DONNE DI MAFIA – recensione di Silvia Morosi su La 27Ora – Corriere della Sera
«Donne di mafia»: il tumulto provocato dalle figure femminili all’interno di Cosa Nostra
Vittime, complici, protagoniste. A raccontare le donne dei boss, omertose o ribelli, all’epoca dei primi grandi pentiti e il loro rapporto con il frantumarsi del fenomeno mafioso, è stata la giornalista lucana Liliana Madeo in «Donne di mafia», un’inchiesta giornalistica realizzata in Sicilia a partire dal 1992, e pubblicata nel 1994. Ristampato oggi dalla casa editrice «Miraggi», a 25 anni di distanza, non smette di fare luce e «mettere ordine» nelle intricate vicende di mogli, amanti, sorelle, figlie, giovani e anziane, da sempre immerse nell’ombra della famiglia. Il testo racconta, infatti, il tumulto che alcune figure femminili provocarono all’interno di Cosa Nostra: quelle che incoraggiarono i loro uomini a uscire dal circuito mafioso, abbandonando gli agi del potere; quelle che si pentirono; quelle che abbandonarono il marito; quelle che fuggirono, al loro fianco, nei rifugi all’estero o in Italia, e decisero di vivere sotto un altro nome, in luoghi continuamente diversi; quelle che si schierarono contro i compagni di una vita; quelle che arrivano addirittura a togliersi la vita. «Quando Giovanni Falcone fu ucciso, provai a immaginare la faccia dei suoi assassini, i loro festeggiamenti per il successo ottenuto. “E le mogli?”, mi chiesi. Come li avevano accolti, quella sera, i mariti? Se li erano stretti amorevolmente al petto? Di loro — le donne del pianeta mafioso — si sapeva ben poco», racconta al Corriere della Sera Madeo, ricordando la genesi del libro. «Mi precipitai a Palermo. Parlai con magistrati, dirigenti delle forze dell’ordine, sociologi, avvocati, anche con alcune delle donne che avevano avuto il coraggio di uscire dalle pieghe del silenzio e della sottomissione alle regole di Cosa Nostra. A molte mie domande ottenevo, in risposta, evasività, moti di fastidio e di sorpresa. Ho lavorato a lungo. “Lo faccia, lo faccia questo libro. Non sa quanto anche a noi può essere utile!”, mi incoraggiò un alto magistrato».
Cultura e tempo
E così, pagina dopo pagina, intervista dopo intervista, nacque l’oera nella quale ritroviamo «donne giovanissime e inconsapevoli, che per amore finiscono nel circuito degli omicidi, tra latitanze, vendette e fughe. Donne che — con gli occhi e il metro di giudizio dell’uomo che hanno sposato — tutto vedono, giustificano, proteggono. O addirittura incrementano. Oppure – quando lui esce dal clan – rinuncia a un giudizio su quanto è accaduto», spiega. Accanto a loro, «ho descritto anche le figure di quante consideravano la convivenza con il marito un incubo e quelle che cui fu la stagione della felicità, sbandierando le virtù del compagno, padre esemplare, cittadino senza peccato». Tutte loro, nessuna esclusa, ci portano a riflettere su quanto sia «stretta la connessione tra noi e il nostro tempo, noi e la cultura che respiriamo». Tutt’altro che misterioso — precisa — è il compito che Cosa Nostra assegna alla donna: «Deve ubbidire, rispettare gli ordini, tacere. Garantisce la sicurezza della famiglia e la continuità del potere all’interno del clan. Le ragazzine dei vicoli di Palermo e delle periferie siciliane lo sapevano ma – ignoranti, sole, catturate dal richiamo sessuale e sentimentale oltre che dalla visione degli agi di cui avrebbero potuto godere – si inserirono senza titubanze in quel mondo cupo, maschilista, violento», chiarisce.
Rabbia, pena e ammirazione
Nel corso delle ricerche sul campo, «ho scrupolosamente riferito quanto proveniva dalle fonti ufficiali. Esili e sbiadite sono state le voci di replica», sottolinea. Senza dimenticare la «rabbia provata davanti alle matriarche, alla loro indefessa attività mafiosa, e la pena per quante – senza successo – sono andate nelle piazze a urlare i nomi degli assassini di una persona cara, di un figlio». A prevalere, però, è sempre stata «l’ammirazione per quelle che hanno portato il marito a denunciare i crimini commessi e i loro complici, a “parlare” dando il via a nuovi filoni d’indagine. Penso a Margherita Gangemi, moglie di Nino Calderone. Di famiglia non mafiosa, con un diploma e un impiego all’Università di Catania, si innamorata del bel giovane e lo sposa. Subito capisce qual è la sua attività ma tace, stipulando con lui una sorta di patto del silenzio. Finché un giorno – anni dopo – vede i rischi che incombono su di loro e viene allo scoperto. Fa partire Nino alla volta della Svizzera, gli organizza l’accoglienza presso suoi amici e strutture religiose, vende la casa e i gioielli, si licenzia, lo raggiunge …. Sarà lei a chiamare Falcone con cui si incontreranno a Marsiglia».
Il cambiamento di Cosa Nostra
Cosa o cosa non è cambiato da allora ad oggi? «Cosa Nostra è cambiata del tutto, nella struttura e nella gestione degli affari. Pure le figure femminili — anche se ufficialmente il loro ruolo resta quello di sempre — sono cambiate. Oggi non se ne stanno più nella penombra; parlano in pubblico; esibiscono la loro bellezza e i loro talenti. Non solo, sanno usare i mezzi di comunicazione più avanzati; conoscono le lingue straniere; prendono con disinvoltura aerei che le portano da una parte all’altra del globo collegando tra loro poli diversi di denaro e di potere. Ancora, però, non è concesso loro lo scettro del comando», conclude. Quale messaggio è importante rilanciare oggi, alle nuove generazioni che leggono per la prima volta queste vicende sui libri di scuola e non le hanno vissute? «Se un giovane ha interesse per il western, l’horror, il giallo, gli intrichi e gli imprevisti dei giochi d’amore, nelle storie passate di Cosa Nostra trova pane per i suoi denti. E così sarà in grado di gustare ancora meglio le inchieste, gli svelamenti — non poco clamorosi — che si preannunciano».
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