Un romanzo di idee di attualità stringente: Malapace (Miraggi edizioni, 2023) di Francesca Veltri. Tra la Prima guerra mondiale e gli ultimi giorni del regime di Vichy, il romanzo segue un gruppo di amici le cui vite s’intrecciano con le vicende più ampie della Francia di quegli anni. Dalla prigione alleata in cui si trova nel 1944, perché accusato di aver collaborato con il Ministero della Propaganda di Vichy, François – protagonista e voce narrante – ripercorre in flashback vent’anni di esperienze personali e collettive. La storia narra con dolorosa lucidità la decisione di assoluto pacifismo presa da François dopo la morte del padre al fronte nella I guerra mondiale, l’incontro con Martine – figlia di un maestro ebreo socialista –, il legame con Jean-Pierre e il sogno del comunismo, fino alle disillusioni del socialismo reale sovietico. François racconta la propria scelta consapevole ma alla fine sbagliata, l’adesione al Male nel tentativo di perseguire il Bene, mentre il volto di Antoine – recluso nella stessa prigione per crimini di guerra e amico d’infanzia diventato nazista convinto – diventa lo specchio crudele che gli rimanda l’eco di una colpa che partita da fronti opposti li ha portati allo stesso punto di arrivo.
Francesca Veltri (1976) si è diplomata in Studi Filosofici alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha studiato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e l’École Normale Supérieure di Parigi ed è docente presso l’Università della Calabria. Autrice di saggi, studiosa di Simone Weil, Malapace è il suo secondo romanzo.
Domanda. La pace e il pacifismo attraversano in questi tempi ogni dibattito e ogni posizione lacerando i partiti, le organizzazioni, le amicizie come non mai. Il tuo romanzo Malapace fin dal titolo va al cuore del problema…
Risposta. ‘Malapace’ è quella pace che diventa il suo contrario, ossia un oggetto di conflitto; a parte i fanatici della ‘guerra sola igiene del mondo’, è difatti quasi scontato essere a favore della pace. Ciò che invece non è scontato – soprattutto in alcuni periodi – è a favore di quale pace essere. I pacifisti europei che spinsero i loro governi, tra cui quello socialista di Léon Blum, a negare l’aiuto militare alla Repubblica spagnola attaccata dai franchisti, speravano di evitare in questo modo l’insorgere di una nuova guerra mondiale. Scelta che li separò da molti dei loro compagni, e che segnò l’inizio di una serie di dilemmi culminanti nei Patti di Monaco del 1938. Sembra strano dirlo ora, ma quando ho finito il romanzo era il 2019. Prima della pandemia, prima dell’invasione dell’Ucraina. Praticamente in un altro mondo. L’ultima volta in cui questioni simili erano arrivate a scuotere l’Europa era stato in Bosnia, negli anni Novanta. Per certi versi, mi rendo conto che proprio questo mi ha permesso di scrivere il romanzo. Se non l’avessi fatto allora, oggi sarei stata troppo coinvolta emotivamente per riuscirci. Avevo bisogno di guardare dall’esterno a quel dilemma, un dilemma tragico perché le ragioni messe in campo da un lato e dall’altro partivano paradossalmente da valori comuni, condivisi. Entrare in conflitto con chi la pensa all’opposto è naturale; farlo con chi è stato tuo compagno ed amico è molto più duro e doloroso. E, una volta che la lotta è finita, è più semplice confrontarsi con chi è stato a tutti gli effetti il nemico, che non con le persone un tempo amate e poi perdute, come accade al protagonista di Malapace.
D. Quando oggi si parla di pace e si elogia la diserzione si pensa per lo più alla Prima guerra mondiale, mentre la Seconda guerra anche per i più convinti pacifisti è invece letta all’insegna della resistenza che va da sé è armata. Il protagonista del tuo romanzo François, la cui intera vita ruota attorno alla scelta del pacifismo è stato storicamente una eccezione?
R. No, non è stato un’eccezione. Come lui ce ne sono stati tanti, ed è proprio questo che mi ha colpito e mi ha fatto venire voglia di raccontarne la storia, che ho scoperto quasi per caso, mentre studiavo per la tesi di dottorato nelle biblioteche di Parigi. L’argomento della mia tesi era il rapporto tra la sinistra francese e l’Unione Sovietica tra gli anni Venti e Trenta. Al momento di predisporre le note biografiche, mi sorprese vedere come molti militanti comunisti o socialisti, nel dopoguerra, fossero stati condannati per aver collaborato con la Repubblica di Vichy. Avevo letto i loro articoli, i loro scambi epistolari, e sapevo che avevano dei valori opposti rispetto a quelli del nazismo; com’era stata possibile una cosa del genere? Sono arrivata così a immergermi nella profonda lacerazione del pacifismo francese, diviso tra chi collaborò con Pétain e chi si schierò con De Gaulle. Parliamo della generazione che aveva visto i propri padri morire nelle trincee della Grande Guerra o tornare sfigurati e invalidi, e per la quale non c’era male peggiore che tornare a combattere. Alcuni tuttavia fecero questa scelta, altri preferirono il compromesso con il nemico, nell’idea che ciò avrebbe preservato più vite umane. C’è anche chi, come Simone Weil, fu pacifista assoluta fino al 1939, per poi aderire al governo gollista in esilio a Londra, che combatteva insieme alle forze alleate.
D. “Il Satana del nostro tempo recita la parte dell’umanista e ha un unico desiderio: salvare il mondo.” Lo scrive I. B. Singer nella sua raccolta di saggi intitolata A che cosa serve la letteratura (Adelphi, 2024). Sei d’accordo?
R. Amo molto i romanzi di Singer, ma non avendo letto il saggio mi è difficile contestualizzare la frase. Se dovessi prenderla in senso del tutto astratto, mi verrebbe da dire che Satana, se esiste, compie il male convinto che sia appunto un male, mentre gli esseri umani generalmente commettono le azioni più atroci nell’idea che esse siano necessarie a un bene superiore, e questo non solo nel nostro tempo, ma da sempre. Che ciò nasconda spesso anche interessi personali è senz’altro vero, ma di fondo anche Hitler o Himmler probabilmente erano convinti di salvare il mondo. Alessandro Manzoni diceva che è più facile fermare l’arma di un nemico che il ferro di un chirurgo: quando gli esseri umani si vedono come chirurghi, è forse allora che sono più pericolosi.
D. Infatti, la cosa che più colpisce nel tuo romanzo è che i personaggi sono mossi dalle più sincere convinzioni e non da trasformismo o dall’interesse personale. Anche Antoine, il compagno di cella di François, nazista convinto e torturatore è onesto con se stesso in relazione alle proprie convinzioni e anzi mette François dolorosamente davanti all’ipocrisia delle sue scelte.
R. Vero. Volevo capire – non giustificare, ma piuttosto, spinozianamente, capire – il punto di vista ‘dell’altra parte’ quella di chi si era trovato a collaborare con i nazisti non perché era il minore dei mali, ma per una decisione ideologica precisa. Il confronto/scontro tra François e Antoine mette in scena due persone di cui una è lacerata dai dubbi, l’altra invece resta fanaticamente attaccata alle proprie convinzioni. Antoine – il nazista – non si pente di ciò che ha fatto, soffre solo per il fatto di essere stato sconfitto. François – il pacifista – rifiuta di trovarsi dalla stessa parte di qualcuno che aderisce a un ideale per lui abietto, eppure è proprio lì che le sue scelte lo hanno portato…
D. In Malapace l’amicizia mi pare molto più importante dell’amore, è così?
R. Direi che dipende dai personaggi. In generale, penso che l’amicizia possa avere un’intensità paragonabile all’amore, pur essendo un sentimento molto diverso. In particolare, il protagonista ha bisogno di sentirsi amato, che sia da un amico o da un amante, ma anche dai compagni di lotta, dalla sua famiglia, eppure li vede allontanarsi tutti, uno per uno, a causa di scelte che la sua morale lo spinge a fare, e che lo condurranno tragicamente a risultati opposti rispetto a quelli che avrebbe voluto ottenere.
