto da LuciaLibri.it)

In questo odore stantio di nebbia, umido, sussurri e sospetti, Dafne e Ciaccio saranno proprio i più puri, coloro che non rinunciano al godimento e che, proprio per questo, si porteranno addosso una lettera scarlatta. Il marchio di chi ha tolto la pace a un luogo e a una comunità che, invece, più che di pace viveva di omertà, di desideri repressi, di gelosie striscianti e di aspirazioni sepolte.

Sepolte in quella terra che, nel sottosuolo è più pulita e autentica di quanto sia in superfice, come raccontano le blatte che, nel sottosuolo e negli anfratti si devono nascondere per non morire.

Pontescuro è una metafora, una denuncia leggendaria e fantastica di un’epoca e di una mentalità, di una violenza e di un regime che si preparava a distruggere, nascondere e colpevolizzare tutto ciò che poteva essere vita, gioia, ribellione, provocazione e sessualità. E il ponte è l’emblema di qualcosa che non si può e non si deve attraversare, pena scoprire che non vi è nulla di cui avere paura se non la scoperta di avere accettato un interdetto inutile, strumentale.

Pontescuro è il racconto di un mondo malato, di un mondo (e un’epoca) in cui non ci si preoccupa neanche di imbiancare i sepolcri marci di dentro perché lo stesso marciume è talmente evidente da non essere nemmeno più percepito come tale. E, per questo motivo, trova un colpevole di comodo per continuare a marcire in pace, tra menzogne e ipocrisia.

È bello, è bello davvero questo libro. Perché fa ciò che dovrebbe fare la letteratura: interrogare e non lasciare, in fondo, che vi sia certezza di speranza e redenzione.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lottavo.it/2020/07/pontescuro-la-spoon-river-della-bassa-padana/?fbclid=IwAR2ZzJQgsyP7-AjjFjF89OooRXcZLlQTwNfdhmVyRVl9ksCFzLsajqfmtfU
LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

La vita moltiplicata. Perché una vita non basta

Dieci racconti, dieci personaggi, dieci storie. In bilico tra realtà, sogno, inconscio. Questo è La vita moltiplicata di Simone Ghelli, pubblicato da Miraggi Edizioni. Un libro che suggerisce una riflessione a partire dal titolo in cui La vita e non Le vite sembra indicare una sottile linea rossa che fa da cifra di lettura e scrittura. Quasi ci fosse un legame tra le storie raccontate, talmente forte da diventare un unico canovaccio, un unico percorso. Seppure complesso e sfumato, come appunto la vita.

I dieci racconti, come i dieci protagonisti ci appaiono tutti alla disperata ricerca di una via di fuga. Dal presente, da un attuale che più che creare disagio sembra, semplicemente, non bastare a contenere tutto ciò di cui si compone un’esistenza. Ogni cosa in bilico tra passato e futuro, a sostenere un presente che fugge, che stritola, che inchioda, che imprigiona.

E allora la vita moltiplicata diventa, per ciascuno dei protagonisti, una sorta di riscatto, di resa, di sogno, di ricerca estrema di ciò che c’è di più estremo: l’identità. Ma anche la realtà. La domanda che ci arriva, in sottofondo, dalla lettura di ciascuno di questi racconti, potrebbe proprio essere questa: cos’è la realtà? Quella che viviamo e dentro la quale ci muoviamo, costretti dalle convenzioni, dai sottili equilibri (anche psichici) che costituiscono l’impalcatura di una costruzione fragile? Oppure la realtà è quella che ci costruiamo nei sogni, nell’immaginazione e nell’immaginario refrattario alle regole?

Simone Ghelli (Foto da giacomoverri.wordpress.com)

Ghelli è scrittore dalle potenti letture e questi racconti restituiscono quello che deve essere stato (e che presumibilmente ancora è) il suo percorso di lettore. E forse, azzardiamo, anche il suo percorso di “consumatore” di cinema. Perché c’è molto di cinematografico in queste pagine. Non nel ritmo, non nella dinamica ma, certo, nell’uso forte delle immagini. Sì, perché i protagonisti di queste storie noi lettori ci troviamo a seguirli quasi come su uno schermo. Che è quello che costituisce un confine fisico in cui le cose più interessanti avvengono oltre esso, oltre quello spazio, dove apparentemente non si vede più nulla ma dove succede tutto. Tutto quello che sappiamo immaginare.

Che è un po’ quello che avviene nella vita dei vari protagonisti dei racconti, ciascuno dei quali viene dal lettore salutato sulla soglia di qualcosa. Perché ciascun racconto si conclude senza finire. In un moltiplicarsi di ipotesi, di sviluppi, di proseguimenti.

