Penultimi – recensione di Livio Borriello su Zibaldoni e altre meraviglie
Caro penultimo quest’oggi più forte
era il canto, l’unisono di terra e cielo,
– ‘sta cosa degli alberi e degli uccelli –
ma in forma di rosa poco più avanti
del tratto di strada fra Station Verlaine
e Tolbiac, in un soffio di vento nella
galleria sulla banchina è apparso
un angelo con la colla e con la carta,
che salendo e poi precipitando dalla scala
– la teneva in braccio come le ali sul dorso –
dispiegava il foglio tirando via gli angoli
e su mezzi quadrati spalmava la colla
come un bambino all’alba fa con la Nutella.
E apparivano i santi, le madonne, le grazie,
il miracolo del progresso, i numeri magici,
la vie en rose, paradisi per morti di fame,
perfino terre promesse con tanto di account.
Noi come al solito si stava ad un solo passo
dalla linea gialla che separa la terra ferma
dal convoglio, e ci siamo scambiati uno sguardo
solo quando l’Arcangelo, s’è sfilato dal coro
novello Mercurio, che l’aveva stampato in faccia
il pensiero vero, l’oracolo – il affichait un sourire –
Tutto era oro, tutto era loro, solo e nient’altro.
Nella luce fra spettrale e esotica dell’alba, un penultimo, un attacchino che si rivela messaggero d’altri mondi, apre un varco spazio-temporale su un muro della realtà, da cui irrompe un flusso inarrestabile e multicolore di immagini edeniche, di sogni digitali con tanto di account, di deità arruolate alla promozione consumistica. È uno degli schemi tipici di Penultimi, quello dell’agnizione, della rivelazione che squarcia la realtà nel veleggiare di una busta di plastica, nella trasfigurazione in oranti dei pendolari assonnati nei convogli, o perfino nell’enigmatico discorso cromatico dei semafori.
Penultimi è un’epopea del quotidiano, la codificazione di un luogo psichico, di una tonalità dell’esistenza che appartiene a tutti, di cui però non ci eravamo accorti, finché Forlani non lo ha nominato, non lo ha trasposto nella lingua. Un luogo abituale, dove tutti abbiamo sostato, e che proprio l’abitualità ci aveva nascosto. Ma è il luogo in cui le smagliature dell’abituale lasciano tralucere il prodigioso, il luogo-soglia in cui si confondono il notturno e il diuturno, lo spento e il radioso, il meccanico e il numinoso propri dell’umano.
Il mondo dei penultimi è il mondo incerto dell’alba, il mondo del transito dall’indeterminato al visibile. L’alba di Forlani non è l’alba della chiarezza, il tracciarsi del tratto di Nancy, né l’aurora della speranza nicciana o straussiana. È l’alba carica di particelle di buio, degli aloni e delle permutazioni del sogno. In questo spazio di luce viscosa, torbida, abita un’umanità a sua volta indistinta, indecisa fra il buio e la luce. Sono uomini-non uomini, non sono individuati, ma paradossalmente proprio perciò intensamente uomini, propriamente uomini. Visti da lontano, visti sulla soglia del non essere notturno, gli uomini, le bestie, le cose non sono che un ammasso, una categoria, una muffa sulla superficie del mondo, un brulicare disperato e commovente… non esiste più il loro ego pretenzioso, non esiste Freud e forse nemmeno Marx… È la loro banalità che li rende numinosi, è la loro insignificanza psicologica che fa sfolgorare il loro dimesso mistero ontologico. Sono uomini che ci toccano completamente, perché hanno espulso il vestito e l’esoscheletro di persona, e vagano nella loro nudità inorganica, nella loro purezza di strutture eidetiche. La città produttiva, la città tecnologica li ha decolorati, li ha assimilati, li ha disanimati, ma restano fatti di quella sostanza enigmatica che è la carne, restano palpitanti e iridescenti – come pesci sommersi nella luce subacquea di Parigi. Scopriamo attraverso di loro che l’uomo è cosa molto meno importante di quanto pensavamo – e che però proprio questo merita forse, o comunque suscita, amore, compassione o passione. È l’umanità del quadro rembrandtiano di Genet, quella sostanza greve eppure scintillante che circola da un corpo all’altro, da una storia all’altra.
I penultimi sono fantasmi vivi e fraterni. Forse sono in realtà, o sociologicamente, gli ultimi, e sono promossi a penultimi solo per delicatezza, oppure la stessa luce fluttuante e pulsante, come quella di certe vecchie pellicole, impedisce di descriverli con qualche tono definitivo. Sono penultimi, non sono degradati dall’ultimità e ancor meno dalla primarietà, non competono, sono solo-uomini. Certamente facciamo parte anche noi di quella folla, certamente anche noi ogni mattina, senza saperlo, ci sediamo su una panchina del metrò a testa bassa o trangugiamo una colazione affrettata prima di passare l’aspirapolvere in sala d’attesa… certamente anche noi, in quanto antropici, viviamo più sotto il segno del “fra” che posati sul su o giustificati dal perché… siamo il dintorno di un fra, la casuale agglutinazione che circonda un fra (fra’, lo chiamo a volte, e non so se è l’apocope di francesco o di fratello… ma forse era fra e basta… era la congiunzione…).
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