D. Al tuo protagonista non risparmi nulla, deve fare i conti anche con il privilegio che non è cosa che ci si scrolla di dosso con un puro atto di volontà…
R. Questo è qualcosa che ho in comune con lui. Spesso mi sono percepita – ed effettivamente sono stata – privilegiata per il contesto in cui sono cresciuta, a livello materiale, culturale e anche morale; quindi capisco il senso di colpa che agita François per qualcosa che non ha commesso, ma che gli è toccato per sorte, e a cui cerca inutilmente di sottrarsi.
D. Malapace è un romanzo in cui la storia delle persone si confronta con la Storia eppure i personaggi non sono dei semplici ‘portatori’ di ideologie, ma, al contrario sono molto dolorosamente lacerati. E mi pare che tu da una parte con nettezza porti fino in fondo la critica alle ideologie e le scelte conseguenti ma dall’altra non infierisci sulle persone di per sé.
R. Non potrei e non vorrei farlo. Per le mie convinzioni morali mi è facile condannare determinati atti e stigmatizzarli insieme alle terribili conseguenze che hanno avuto, ma resta il fatto che non posso sapere che scelte avrei fatto io, se mi fossi trovata nelle stesse condizioni dei personaggi. Non posso saperlo, anche se con il senno del poi è molto evidente quale fosse la parte giusta e quella sbagliata; posso solo augurarmi che avrei scelto l’una piuttosto che l’altra, ma non ne ho la certezza. C’è un’immagine che spesso mi torna in mente, la foto di una manifestazione nazista dove in mezzo a una folla di gente con il braccio alzato ce n’è uno solo che tiene le braccia strette al petto. Tutti noi oggi vorremmo essere stati quell’uno, ma chi può garantircelo?
D. Prima di Malapace hai pubblicato Edipo a Berlino (Divergenze, 2019) in cui il protagonista durante la notte dei cristalli nel 1938 a Berlino, uccide brutalmente un ebreo salvo scoprire poi di essere lui stesso di origine ebraica. Ce ne parli un po’? Perché questo titolo quando nel romanzo non c’è traccia del ‘complesso di Edipo’ freudiano che tutti conoscono?
R. Per fare una battuta, si potrebbe dire che la colpa è di Freud… la cui teoria sul complesso edipico è diventata assai più celebre della tragedia greca cui quel complesso si è ispirato. Nella tragedia di Sofocle, Edipo uccide suo padre e sposa sua madre perché non sa chi sia l’uno e chi sia l’altra; l’intera opera verte sul tema dell’inconsapevolezza umana, che può rivelarsi la peggiore delle maledizioni. Basta infatti che cambi la prospettiva, e le stesse azioni che avevano reso Edipo un uomo rispettato e addirittura un sovrano, lo trasformano in un paria, un reietto, agli occhi propri prima che degli altri. Questo è un po’ il nocciolo sia del mio primo romanzo, Edipo a Berlino, sia di Malapace; l’idea che le stesse azioni considerate giuste agli occhi di chi le ha commesse, possano per un gioco del destino venir percepite come sbagliate e riprovevoli. Edipo a Berlino non narra solo il trauma di scoprire un’identità diversa da quella che si era creduta la propria (grazie al sistema nazista di identificazione, furono in molti a ritrovarsi ebrei senza essersi mai considerati tali), ma anche il progressivo staccarsi da un sistema di norme e valori che gradualmente assumono un aspetto diverso, e addirittura opposto a quello che all’inizio gli era stato attribuito. Un dilemma simile lo vive François, che si ritrova a venir condannato come collaborazionista dei nazisti pur avendo sempre avversato quel tipo di ideologia.
D. Infine, hai una formazione filosofica e storica, sei una docente di sociologia perché hai deciso di scrivere romanzi?
R. Da sempre mi appassiona leggere saggi di storia o di filosofia e sociologia, e ne ho anche scritti, a partire da studi e ricerche; quando invece leggo o scrivo di narrativa, a incuriosirmi è un punto di vista più individualizzato, più interno alle persone che quelle storie e quelle società le hanno vissute. Un punto di vista più microscopico, forse, e anche più libero nell’analizzare le tante sfaccettature dell’esperienza umana.
di Alessandro Catalano, professore di Letteratura ceca presso l’Università di Padova e socio di Memorial Italia
La scrittrice ceca a Huffpost: «Noi che siamo nati nell’est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo”… “Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte».
La scrittrice Radka Denemarková rappresenta una delle voci più originali e provocatorie della letteratura ceca, ha vinto numerosi premi ed è un’intellettuale con grande visibilità nell’ambiente culturale tedesco. In italiano sono stati tradotti i romanzi I soldi di Hitler, sul complesso processo di denazificazione seguito alla Seconda guerra mondiale dal punto di vista di una ragazza sia ebrea che tedesca (Keller 2012), e Contributo alla storia della gioia, sulla dilagante violazione del corpo femminile nella storia (Sovera 2018, entrambi tradotti da Angela Zavettieri). Poche settimane fa l’editore Miraggi ha pubblicato, nella brillante traduzione di Laura Angeloni, il monumentale romanzo Ore di piombo, che la scrittrice ha appena presentato a Torino, Parma e Firenze.
Da quando l’ho intervistata l’ultima volta per lo spazio di Memorial Italia sull’HuffPost, due anni e mezzo fa, sono successe molte cose. Vorrei affrontare con lei sia la ricezione del suo romanzo appena tradotto in italiano, Ore di piombo, sia la situazione politica internazionale. Partirei da quando è stata invitata a inaugurare il festival Pordenonelegge, dove ha dialogato con la scrittrice Silvia Avallone. In una sera caratterizzata da una bella partecipazione di un pubblico caloroso, non sono mancate le polemiche da parte del sindaco della città, Alessandro Ciriani, che ha usato parole forti: “Ho assistito a una serie di luoghi comuni triti e ritriti di un vecchio femminismo che non esiste più”. Perché le sue parole provocano spesso questo tipo di reazioni?
Credo che molti esponenti politici odierni non siano più abituati al fatto che gli scrittori violino lo spazio della politica, la percepiscono come un’invasione. Ma non dobbiamo dimenticare che gli scrittori si sono sempre espressi sul mondo, fornendo spesso una prospettiva nuova e diversa, e sono persuasa che dobbiamo continuare a difendere la nostra autonomia e a dire quello che pensiamo. La politica è in fondo solo un servizio, anche se molti credono di essere immuni dal controllo della società. Io sono una scrittrice e una cittadina, e il XX secolo ci ha insegnato che il diritto di criticare è importantissimo. Un diritto che da una parte fa paura, ma dall’altra costituisce la nostra grande forza. Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma allo stesso tempo è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte. Ricordo bene l’appassionata reazione del pubblico a Pordenone. Ecco, quello che mi sta più a cuore è ricevere il sostegno di chi ascolta. Credo che sia oggi molto importante dare voce a chi non ha la possibilità di manifestare pubblicamente le proprie idee, a chi non può rischiare. E credo che di questo tipo di coraggio avremo sempre più bisogno.
Lei ha più volte richiamato l’attenzione sul persistere di una cultura patriarcale anche in contesti dove stentiamo a riconoscerla, ad esempio tra i dissidenti. Quanto c’entra il fatto di essere donna?