La vita moltiplicata è un atto d’amore, soprattutto, verso la letteratura e la scrittura, verso il loro potere di scrivere ciò che ancora non esiste e che non è mai esistito ma che, proprio per questo, è tutto ciò che davvero, forse, possiamo chiamare realtà.

Un libro molto più complesso di quanto possa apparire ad una prima lettura, sorretto da una scrittura la cui semplicità si avverte essere frutto di un lungo lavorio. Che è esattamente il contrario dello spontaneismo. Non vi è nulla di spontaneo in questi racconti. Semmai qualcosa quasi di automatico, come se l’autore si fosse lasciato andare ad un flusso incontenibile, come se si fosse messo accanto ai suoi personaggi, ascoltandoli, come uno psicoanalista con i suoi pazienti. Solo che qui non c’è nessun paziente perché il disagio o l’incapacità di farsi bastare la vita che manifestano i personaggi non è patologico, anzi. È la più vitale delle rivolte a tutto ciò che vuole ridurre la vita a qualcosa di razionale e senza sfumature e stonature.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lottavo.it/2020/06/la-vita-moltiplicata-perche-una-vita-non-basta/

IL LAGO – recensione di Geraldine Meyer su l’Ottavo

IL LAGO – recensione di Geraldine Meyer su l’Ottavo

Nami vive in un piccolo paese fatto di case che si affacciano su un’unica via chiamata Via dei pescatori. Boros è il nome del paese affacciato su un lago attorno a cui gira tutta la vita, reale e leggendaria. Un allevamento di storioni e una piccola fabbrica in cui si lavora il pesce. In lontananza le ombre scure di pozzi petroliferi che sembrano fare da contrasto all’unico chioschetto del paese in cui si vendono aringhe e semi di girasole. Nella piazza la statua dello Statista.

In questo scenario defilato cresce Nami, insieme ai nonni. Del padre non si sa nulla e della madre, il ragazzino, conserva l’indelebile ricordo di un’ombra rivestita da un costume da bagno e una voce che, in riva al lago, lo consola dal suo dolore allo stomaco. È un ricordo vago ma che prende, nell’animo del ragazzo, il posto del vuoto lasciato, mentre si addormenta sul ventre della nonna che gli racconta le storie dello Spirito del Lago e dell’Orda d’Oro i cui guerrieri aspettano di essere risvegliati da un altro guerriero. E mentre il lago si prende anche i nonni Nami comprende la durezza della vita, le ferite e le cicatrici di troppi strappi. Cresce lui mentre il lago si svuota sempre più. E in questo speculare procedere, lui parte alla ricerca di sua madre, tra incontri, dolori, fatiche e la “colpa” dell’essere chiamato figlio di puttana. Fono a un epilogo tanto bello quanto doloroso.

Il lago, di Bianca Bellova, tradotto in quindici lingue e vincitore di due importanti premi come il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera, nella bellissima traduzione di Laura Angeloni, ci si presenta quasi come un libro a più livelli in cui, a quello della ricerca della verità da parte di Nami, si affianca quello simbolico ma anche quello di denuncia verso un sistema che sfrutta e uccide il lago il cui spirito sembra essere ridotto a fango e inquinamento e denuncia verso un potere politico assoluto e violento.

Bianca Bellova (Foto da miraggiedizioni.it)

Ma è anche un libro in cui, alla conclusione, si inserisce l’accettazione delle vite altrui, la sospensione del giudizio, da parte di Nami, non tanto su chi fossero i suoi genitori ma sul perché abbiano fatto ciò che hanno fatto. Nami, nei momenti davvero importanti per il suo percorso, non è solo. E questo, credo, è uno dei motivi su cui mi sembra insistere la Bellova: la vecchia Dama che gli dirà che sua madre è viva e l’anziano genitore del ragazzo accusato, diciotto anni prima, di avere violentato sua madre, sono lì a dirci che un punto di domanda (da cui parte necessariamente una ricerca) può, girandosi a gambe all’aria, diventare un gancio.

Attorno a tutto questo un lago, il lago (con un articolo determinativo non casuale) che è un immaginario collettivo attorno a cui c’è la vita ma anche la morte, soprattutto quando inferta per placare uno spirito che sembra quasi una enorme nemesi, e dentro il quale ci sono fantasmi ma anche oggetti e corpi pronti ad essere restituiti. Tutto sorretto da una scrittura dentro la quale l’autrice sparisce per lasciare posto e attenzione alla storia, alle voci e ai sussurri dei protagonisti.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: