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PONTESCURO “La vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin” – recensione di Margherita Ingoglia su LuciaLibri

PONTESCURO “La vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin” – recensione di Margherita Ingoglia su LuciaLibri

Una vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin

Luca Ragagnin

Come un cantastorie Luca Ragagnin scrive una storia dagli echi deandreiani, che restituisce l’eco di un tempo sospeso e la risata degli Ultimi: una ragazza bellissima e chiacchierata, raccontata dal coro greco delle malelingue, e un destino segnato…

«Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore»

Pontescuro (160 pagine, 16 euro) di Luca Ragagnin, edito da Miraggi, con illustrazioni a cura di Enrico Remmert, (qui abbiamo scritto del suo La guerra dei Murazzi) attraverso voci, sentimenti e caratteri dei personaggi, ricama con filo noir una storia di morte e leggenda. Proprio come un cantastorie, un cantautore o forse un puparo capace di mettere in scena soggetti apparentemente privi di anima e sangue, quella raccontata dallo scrittore torinese (qui abbiamo scritto del suo Agenzia Pertica) è una splendida ballata triste dagli echi deandreiani capace di restituire al lettore l’eco di un tempo sospeso e la risata degli Ultimi.

La figlia scandalosa

A Pontescuro poche vicende, e di rado, sopraggiungono per sconvolgere il naturale fluire del tempo, eppure quando qualcosa accade, banale o eccezionale che sia, diviene per tutti il pretesto per discuterne a lungo, aggiungendo o accorciando la trama a discapito del risvolto desiderato, ciascuno a Dio giurando di non proferirne parola con nessuno.

« (…) gli uomini e le donne di Pontescuro avevano bisogno di vedere la sfortuna, la miseria e la stupidità premere sulle spalle di qualcun altro(…).»

Un giorno però, del 1922, la serenità del piccolo paese viene turbata dalla morte della scandalosa figlia del padrone locale, Cosimo Casadio. La giovane, bellissima e assai chiacchierata Dafne, bionda e dall’aspetto luminoso, decisamente fuori luogo per un borgo inghiottito dalla malsana nebbia e soffocato dalle vesti a lutto delle donne che lo abitano, a causa della sua condotta esuberante e scabrosa, troppo presto rimasta orfana di madre, già all’ età di sedici anni, per il coro dalle malelingue del villaggio, diventa la ninfetta che si concede a tutti, “la sgualdrina”. Lei, la Bocca di rosa .

«Dopo pochi mesi (…) il paese incominciò a disprezzarmi dritto negli occhi. E forse, se fossero stati almeno un poco intelligenti, tutti avrebbero capito dall’unico sorriso ebete, che ogni giorno cambiava volto ma non caratteristiche, chi era stato l’ultimo a slacciarsi la cinghia».

Un capro espiatorio?

Quando il suo corpo viene trovato senza vita lungo le sponde del torrente, proprio come la Marinella di De Andrè, nessuno prova rimorso nel puntare il dito contro Ciaccio, lo scemo del villaggio («perché al villaggio lo scemo deve essere maschio») che da qualche tempo, con fare sospetto, ha stretto amicizia con la troppo bella per lui, Dafne Casadio. L’accusa trova tutti concordi nel giudicare il taciturno Ciaccio, unico colpevole dell’atroce delitto. Pensano infatti che l’ingenuo si fosse invaghito della giovane e che, insoddisfatto nell’avere da lei forse solo la compassionevole amicizia, avesse preso con forza ciò che naturalmente non avrebbe mai potuto ottenere. Dunque, in un raptus di follia, l’avesse uccisa.

In questo coro di voci greche intente a ricostruire la vicenda intervengono tutti, anche coloro che a quel delitto non hanno preso parte e che quindi possono solo supporre le dinamiche. La verità però, come spesso accade, è affidata a chi non ha autorevolezza per farla emergere: ai pazzi, agli scemi, alla nebbia.

«Felice di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felice di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno il tonfo che fa cadendo per terra».

Tragedia e poesia

Pontescuro di Ravagnin è una storia tragica raccontata col garbo della poesia, il rosso dello scandalo, la primitiva innocenza del bosco, intricato e voluttuoso come Dafne (il cui nome è un chiaro riferimento alla leggenda), la libertà delle ghiandaie e il coraggio degli Ultimi che inconsapevolmente osano sfidare la nebbia, varcare i ponti e andare oltre.

Una vita spezzata, come un paese spezzato necessita di strade per riunire ciò che è rimasto nella nebbia, in sospeso così, durante il cammino, mentre si va incontro al sole, affidare al vento la magia di un’ultima risata.