Sì, naturalmente le cose non erano affatto diverse neanche nella dissidenza. Se pensiamo ai dissidenti in Cecoslovacchia, ci vengono in mente i nomi di Václav Havel, o di Milan Kundera, sempre di uomini si tratta. Anche se a nessuno piace sentirlo, il mondo odierno è dominato ancora da un pensiero patriarcale, solo gli uomini vengono presi sul serio. Se le stesse frasi le pronuncia una donna, hanno minor peso.
In questi giorni lei è in Italia per presentare il romanzo Ore di piombo, uscito in ceco nel 2018. In questi sei anni trascorsi, secondo lei è cambiato qualcosa di essenziale nel modo in cui possiamo leggere questo romanzo, in buona parte ambientato in Cina?
Quando il romanzo è uscito, poteva paradossalmente suonare come un avvertimento. Oggi invece alcuni degli argomenti affrontati sono realtà. Viene quindi spesso letto come un romanzo che contribuisce a svelare i meccanismi del nuovo potere. Il mio intento era quello di mettere in guardia contro un nuovo tipo di totalitarismo. Molti erano convinti che un’economia che funziona porta automaticamente al benessere. Ma quando il governo è monopartitico, l’economia non fa che rafforzarne il potere. Avendo trascorso molti mesi in Cina, ho constatato con orrore quanti europei hanno sostituito i nostri valori con il denaro, allineandosi cioè al modus operandi degli oligarchi di tutto il mondo. E non parlo solo di Trump e Putin, il discorso può essere esteso anche altrove, generando un sistema che sfugge a tutti gli strumenti di controllo della democrazia.
In diversi punti del romanzo mi sembra anche di percepire una forte critica, o se preferisce, un avvertimento, nei confronti della tecnologia, o meglio del mondo virtuale.
Sì, volevo in effetti mostrare quanto la tecnologia sia ormai onnipresente nelle nostre vite, cosa di cui soltanto adesso cominciamo a renderci pienamente conto. In internet si sono ormai formati dei veri e propri Stati, che nessuno controlla: Facebook, Meta, perfino il loro nome cambia di continuo. Per non parlare del fenomeno dell’intelligenza artificiale, con tutti problemi connessi. Sono realtà che non possono rimanere senza una forma di controllo. Pensiamo per esempio alle fake news: sono ormai talmente diffuse, che per il cittadino medio è difficile orientarsi; inoltre, creano il sostrato ideale per insabbiamenti di vario tipo, distolgono l’attenzione dai temi davvero importanti. Chi fa circolare menzogne dovrebbe essere punito, come del resto in molti paesi già viene punita la negazione della Shoah. In questo momento storico è fondamentale riaffermare il concetto di responsabilità.
Che troppo spesso è invece dimenticato proprio dalle alte sfere della politica…
Il problema è che abbiamo a che fare con individui che avanzano la pretesa di influenzare la politica mondiale, pur non essendo mai stati eletti. E penso alle immagini della “incoronazione” di Trump: in prima fila non c’erano di sicuro premi Nobel e artisti, ma individui che non dovrebbero avere nulla a che fare con la politica, visto che manifestano un aperto e profondo fastidio nei confronti della democrazia e hanno costruito veri e propri imperi sul verticismo, sul dominio assoluto. La politica dovrebbe occuparsi di organizzare la società così da garantire il benessere dei cittadini. Noi purtroppo avvertiamo il pericolo solo quando vediamo i fucili, ma il modo in cui questi individui influenzano la struttura sociale è molto più pericoloso di un fucile. Dovrebbero essere controllati con la massima attenzione e invece sono loro a controllare noi.
Eppure, dovremmo avere imparato la lezione…
Esatto, guardando al passato, rimaniamo sempre attoniti all’idea che una sola persona sia riuscita ad alterare così profondamente l’idea stessa di democrazia, ma quando una cosa analoga si verifica davanti ai nostri occhi, nemmeno ce ne accorgiamo. Il ruolo peggiore lo ricopre sempre la maggioranza silenziosa, spalleggiata da una lunga serie di utili idioti. In un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, non c’è via di fuga. C’è un gruppo ristretto di persone — e parlo di tutti gli oligarchi che proliferano ovunque, tutti con la stessa forma di narcisismo — che sembra aver preso il mondo per una sorta di giocattolo privato e si sente padrone del destino di interi paesi, più o meno piccoli. Se anche i grandi paesi cominciano ad agire nello stesso modo, allora è facile che scoppi una guerra, di solito contro gli stati più deboli. E sono guerre che non riguardano solo i paesi aggrediti.
È quello che è successo in Ucraina, per esempio?
Direi di sì, Putin a mio avviso non odia soltanto l’Ucraina, ma l’idea delle tradizioni democratiche in sé. E la sua forza è amplificata dalla debolezza dell’Europa. Sono discorsi che richiederebbero lunghe e dettagliate disquisizioni, ma non vorrei che si pensasse a Ore di piombo come a un trattato politico. I livelli di lettura del romanzo sono molti e diversificati.
Infatti, vorrei anche chiederle, a beneficio di chi non ha letto il romanzo, come si declina poi tutto questo sotto forma di opera narrativa.
Ore di piombo è un esperimento. Mi sono chiesta se fosse possibile rappresentare la complessità dell’epoca che stiamo vivendo attraverso una forma nuova. Io credo che solo il romanzo sia in grado di affrontare contemporaneamente un gran numero di aspetti diversi da diversi punti di vista. Come rappresentare, infatti, questo processo di disgregazione dei valori che coinvolge la società, la famiglia, l’individuo e, perché no, perfino l’anima? A differenza della storia, che fotografa e analizza gli avvenimenti, la letteratura può cogliere il mondo interiore dei personaggi e far emergere la percezione individuale della mentalità di un’epoca. La metafora dell’“ora di piombo” in quanto momento fatale nella vita dei personaggi, ma anche della società e persino dei paesi, funziona secondo me meglio di tanti saggi sull’argomento. Il mio è un romanzo a più voci, anche se ovviamente il lettore è spesso portato a identificarmi con il personaggio di Scrittrice. Ma lei non capisce il mondo che ha attorno spesso provoca con i suoi atti la rovina di chi la circonda, per esempio nel caso di Ragazza cinese. Ho poi voluto dilatare il tempo e lo spazio, contrapponendo all’incomprensibile agire umano il mondo animale, gli uccelli e due gatti, Arancio e Mansur. Soprattutto il primo, Arancio, è un gatto millenario, ha vissuto varie epoche e ha visto la storia ripetersi innumerevoli volte, dunque osserva tutto con indulgenza, con il suo caratteristico umorismo nero. Questa pluralità di prospettive sulla storia raccontata è una cosa che solo un romanzo è in grado di far emergere.
In Ore di piombo c’è poi un particolare lavoro sulla lingua…
La battaglia della vera letteratura, oggi, è combattuta con la lingua e per la lingua. Un romanzo scritto con una lingua debole, incerta, senza prese di posizione chiare, non è in grado di svelare alcunché sul mondo. Ogni mio libro ha una lingua e una forma diversa. È il mio tentativo di recuperare una lingua che abbia un significato reale, facendo sì che ognuno si assuma la responsabilità di ciò che afferma. Il lavoro sulla forma è complesso, i singoli capitoli del romanzo rappresentano dei mattoni con i quali ho edificato una cattedrale. Al tempo stesso ogni linea narrativa e ogni capitolo possono essere letti come storie a sé stanti. Ore di piombo rappresenta quindi un esperimento con la lingua e con la forma: mi piace ripetere che contiene in realtà cinque romanzi diversi, che può essere letto come un romanzo d’amore, un romanzo su un singolo personaggio, sulla Cina e sull’Europa, su cosa sta succedendo oggi alla famiglia e su cosa significa essere “non rieducabili”.
Volevo in effetti chiederle cosa significa per lei l’espressione “non rieducabile”, utilizzata spesso nel romanzo ed estendibile a molti episodi tragici del passato, basti pensare a una “donna non rieducabile” come Anna Politkovskaja.
