La vita moltiplicata – recensione di Riccardo Meozzi su Il loggione letterario
Quant’è difficile fuggire: qualche parola su La vita moltiplicata di Simone Ghelli
Tutti i pensieri rimasti, e i sentimenti, e le frasi ancora da dire; tutto questo e altro ancora si era riversato a terra: un minestrone in cui galleggiavano come zattere parole di tutte le dimensioni. Alcune erano in parte mangiate, e lasciavano scoperto il bianco delle ossa; altre erano molli e intrise di sangue come interiora.
Dal racconto “Vera”.
Un libro è un oggetto strano: esiste nel mondo materiale attraverso la soglia fisica della sua forma, ma al suo interno la realtà è diversa dalla nostra. Se decidiamo di entrare, il minimo che possiamo aspettarci è dunque il contatto con una narrazione che non ci appartiene. Ma se, come in questo caso, all’interno dell’oggetto fisico vi sono racconti, ciò che subiamo leggendo è una rifrazione totale, una scomposizione attraverso uno spettro che cambia a ogni titolo.
I racconti di La vita moltiplicata compiono proprio una rifrazione continua: si muovono, in modo più o meno dichiarato, sulla soglia che separa realtà e visione. Il problema critico di questa raccolta risiede però non su questo confine, ma su individui annebbiati che, all’improvviso lucidi, osservano la realtà andare in frantumi. Il punto di vista dei personaggi del libro di Simone Ghelli è spesso disilluso e freddo, emotivamente distante dagli eventi in cui sono coinvolti. Questo stesso punto di vista è adottato anche a livello narratologico: la narrazione infatti si compie a una distanza di controllo che non può ferire i lettori e, nei pochi casi in cui gli eventi vengono raccontati nel loro svolgersi, come in “Vera” o in “Compito di realtà”, l’impatto traumatico dei fatti viene subito ammorbidito da un uso inoppugnabile della lingua. La cornetta del telefono in “Vera”, ad esempio, diventa lo sfrigolio degli ultimi resti carbonizzati di un pezzo di carne.
La prospettiva tematica adottata dall’autore si concentra sulle realtà abbandonate, a volte ricordate, che hanno bisogno dello sforzo del soggetto per esistere. I suoi personaggi sono macchine narrative ben costruite il cui scopo è di rielaborare costantemente quello che gli è successo o quello che gli sta succedendo; sono, nella loro laconicità, osservatori attenti che non danno nulla per scontato in ciò che vedono. Ghelli, gli sforzi che i suoi personaggi fanno per mantenersi attaccati alla realtà sensibile, li descrive con maestria proprio dimostrandone la futilità. Comprendiamo, leggendo le pagine di questa raccolta, che l’unica realtà davvero esistente è quella raccontata; fuori, il nulla.
I personaggi di Ghelli godono, inoltre, di una forte dimensione purgatoriale. Si muovono, ma soltanto nelle loro teste, avanti e indietro nel tempo e nello spazio: hanno qualcosa in comune con i personaggi di Silenzio in Emilia di Daniele Benati.
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