«Tutto ciò che si smarrisce o si vuole dimenticare, le parole scartate, i passi non compiuti, le scelte non fatte, un giorno emergeranno dalla corda dell’orizzonte e prenderanno il posto del sole».

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Una vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin

Funambolico Ragagnin, un ritratto cubista di sé. La recensione di Alessandra Chiappori su LuciaLibri

Funambolico Ragagnin, un ritratto cubista di sé. La recensione di Alessandra Chiappori su LuciaLibri

“Agenzia Pertica” dello scrittore torinese è un libro irriverente nei confronti del lettore, un falso thriller che – digressione dopo digressione – si rivela un esercizio di consapevolezze metaletterarie, un viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione

Agenzia Pertica (176 pagine, 16 euro) è il nuovo lavoro di Luca Ragagnin edito dalla torinese Miraggi. Non a caso, questo romanzo-non-romanzo inaugura una nuova collana che la casa editrice ha deciso di chiamare Scafiblù: così infatti a Napoli erano chiamate le imbarcazioni utilizzate per il contrabbando di sigarette. A ispirare Scafiblù è dunque un’idea di clandestinità applicata a quegli autori italiani che hanno il coraggio di portare sulla pagina messaggi scomodi, disobbedienti, perché no anarchici, in un anticonformismo che può esser di stile, oppure di contenuti. Un contrabbando che diventa un obiettivo nei confronti del confine implicito che distingue ciò che si è soliti trovare in libreria dai libri che invece, probabilmente, non ci finiranno mai.
E a ben vedere – anzi, a ben leggere – il libro di Ragagnin approda in libreria carico del suo contenuto di contrabbando, fuori da ogni schema, insofferente alle regole della narrazione e irriverente nei confronti del lettore, fedele alleato al quale dovrebbe, con buona probabilità, affiancarsi agevolando quell’esercizio così naturale e spontaneo da apparire forse scontato: la lettura.

Scrittore o investigatore privato?
Ma di scontato in questo romanzo non c’è niente: nemmeno il fatto che si possa parlare di un romanzo. Domizio Pertica è il protagonista di questa strampalata storia, è un autore fallito, al cui attivo ci sono ventisei romanzi diversissimi per temi, struttura e genere, per soluzioni editoriali e per editori, via via cambiati fino all’auto-pubblicazione. Una sola cosa accomuna tutte le sue opere: l’insuccesso di pubblico. Ragione per cui, dopo tanto lavoro inutile, Domizio ha pensato di lasciar perdere la scrittura e di dedicarsi a un’altra attività, un’agenzia investigativa privata, che si chiamerà Domizio Pertica Divinazioni & Sbugiardamenti & Alibi. Collaboratori dell’impresa, Venus Diomede, praghese bionda e in abiti succinti conosciuta in un bar di dubbia fama e diventata la compagna con cui condividere la triste mansarda torinese e una merla indiana alcolista di nome Zappa. Niente è scontato, nemmeno il fatto che, in quanto animale, Zappa non parli. Infatti la merla è più che loquace, e sul cedro del Libano davanti casa, dove ama svolazzare, fa amicizia con altri esseri tra cui Pepe la gazza e Trambusto il gatto poeta che si esprime in rima.
Obiettivo tutto particolare dell’agenzia, sarebbe quello di fornire alibi ai delinquenti, casi risolti a cui il romanzo dovrebbe dare spazio, raccontandoli. “Sei qui per leggere un thriller”, scrive Pertica, attivando un’attesa incessante e la suspense tipica del genere. Ma poi apre, divaga, non torna, non spiega, non chiude, nella disattesa totale è lui stesso a fornire gli alibi, sbugiardandosi e smontando la sua stessa scrittura, in una rivelazione un po’ alcolica, un po’ onirica e forse un po’ disperata a cui la lettura, interruzione dopo digressione, finisce per assomigliare.