I “non rieducabili” sono quelli che un tempo chiamavamo dissidenti, ma oggi la parola “dissidente” non basta più. Le nuove forme di totalitarismo esercitano un controllo così capillare sul singolo, che per loro non è sufficiente chiudere in prigione chi non si conforma. Il “non rieducabile” va eliminato in tutto e per tutto. Per questo, oggi, è estremamente importante non arrendersi.
Perché ha deciso di ambientare il romanzo proprio in Cina?
La Cina rappresenta una grande novità, in quanto ha sviluppato una nuova forma di totalitarismo che riunisce in sé il peggio del capitalismo e il peggio del comunismo. Pensi solo al totale silenzio sugli oppositori concreti. A suo tempo, quando Havel, il più famoso dissidente cecoslovacco, veniva arrestato, ne parlavano i giornali e le televisioni di tutti i paesi occidentali, insorgevano tutti i governi occidentali… Oggi in Cina spariscono spesso persone che all’estero sono del tutto sconosciute, quindi chi se ne preoccupa? È una forma di totalitarismo molto più efficace, che controlla i cittadini in modo feroce.
Non trova a suo modo curioso che, parlando della Cina, si continui a usare la parola “comunismo”?
Sì, senz’altro. Se definiamo oggi la Cina “comunista”, qual è il significato di questa parola? Il potere è una questione che riguarda i più ricchi, ovvero i capitalisti della peggior specie. La parola comunismo è stata completamente svuotata del suo significato. In un momento in cui l’unico valore sembra quello del denaro, dobbiamo tornare al vero valore delle parole, a partire da: che cos’è l’uomo?
La guerra in Ucraina ha cambiato qualcosa da questo punto di vista?
La guerra in Ucraina ha fatto emergere altri problemi della nostra epoca. Solo adesso ci rendiamo conto, per esempio, di quanto siano efficaci le guerre ibride e di quante persone abbiano assorbito la propaganda russa. Secondo me, comunque, alla base di tutto c’è un rovesciamento dei valori che fa sì che la vittima venga trasformata in colpevole. È per questo che è così facile rovesciare l’idea di chi sia il vero aggressore.
La Repubblica ceca che posizione ha assunto nei confronti della guerra in Ucraina?
Per fortuna la nostra politica ha assunto una posizione chiara, anche perché a Praga è stato tutto percepito in relazione al 1968 e ai vent’anni successivi, lasciando scarso adito a dubbi. Vari paesi dell’ex Europa dell’Est hanno ancora una conoscenza profonda della mentalità della Russia, convinta che ciò che le è appartenuto un tempo, le appartenga ancora… Ora, però, vediamo anche che alcuni paesi sono tornati ad assorbire forme di propaganda esplicita, basta pensare all’Ungheria. Il sogno di Putin non è scomparso, del resto, e mentre osserviamo la reazione coraggiosa dell’Ucraina discutendo nei nostri salotti, intanto lì si combatte. Ora la situazione politica mondiale sta cambiando, l’atteggiamento degli Stati Uniti è naturalmente essenziale, il che dimostra tra l’altro che basta un singolo narcisista per trasformare radicalmente tutto. Trump è fatto della stessa pasta e sarebbe disposto a sacrificare anche l’Europa intera. La guerra ha svelato anche a quali pericoli potremmo andare incontro, quali ore di piombo ci attendono. Se tutto è incentrato solo sull’economia, ogni rivendicazione riguarderà cose concrete, come hanno dimostrato la discussione sulle terre rare e la mentalità delle tante imprese che hanno fatto di tutto per aggirare le sanzioni. Purtroppo, pochi comprendono l’essenza della questione: in ballo non c’è solo qualche chilometro di un territorio lontano, ma siamo di fronte a un’epoca di rottura, in cui lo svuotamento dell’individuo è cosa reale. Il numero dei caduti rende necessario, dopo tre anni, fare blocco attorno all’Ucraina, altrimenti sarà troppo tardi e seguiranno altri casi simili: Groenlandia, Canada, Taiwan, Gaza etc.
Se lei dovesse ridefinire l’Europa, nei cui confronti in passato è stata più volte critica, descriverne i confini e ridisegnare le etichette che si continuano a usare (Occidentale, Orientale…), come la descriverebbe oggi?
Molti di questi termini hanno ancora senso perché riflettono un’eredità condivisa da diverse generazioni, ma oggi non mi pare abbiano più un valore reale. Solo un’Europa realmente attiva potrebbe funzionare, perché c’è un grande bisogno di ribadire i valori nei quali ci identifichiamo. Ma in vari paesi la situazione è palesemente problematica. I valori sono una cosa, l’eredità un’altra. Se pensiamo all’Est e all’Ovest di un tempo, all’eredità del nazismo prima e del comunismo poi, e confrontiamo tutto questo con i recenti risultati politici, capiamo bene che fare i conti con i totalitarismi è un processo molto complesso. Questo dovrebbe anche insegnarci a riflettere sul futuro, mentre purtroppo continuano a prevalere, da una parte, una sorta di arroganza dell’Ovest e, dall’altra, una specie di senso di inferiorità dell’Est. Sarebbe necessario superarle e invece abbiamo sottovalutato molte cose. Rispetto all’occidente, in cui si pensava che tutto si potesse risolvere con le sanzioni, noi che siamo nati nell’Est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me, in quanto scrittrice, è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo.
E cosa può fare oggi la letteratura?
Si è parlato tanto di crisi del libro e naturalmente ho percepito anch’io gli ultimi anni come una crisi senza precedenti. Ma poi mi sono resa conto di quanto io stessa senta il bisogno della letteratura. In epoche simili, quando è in agguato una crisi di tale portata, le persone riscoprono la propria natura animale e si sforzano di comprenderne la ragione. Ho l’impressione che in alcuni paesi questo si stia già verificando. Nel mondo arabo, ad esempio, i cittadini assediati trovano un momento di aggregazione proprio attorno alla letteratura, che funziona come una sorta di oasi. Può sembrare assurdo, ma non mi stupisce che in tempo di guerra la gente si incontrasse proprio per leggere poesie, per non cadere in depressione: per questo si scriveva anche nei campi di concentramento. Tutte le proprie energie venivano riversate in un’attività come la scrittura. Io non ho mai creduto al fatto che si legge sempre meno. In fondo, se guardiamo la storia, la lettura non è mai stata un’attività chissà quanto diffusa. La letteratura ha il potere di salvare le persone, così è stato anche in passato. Anche se si tratta degli ultimi sopravvissuti, di un piccolo gruppo, molto distante dalle grandi masse, è comunque importantissimo. Magari ora potremmo sembrare dei paladini delle cause perse, guidati da un idealismo inutile e fastidioso, ma facciamo comunque parte di una lunga catena. Anche in passato ci sono stati scrittori che hanno pagato: sono rimasti incompresi, si sono suicidati, hanno bruciato i loro manoscritti, sono morti. È quindi anche un modo per proseguire nella loro tradizione, nella tradizione della “vera letteratura”.
Ho l’impressione che per lei abbia un significato particolare questa idea di “vera letteratura”?
Sì, per me c’è una differenza essenziale tra “scrivere” e fare vera letteratura. Esistono tanti tipi di scrittori, ma non tutti sono disposti a rischiare, a seguire sentieri che non sono stati ancora battuti. È anche un’attività difficile perché in un’opera letteraria deve funzionare tutto, la forma, la lingua, la storia. Se un autore mette tutto sé stesso in un romanzo, i lettori se ne accorgono. Se ad esempio ripensiamo a Gita, la protagonista dei Soldi di Hitler, e al tema della Shoah, quanti libri kitsch, sentimentali, pieni di cliché sono stati scritti sull’argomento… Invece, gli autori che hanno davvero saputo fare i conti con sé stessi, Primo Levi, Imre Kertézs, Paul Celan, Jean Améry, lo hanno pagato sulla loro pelle. Si tratta di qualcosa che non è facile da definire, ma che avverto in modo molto forte. Pensi solo a quanti libri hanno enorme successo e due anni dopo non li ricorda più nessuno. Poi, certo, scrivere è anche una forma di narcisismo. Io, che ho avuto seri problemi finanziari e ho cresciuto da sola i miei figli, ho temuto spesso di dover cambiare modo di scrivere per vendere più copie. Per fortuna poi le cose sono andate in modo diverso.
A questo punto non posso fare a meno di chiederle cosa rende un romanzo durevole nel tempo?
Non è il tema che rende certi romanzi immortali, ma il fatto che riflettono un intero mondo. Le faccio due esempi molto diversi tra loro. Anna Karenina può essere letta in tanti modi, come una storia d’amore, una storia sul senso della famiglia, sull’infedeltà etc., ma se volete cogliere l’essenza della mentalità della Russia del XIX secolo, lì dentro c’è tutto. E questa è una forza che può avere solo un romanzo. L’uomo senza qualità riflette l’atmosfera di disgregazione della monarchia asburgica, e per coglierla Musil ha lavorato molto con la forma. Ma scrivere così comporta dei rischi. In Ore di piombo ho lavorato profondamente sulla forma, è un romanzo con tendenze liriche, riflessioni storiche, elementi saggistici, dialoghi con Confucio e Havel. E tante altre cose. Volevo verificare se oggi è possibile costruire un romanzo in questo modo. Io scrivo ogni mio romanzo come se fosse l’ultimo. E ritengo che riflettere sulla propria epoca significhi anche riflettere in termini di eternità. Funzionerà? Non lo sa nessuno. Ma è necessario provarci.
Alla luce di tutta la nostra conversazione, mi viene in mente una domanda finale, forse paradossale. Ma lei si sente una scrittrice ceca?
Io sono allergica a queste etichette, la letteratura italiana, la letteratura ceca etc. Per me esiste solo la vera letteratura. E sono convinta che in futuro la vera letteratura avrà un significato ancora più ampio, perché saremo investiti da un’alluvione di testi che riscriveranno la storia. L’intelligenza artificiale diventerà un’arma potente in mano a molti dilettanti. Ma dobbiamo imparare a conviverci: alcuni ambiti ne riceveranno un grosso aiuto, ma il pericolo c’è e non si può negare. Molti non si limiteranno a creare brevi video molto efficaci, ma anche testi più articolati in cui la verità e le menzogne saranno mescolate con sapienza. Solo la letteratura è in grado di raccontare i destini individuali e a illuminare la realtà da una prospettiva diversa, e ne abbiamo bisogno perché è un processo liberatorio. La fantasia ci aiuta a sviluppare il pensiero critico, attraverso cui decodificare la realtà.
Alessandro De Vito pubblica il libro fiume della poetessa e drammaturga Radka Denemarková scritto fra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum.
È tutta una questione di recupero di memorie. Poi però bisogna intendersi sul significato di ricordo e di memoria, e anche sull’uso del singolare o del plurale. Quello che adesso fa Alessandro De Vito, 53 anni, fondatore nel 2010 di Miraggi Edizioni, figlio di Antonio, pugliese, giornalista, e di Dana, maestra, ceca di Ostrava, allora ancora Cecoslovacchia, è figlio della volontà di riannodare la memoria perduta.
La dice così. E “La memoria perduta” potrebbe essere il titolo di un libro, il suo libro, se mai lo scriverà. Per ora pubblica quelli degli altri. E oggi ha sul tavolo l’ultima fatica-follia-avventura data alle stampe, definita «la nostra più grande impresa editoriale». Esce a metà di questa settimana: “Ore di piombo” di Radka Denemarková, poetessa, drammaturga, traduttrice, una delle intellettuali più ascoltate della Repubblica Ceca. Un libro fiume, anzi mare, anzi oceano: 928 pagine scritte in cinque anni tra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum. Tre anni ha impiegato per tradurlo Laura Angeloni, che ne parla come di un classico contemporaneo che passerà alla storia e confida di aver vissuto, mentre era dentro l’opera, quasi in un’altra dimensione.
E un’altra dimensione è quella della Cina raccontata dal libro: cultura, politica, tradizioni, contrasti. «L’autrice tenta di raccontare con tutta la forza espressiva della letteratura il nuovo secolo cinese – spiega De Vito – Descrivendo quella società, ci fa riflettere su come siamo noi. La protagonista è una scrittrice affascinata dalla Cina che incontra diversi personaggi dai nomi simbolici. Quando scopre che l’essenza di quel paese è nel pensiero di Confucio, compreso l’autoritarismo che unisce e omogenizza tutto, capisce molto di più i cliché, i vizi e le contraddizioni della vecchia Europa. Essendo una donna dell’Est, cioè una persona che ha recuperato la libertà da poco, ritrova in molti nostri atteggiamenti gli stessi modi autoritari e non umani di cui spesso accusiamo gli altri».
Un romanzo non tanto sulla Cina, ma con la Cina, che racconta di noi. Bisogna affrontarlo come quando ti attrezzi per un viaggio lontano, incline alle scoperte. «È una lettura impegnativa che apre a prospettive diverse. Non ti lascia accomodato nella tua comfort zone. Altrimenti che viaggio sarebbe? Tanto vale rimanere a casa». A questo libro, il ventiduesimo della collana di letteratura ceca, e in genere al lavoro di editore, che è uno in grado di ascoltare e far viaggiare per il mondo le storie degli altri, Alessandro De Vito è arrivato recuperando le tessere della memoria familiare. «È una storia articolata – spiega – Mio padre era figlio di un falegname emigrato a Torino, che in Puglia nel 1924 ha fondato una sezione del Partito Comunista. Mentre i miei nonni cechi erano borghesi e, prima, hanno subito l’invasione nazista e poi hanno vissuto sotto la dittatura comunista, quindi erano feroci anticomunisti. I miei si sono conosciuti in Bulgaria, sul Mar Nero. Si sono visti un paio di volte e nel 1969 si sono sposati. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un mese d’estate l’ho trascorso dai nonni a Ostrava. Ho smesso di andarci a vent’anni e ho perso completamente la lingua ceca».
Altri vent’anni sono passati prima che la recuperasse. «E accaduto verso il 2009, quando ho iniziato a interessarmi di letteratura». Prima ha fatto altro. Si è iscritto a Legge, ma presto finisce fuori corso. Dopo quattro anni molla gli studi e va a lavorare in un circolo Arci di Grugliasco, in cucina. Poi torna all’università, a Lettere però. E nel 2000 si laurea in Storia del cinema con una tesi sulle Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta. «È stato un primo recupero dell’identità ceca. Comunque, vado a lavorare in una cooperativa sociale. Solo dopo una decina d’anni, quando con gli amici Fabio Mendolicchio e Davide Reina già cercavamo di lavorare nel mondo editoriale e poi abbiamo deciso di fondare la nostra casa editrice, soltanto allora ho rimesso insieme le mie radici».
È così che nel 2016, alle collane di narrativa italiana e narrativa straniera, si affianca quella di narrativa ceca. Nel lavoro di editore. che consiste nel leggere, scegliere, curare storie e coltivare idee in forma di libri, De Vito ricompone il mosaico delle sue storie personali e delle sue geografie. Il modo in cui guida la casa editrice può essere riassunto da ciò che Radka Denemarková dice del suo romanzo: «Ho voluto metterci l’essenza di tutto ciò che sono riuscita a capire di questo mondo. Ma forse, soprattutto, ciò che non avevo capito». È così che si va avanti, a far libri e a vivere: si continua a ricercare.