Un non-romanzo tortuoso e irriverente
C’è un inizio della storia, anzi no, è un falso inizio, come rassicura la voce narrante. Da quel momento, cioè da subito, appare chiaro come la storia non inizi, ma si avvii invece un tortuoso percorso tra le voci di Domizio, del narratore, di qualcun altro che fa le sue veci e irrompe nel testo. Il lettore cerca, attende, immagina e passeggia nei boschi narrativi colto di sorpresa a ogni capitolo. Perché naturalmente, in questo romanzo tutto speciale, anche gli elementi paratestuali contravvengono alle regole, e dunque i titoli dei capitoli parlano, scherzano e giocano. Il disinvolto appello al Prezioso Lettore diventa una delle cifre distintive del testo di Ragagnin, disinibito e al contempo sagace, inaugura un capitolo zero che scivola dalla libreria sotto casa a Céline e a Mallarmè, con strizzate d’occhio ironiche di tanto in tanto, spruzzi di realtà che inserita sulla pagina bianca diventa elastica, si adatta. E poi sberleffi al mondo dell’editoria, che Domizio ben conosce. “Scemo mi ci sento”, ammette, salvo poi correggere il tiro e interrogarsi sul fatto che forse scemi erano tutti gli altri, i lettori che non lo capivano e ancora di più gli editori. Un modello da cui allontanarsi, magari sperimentandone altri, e ancora altri, in un pastiche-metaromanzo come questo, che mescola tutto, e in continuazione mette in dubbio, disattende le aspettative del lettore portandolo fuori dai cliché interpretativi, e chiedendogli complicità.
Prezioso lettore dice la voce narrante di volta in volta diversa, mutante e velata di quella finzione che, altrove, in un romanzo classico, sparirebbe dopo la prima riga. È uno spericolato gioco a zig zag, su e giù per le scale dei congegni narrativi, in barba al pubblico, e soprattutto a quelle regole editoriali (ma, ancora prima, narrative) che ben poco tra le righe sono criticate per la propria rigidità, il proprio essere inespugnabili e inattaccabili. Del resto, Pertica le ha provate proprio tutte, anche pubblicare un libro bianco, ma non c’è stato niente da fare, il successo di scrittore non lo ha incoronato mai. Epilogo inevitabile, l’appendice, che raduna stralci dei ventisei romanzi di Pertica che hanno segnato il fallimento della sua carriera, ognuno con relativo esergo e commento di improbabili e divertenti recensori

Un funambolico esercizio narrativo
È un florilegio di generi, stili, forme e soluzioni narrative che, tutte insieme, scompaginano la narrazione, destrutturando l’attesa del lettore e costruendo invece un mirabolante esempio di romanzo il cui cuore è proprio il suo stesso essere un non-romanzo. Magie della scrittura, punti di forza di una metanarrazione che, seppure anch’essa parte di quel mondo da bistrattare, è la chiave di apertura del congegno di Ragagnin per il lettore. Tra dialoghi assurdi, voci e narratori, il lettore è lanciato in mezzo al campo pluristratificato di una metanarrazione che racconta di sé, del suo farsi ma anche del non riuscire a farsi, delle abilità da scrittore affatto improvvisato, dei giochi tra enunciatori ed enunciatari di quella riprovevole letteratura da scribacchini furbi, che agganciano il lettore e lo portano con sé fino in fondo, decretando il successo. Invece qui non c’è aggancio ma costante sgancio, inciampo, non-narrazione costruita con arguzia dentro una cornice narrativa, dove anche gli elementi paratestuali concorrono al tempo stesso ad abbozzare una cornice di insieme e a smontarla, rivelandone con ironia e un po’ di amarezza la consistenza nulla.
Ma chi è poi, davvero, Pertica? Basta una manciata di pagine e già ci è chiaro che la voce che ci si rivolge in presa diretta è un prodigio della scrittura, mutevole, scrittore fallito, coscienza alta, trasformista, dialoghista, filosofo e persino fine poeta e rimatore. Domizio Pertica, un po’ autore, un po’ maschera, un po’ narratore, un po’ essenza pura della fantasia di uno scrittore a cui crediamo di avvicinarci sempre più, scoperchiando matrioske, smontando falsi inizi, incipit e attese fomentate e mai raggiunte.
“Avete mai visto un romanzo thriller incominciare con una digressione una divagazione di carattere squisitamente letterario” si domanda il nostro Domizio Pertica, o chi ne fa le veci. La vicenda thriller, misteri e colpi di pistola, tarda ad arrivare. Il dubbio, alla fine, è che davvero si possa parlare di vicenda e non, invece, di viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione. E se è vero che talvolta, per essere capiti, i romanzi giunti alla fine devono essere ripresi dall’incipit, tornando all’inizio palesemente finto e ingannevole, sembra chiaro come questo primo esperimento inaugurale di Scafiblù sia un funambolico esercizio di consapevolezze metaletterarie, registri, voci e apparati narrativi piegati all’ironia un po’ pessimista e un po’ divertita di un autore, che dipinge in modo cubista il ritratto di sé scrittore come cliché: uno, nessuno e forse centomila Domizio Pertica.

http://www.lucialibri.it/2017/10/29/funambolico-ragagnin-ritratto-cubista-se/