Francesca Veltri (1978) è una scrittrice italiana e calabrese fondamentale per comprendere la complessità delle emozioni e delle idee che muovono uomini e donne in situazioni estreme. Professoressa associata presso l’Università della Calabria e Dottore in Scienze Politiche. Gli interessa osservare quell’umanità che si rivela in queste situazioni. Fammi vedere la umanitá, scrive la Veltri. Ci mostra crudamente come quella “carne” spirituale si confronta, si tormenta e si contorce continuamente di fronte a varie decisioni, principalmente politiche ed etiche. Il suo libro Malapace (2022) è stata candidato al Premio Strega, grande riconoscimento della letteratura italiana. È un libro crudo e commovente con un realismo che ci trattiene
Non amando scrivere del presente perché – indica – non riesce a occuparsi della propria cerania, nel 1944 si ritrova coinvolto nella fine della Seconda Guerra Mondiale. Approfondisce i dilemmi umani di Françoise, detenuta in un campo di prigionia istituito dagli Alleati. Questo prigioniero, che era stato membro del Partito socialista, che si appellava al pacificismo, divenne un sostenitore del governo filonazista di Vichy. Come uomini e donne che perseguono un’idea “nobile” possono finire per sostenere regimi totalitari. In quello stesso campo di prigionia arriva un amico Antoine, sostenitore del fascismo, torturatore. E in quell’incontro costruisce tra loro un profondo dilemma, dolore e mortificazione
Questo libro fa parte di una lunga carriera letteraria. Nel 2015 ha vinto la Giara d’Argento RAI con il romanzo Edipo a Berlino (2016/2019). Due anni dopo scrive con Paolo Ceri Il Movimento nella Rete. Storia e struttura del Movimento 5 stelle. Nel 2023, oltre ad essere candidato al Premio Strega, vince il Premio Muricello. Quest’anno si è qualificato secondo per il Premio Nabokov ed è stato finalista per il Premio Carver.
Quando finiamo questa intervista ci rendiamo conto che il fratello di Francesca vive a Quito e che avevamo intervistato anche la Segretaria della Cultura di quella città, Valeria Coronel. La vita è misteriosa. Francesca e Valeria parlano, senza conoscersi, degli stessi argomenti e drammi
“Malapace”, proposto al Premio Strega nel 2023, è un romanzo in cui i conflitti della Storia si intrecciano inestricabilmente ai conflitti interiori dei personaggi, con effetti laceranti, inflitti dalla lama delle loro convinzioni presenti e passate. Dopo la profonda ricerca che ti ha portato a dare vita a queste due opere, qual è, nella tua personale visione, la sostanza e il limite del pensiero ideologico? E quanto può incidere nell’esistenza di un essere umano
Provo a rispondere pensando al testo La prima radice di Simone Weil, dove l’autrice scrive che l’essere umano ha bisogno di appartenenza. Di appartenere a un paese, a una nazione, un partito, una chiesa, un universo di idee e di credenze. Se l’uomo resta solo, privo di un ambiente sociale e culturale che ne permetta lo sviluppo interiore, finirà per atrofizzarsi e cadere nel più sfrenato individualismo o nel ripiegamento in un sé privo di senso. Tuttavia, questa necessità di radici porta con sé il rischio opposto e complementare di veder annegare la propria coscienza individuale nell’identità collettiva; di aderire a un ‘noi’ opposto fisiologicamente a un ‘loro’. Di accettare in nome dell’appartenenza cose che la propria morale avrebbe altrimenti rifiutato. Ciò che spesso si sintetizza attraverso la celebre frase, messa in bocca a più autori: ‘right or wrong, my country (ma anche: my party, my church, ecc). Ho scelto di raccontare questo dilemma nei miei romanzi, perché la disperata ricerca di un equilibrio tra i due estremi, per quanto precario e incerto, è qualcosa che sento profondamente.
I tuoi personaggi – come il tuo stile di scrittura – sono vividi al punto da avere il sapore della realtà, nonostante vivano una guerra nata e conclusa in un secolo diverso dal nostro. Pensi che le dinamiche umane che si osservano in situazioni di violenza, conflitto, tortura siano rimaste identiche? Per ricrearle trai ispirazione dalla cronaca del presente e dall’osservazione empirica, o ti affidi principalmente alla ricerca storiografica
Ho scritto Malapace nel 2019, e – come dissi in occasione di una recente presentazione – se non l’avessi scritto allora, oggi forse non sarei riuscita a farlo. Perché il presente ha riportato all’improvviso alla ribalta i temi che lo attraversano, li ha resi una volta ancora scottanti, incandescenti. E, per come sono fatta, quando sono troppo immersa nel presente, mi è impossibile avere il distacco necessario a scriverne, a far parlarne i protagonisti come se fossero entità diverse da me. Però, allo stesso tempo, mi rendo conto che rileggere oggi quelle pagine mi aiuta a comprendere meglio ciò che sta accadendo attualmente nel mondo. Perché i conflitti, la violenza, le torture possono cambiare contesto, ma l’umanità resta la stessa, dall’epoca in cui Omero ha cantato nell’Iliade la guerra di Troia. Una volta ancora cito Simone Weil e il suo L’Iliade o il poema della forza, in cui l’autrice si richiama ai versi omerici per capire le atrocità del conflitto mondiale che sta vivendo: individui e collettività incarnano una spinta distruttiva che è un elemento integrante della natura umana. Come affrontarla, come tentare di contrapporsi ad essa, è qualcosa che ci riguarda oggi e che riguarderà anche, credo, tutte le generazioni che seguiranno.
Il tuo “Malapace” è occasione di spunti molteplici, quasi un pungolo per la coscienza del lettore, che si ritrova di fronte interrogativi eterni che toccano temi come la giustizia, l’umanità, il peso reale delle idee. Ѐ questa, per te, la funzione che la Letteratura dovrebbe avere nella situazione politica e sociale che l’Europa sta attraversando? C’è forse anche l’intento di prevenire il ripresentarsi della Storia
Elsa Morante ha scritto all’inizio degli anni Settanta La storia. Uno scandalo che dura da 10.000 anni. Mi ricollego a queste parole. Dura ancora oggi e durerà finché gli esseri umani saranno al mondo. In sincerità, non so dire se e quale possa essere un’attuale funzione politica e sociale della letteratura; personalmente, credo solo che sia importante sollevare dubbi, suscitare domande, indebolire sicurezze: poi tocca a ciascuno di noi fare i conti con se stesso per scegliere quale risposte gli si addicano di più. Rischiando di sbagliare, anche. La certezza di essere nel giusto è, per me, forse il pericolo più grande in cui l’essere umano può incorrere, eppure è così difficile farne a meno, per chiunque di noi. Anche e soprattutto per chi non se ne rende conto, come – almeno all’inizio – entrambi i protagonisti dei miei due romanzi.
Nella tua formazione ti sei trovata a contatto anche con la letteratura argentina o latinoamericana? Pensi che ci sia un rapporto forte o un dialogo tra letteratura italiana e latinoamericana?
Da adolescente ho letto con piacere opere di autori latinoamericani molto noti in Italia, come le poesie di Jorge Luis Borges, o i libri di Gabriel Garcia Marquez, Jorge Amado e Isabel Allende. Qualche tempo fa mi è capitato di parlare di Umberto Eco con delle studentesse dell’Università di Rosario, in scambio culturale presso l’ateneo dove insegno, che avevano amato Il nome della rosa(lo conoscevano meglio di alcune loro coetanee italiane). Ho detto loro che, se pensavo alla letteratura argentina, mi venivano in mente delle poesie, più che dei romanzi. In particolare è stata una bellissima scoperta venire in contatto con i Frammenti fantastici di Miguel Angel Bustos. Sul rapporto tra la letteratura italiana e quella latino-americana, immagino che la grande diffusione in Italia delle opere di Marquez, di Amado e della Allende abbia lasciato un segno sulla nostra letteratura attuale, ma non sono abbastanza competente per delinearlo più precisamente.
Credi esista propriamente una letteratura della Calabria, o del Sud italiano? Esistono caratteristiche che possano spingere a parlare di una letteratura legata a un territorio?
Sicuramente esiste una letteratura che in Calabria trova radici, ispirazione e contenuti, e che negli anni ha dato vita a opere preziose. Io, pur avendo vissuto in Calabria tutta la mia infanzia e adolescenza e gran parte della mia vita adulta, non ho ambientato in questo territorio i miei romanzi, per una questione simile a quella temporale cui accennavo prima: esattamente come avrei difficoltà a parlare di argomenti nel periodo in cui essi mi coinvolgono in prima persona, sento la difficoltà di parlare di cose che mi sono troppo vicine – come se non riuscissi a metterle a fuoco in modo adeguato – e ammiro chi invece ci riesce.
Ci sono tantissimi calabresi nel mondo. In Argentina si trovano il numero maggiore di calabresi emigrati. Si può pensare ad una letteratura che parli con questi emigrati e con i loro figli?
Questa domanda mi ha ricordato un libro che ho avuto la fortuna di leggere e di presentare qualche mese fa in una libreria di Cosenza: Addio al mare dell’esilio, di Lucia Donadio. L’autrice, figlia di un calabrese immigrato in Colombia, ripercorre in pagine struggenti il legame tra le due patrie della sua famiglia, narrando il rapporto complesso e anche doloroso tra la terra di origine e quella di arrivo, tra speranza e nostalgia, che si ripercuote anche sulle generazioni successive. Si tratta di un tema che sento molto vicino, perché mio fratello ormai da anni vive a Quito, in Ecuador, dove lui e sua moglie insegnano all’Università e dove è nata e cresciuta mia nipote che ora ha otto anni.
Un solco senza seme è una silloge di sillogi pubblicata per la collana Scafiblù di Miraggi edizioni nel 2024 e raccoglie scritture con gli a-capo, come ama definirle l’autore, pubblicate tra il 1988 e il 2023 e inedite (come la sezione Mangimonio). La scrittura di Luca Ragagnin privilegia spesso il significantesuono più del significato, immergendo l’orecchio del lettoreascoltatore in un ambiente fortemente legato al reale, per esempio il reale televisivo, ma anche, e soprattutto, il mondo della musica, della storia della musica, senza tralasciare esperimenti che colgono punti di colore nelle atmosfere oracolari, del cinema e di quello spettacolo interiore che può diventare spazio teatrale, oscenità del corpo e lirica che ricorda le vibrazioni fuori dall’Io di Andrea Zanzotto o l’abbandonarsi al desiderio del dirsi inconscio di Giuliano Mesa. Una scrittura di allitterazioni, paronomasie e metafore dietro cui si cela la dialettica del mondo con il pensierosentire di chi scrivecanta, sinestetici impressionismi e scrittura in pura perdita che sottrae il senso al prodotto commerciale del potere dell’Io. L’antologia di Ragagnin, o meglio la disontologia, «è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui» e gli strati di cui si compone danno l’idea di un’immersione di cui si gode riemergendo, a conclusione del discorsocantato «quando tutto è finito», après coup, avrebbe detto Lacan. In questo senso il viaggio sotterraneo, o in volo, dipende, è sempre un percorso concluso dal quale l’autore riparte verso nuovi incontri, dove la visceralità e la precisione chirurgica delle parole e dei timbri sono un tutt’uno con l’idea di una scrittura che vorrebbe diventare un «suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine.»
Ma se da un lato è musica, la scrittura di Ragagnin è pure «una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche», sempre risonanti del desiderio di chi scrivecompone, di chi leggeascolta, e anche della Legge\legge, interiore e sociale, dell’individuopopolo che abbia la fortuna, o la disgrazia, di avvicinarsi a una letteratura che indichi o guarisca le ferite di un pensaresentire critico sempre più raro…
Gianluca Garrapa
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Genesi e desiderio del tuo libro.
Ho smesso di consegnare a un mio libro desideri specifici. Erano troppo questo e troppo quell’altro, erano abnormi, sproporzionati, non ne ero all’altezza e non lo sapevo. Adesso lo so. Questo volume è per buona parte un’antologia, la sua genesi sono gli anni e i decenni trascorsi per arrivare qui.
Quando scrivi, godi?
No, non credo. Più che altro vado in apnea. Godo quando riemergo, quando tutto è finito.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Non c’è. Sono materiali stratificati, si sono formati lentamente nel tempo a volte immobile della vita. Oppure, se c’è, cambia ogni volta, a seconda del pensiero che gli dedico. Ma quando una scrittura diventa libro non me ne occupo più. Non rileggo i miei libri, non ci torno sopra, voglio solo andare da un’altra parte.
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Qualcosa di molto vicino, in effetti. Vorrei che fosse suono, una musica, una risonanza, un bordone, un mantra, qualcosa che inizia già iniziato e che non finisce dopo la sua fine.
Che rapporto hai con la censura?
Sano, cioè pessimo. Indignato e rabbioso. Se pensiamo a certa letteratura europea del Novecento, a certi Paesi, ai destini di certi autori, c’è da rabbrividire ancora oggi. Però attenzione al ridicolo delle nostre latitudini perché la censura si fa strada così, con una prima ridicola picconata.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Scrivere può essere una contestazione e anche molte altre cose ovviamente, private e pubbliche. In qualche caso diventa un mestiere. Può essere una missione, una vocazione, una malattia, la lista è lunghissima. Ma molto dipende dalla storia sociale di uno stato, dal periodo storico. E da cosa fa quello stato per la salute culturale della popolazione.
Miraggi Edizioni ha di recente pubblicato all’interno della collana NováVlna Ostrov (“L’isola”, 2022) di Bianca Bellová. L’autrice ceca arriva così al suo quarto romanzoin Italia, grazie al prezioso lavoro di traduzione di Laura Angeloni. In occasione dell’uscita, Andergraund Rivista ha deciso di pubblicare un’intervista con l’autrice, che ringraziamo per la sua disponibilità.
“Il mattino dopo all’orizzonte è comparsa l’Isola. Era inondata dal sole. Abbiamo attraccato prima del crepuscolo. Sopra il porto volteggiava starnazzando uno stormo di gabbiani.” (p. 20)
Bellová si è ormai costruita una fama internazionale raggiunta da pochi altri autori provenienti dal contesto ceco, dovuta soprattutto a Jezero (“Il lago”, 2016). Le sue opere sono caratterizzate da una cifra stilistica inconfondibile, uno stile schietto e una predilezione per la paratassi, che implicano una comunicazione diretta con il pubblico e un ritmo incalzante. Con L’isola avviene un’evoluzione nella prosa dell’autrice che, mantenendo lo stile sinora descritto, costruisce un intreccio diverso. A differenza de Il lago, ad esempio, la dimensione dell’isola ha una caratterizzazione più complessa, la costruzione di un contesto più articolato e preciso. Un altro elemento di novità è rappresentato dal vasto e stratificato impiego di riferimenti ad altri testi, dalle Sacre Scritture alle opere dei poeta mistico Rūmī, un ricorrere di rimandi che dona uno spessore diverso alla struttura del romanzo. Con ciò non si intende annunciare l’incalzare di una fase di scrittura “matura”, di cui in realtà l’autrice ha dato già prova nei suoi primi romanzi.
Un elemento costante corrisponde a una delle caratteristiche principali delle opere di Bellová: il suo profondo interesse per la dimensione umana, per la stratificazione psicologica dei suoi personaggi e il realismo con cui rappresenta le sue figure. Potrebbe sembrare un azzardo o un gesto ossimorico parlare di “realismo” in riferimento a un romanzo innestato su di un’isola situata a metà tra due generi che si rifanno piuttosto al fantastico, la distopia e la fiaba. Tuttavia, è proprio in questo dichiarato distacco dal reale che Bellová riesce a costruire una riflessione sulla contemporaneità, dando ancora una volta prova dell’incredibile efficacia del filtro letterario. Se ne Il lago era la mancanza di coordinate a ristabilire il contatto del lettore con lo spazio e il tempo, ne L’isola è la dimensione del fantastico a permettere una nuova interpretazione del reale. In assenza di qualunque soggettivizzazione della realtà, l’isola non è solo una metafora geografica o un’eredità utopica alla More, ma una chiave di volta per affacciarsi al convulso mondo ipermoderno immergendosi in una vicenda ambientata in un’era fuori dal tempo conosciuto.
Ci siamo dunque rivolti all’autrice, a cui abbiamo posto alcune domande circa la realizzazione e i temi racchiusi nel romanzo.
AR: Quando ho letto il titolo del suo romanzo, mi aspettavo una distopia, associando il titolo L’isola a Utopia di Thomas More. Come ne Il lago, abbiamo un elemento geografico attorno al quale si svolge la vicenda. Tuttavia, a differenza de Il lago, però, lei non ha creato una distopia, ma una storia che ha una predilezione per l’esotico e il mondo fiabesco. Come è nata l’idea di questo romanzo?
BB: Ho iniziato a scrivere L’isola con quando è cominciata della pandemia. Dato che vi erano caratteristiche comuni all’epidemia di peste, mi sono ricordata di un mio precedente racconto, Láska všechno překoná (“L’amore supera tutto”), e l’ho riscritto un po’ (qui lo si può ascoltare in italiano, probabilmente si può trovare in forma scritta). E poi la mia mente è rimasta su quell’isola. Il periodo della pandemia ha rappresentato una pausa dalla quotidianità che conoscevamo, all’improvviso eravamo in pericolo, un virus misterioso e invisibile poteva uccidere noi e i nostri cari, e noi eravamo isolati. Improvvisamente abbiamo riscoperto il potere delle storie e quanto ne abbiamo bisogno per comprendere il caos che ci circonda e che si maschera da mondo. Questa credo sia la vera storia che è racchiusa ne L’isola: un tributo a quelle storie che le persone si raccontano da sempre. Non la definirei una favola, ma semplicemente di una storia ambientata in un periodo storico, all’incrocio tra il Medioevo, quando era possibile incontrare l’uccello caladria, che aveva poteri magici di guarigione, e l’epoca moderna, un’epoca di esplorazioni e scoperte scientifiche. Essendo il protagonista un mercante di nome Izar, deve viaggiare in tutto il mondo allora conosciuto e raccontare storie di esso.
AR: Questo suo ultimo romanzo mi colpisce per la sua diversità rispetto ai precedenti, oltre che per l’enorme quantità di informazioni e di struttura lessicale (dal vocabolario marinaresco alle citazioni più erudite che utilizza). Qual è stato il lavoro preparatorio dietro un romanzo come L’isola?
BB: Essendo L’isola un romanzo scritto durante una pandemia, ho avuto molto tempo per leggere. Ho consultato libri scientifici come la Storia della morte di Ariès, oltre a varie fonti come leggende medievali, bestiari dei viaggiatori e la mitologia greca. Beh, la marineria mi interessa da moltissimo tempo e per me rapppresenta un simbolo del trionfo del coraggio umano e del desiderio di esplorazione sulla paura, sul pericolo e sugli elementi. Dopotutto, ho sposato un marinaio.
AR: Ciò che apprezzo sempre dei suoi romanzi è la sua capacità di creare un universo letterario che non esiste, ma che parla così bene della realtà da sembrare reale. Ne Il lago, c’era un mondo anonimo che dava alla storia un’universalità. In L’isola, abbiamo un mondo di fantasia ben definito e fiabesco. Non esiste, ma a differenza del mondo di Nami, ha delle coordinate. Qual è la funzione di questo filtro, di questa distanza che lei mette tra lei come autore (e successivamente il lettore) e la realtà? Permette di comprendere meglio la realtà?
BB: L’isola è ovviamente fittizia, anche se la mia editor se ne è occupata a lungo, finché non mi ha detto gongolando che sapeva già quale fosse l’isola, che supponeva si trovasse nel Mare del Nord, sopra Danzica. Mi piace che ogni lettore possa progettare ciò che vi troverà. Ma soprattutto è un modo per concentrarmi sulla storia, sui suoi personaggi e sui suoi schemi. Le realtà concrete, a mio avviso, allontanano il lettore dalla vicenda.
AR: Nei suoi romanzi manca sempre un finale positivo. A volte mi chiedo se leggerò mai uno dei suoi romanzi con un finale roseo. A parte gli scherzi, ricordo che qualche tempo fa ha detto che “il lieto fine la annoia”. Perché la annoia?
BB: Non credo che sia del tutto vero. I miei eroi, però, non si avviano al tramonto mano nella mano, ma devono sempre superare grandi ostacoli, a volte traumi, non hanno mai una vita facile. Tuttavia, cerco sempre di dare loro qualche soddisfazione. In questo senso, L’isola è la storia di riparazione a un grande torto, a un crimine. Izar torna sull’isola per espiare il suo grande fallimento e nel farlo trova sollievo dal rimorso che lo ha perseguitato per tutta la vita, anche se dovrà pagare un prezzo molto alto. Voglio dare ai miei eroi la possibilità di trovare la pace, una conciliazione, una soddisfazione.
Il lieto fine lo considero un imbroglio nei confronti del lettore, come una madre che colpisce con un lecca-lecca il ginocchio di suo figlio per impedirgli di piangere: il bambino si calma, ma non impara nulla e sviluppa una dipendenza dallo zucchero.
AR: Questo è il suo quarto libro tradotto in italiano da Laura Angeloni, il cui lavoro di traduzione è eccezionale. Qual è il suo rapporto con l’Italia? E con il pubblico italiano? E a cosa sta lavorando ora? Se si può dire 🙂
BB: Sì, Laura è eccezionale e quanto il nostro rapporto. Laura è come la sorella che non ho mai avuto, pensiamo allo stesso modo, ci commuoviamo e ridiamo per le stesse cose. Inoltre, è una traduttrice davvero straordinaria, al servizio del testo. Legge e traduce con attenzione, facendo revisioni a ripetizione finché non è soddisfatta. Mi fa molte domande per capire al meglio il testo e renderlo in modo autentico in italiano.
L’Italia è la mia Atlantide perduta. Credo di essere stata italiana in una vita passata, il che spiegherebbe perché mi ci sento così a mio agio e perché i miei libri risuonano con i lettori italiani più che altrove, persino più che nella Repubblica Ceca. L’Italia è l’unico Paese in cui è veramente possibile vivere: la lingua, il temperamento, il cibo, il paesaggio, l’architettura, il senso estetico, tutto è unico. Mi piace tornarci spesso.
Di recente, ho trascorso quasi tutto il mese di ottobre in clausura nell’appartamento di Sanremo del mio caro editore Alessandro de Vitto, di Miraggi Edizioni. Ho passato quel periodo a scrivere il mio nuovo romanzo, Neviditelný muž (“L’uomo invisibile”), che uscirà quest’anno.
Qui è possibile trovare un’intervista con l’autrice relativa a Il lago, pubblicata da Est/ranei. Sempre su Est/ranei è possibile leggere la recensione a romanzo senti/mentale.
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