“Mopaya”: la recensione di Margaret Petrarca su afroditetraduzioni.it
Mopaya – Colui che porta in sé l’altrove (Miraggi edizioni, 2012; traduzione a cura di Giuseppe Sofo) è un romanzo che ci viene raccontato dalla voce di Gabriel Nganga Nseka, ma scritto da Douna Loup. L’autrice, nata in Svizzera nel 1982 e vincitrice di svariati premi letterari (tra cui il Prix Senghor, il Prix René Fallet, il Prix Michel Dentan e il Prix Schiller), ha infatti messo per iscritto quanto raccontatole dall’uomo. Questi è nato a Kinzadi, un piccolo villaggio del Basso Congo, nel 1968. Oggi vive in Francia, al confine con la Svizzera, dove si reca quotidianamente per andare a lavorare.
La storia che Gabriel racconta a Douna è quella del suo vissuto personale: dall’infanzia trascorsa in Africa, fino alla pericolosa migrazione in Europa, passando per l’Angola. A queste, si aggiungono le riflessioni che l’uomo fa nel presente, parlando della sua situazione attuale e, di tanto in tanto, rivolgendo lo sguardo al passato.
La storia di Gabriel, drammatica e a tratti dolce, non viene narrata in maniera cronologica, ma alternata tra scene di un passato remoto, un passato più recente e il momento presente. Questa scelta stilistica fa sì che il pathos dell’opera, già molto forte per via della tragica storia dell’uomo, aumenti in maniera esponenziale, portando il lettore a porsi di frequente delle domande non tanto su quello che avverrà, ma su ciò che è accaduto perché Gabriel sia potuto arrivare a un determinato punto nella storia.
Riassunto e analisi
L’infanzia di Gabriel viene raccontata da un narratore che parla in terza persona. Il racconto della storia del piccolo protagonista inizia con la morte della madre. Questo fa sì che il bambino si ritrovi a vivere solo con il padre, dal momento che tutti i suoi fratelli e sorelle più grandi vivono in città. Attraverso la descrizione dei pochi eventi che accadono nell’arco della sua infanzia, l’autrice ci parla della vita tradizionale di un villaggio africano: il lavoro nei campi, i rapporti con la famiglia, con il cibo, con la malattia e la morte. Su quest’ultima si ferma in modo particolare, rendendo partecipe il lettore al ciclo di malattia e al rito funebre della madre di Gabriel. La partecipazione del lettore avviene attraverso una narrazione lenta, a cui si aggiungono tutti i dettagli dello stregone che cerca di curare la donna attraverso un ciclo di guarigione di tre settimane, accompagnato da canti, suoni di tamburo, misture e un bagno purificatore nel fiume.
Douna Loup si sofferma, poi, sulla vita scolastica di Gabriel. Quasi ogni giorno, il bambino si reca a scuola a piedi, camminando per ben dieci chilometri, attraversando altri villaggi e una foresta che gli incute particolare paura. Le giornate trascorrono senza particolari intoppi, Gabriel è bravo a scuola, e quando torna a casa aiuta il padre nei campi. Un giorno, però, uno dei suoi fratelli torna al villaggio e Gabriel è felicissimo di ritrovare un fratello e un compagno di giochi. Gabriel, attraverso le parole di Douna Loup, ricorda di un giorno in cui lui, il fratello e un loro amico hanno marinato la scuola, trascorrendo la giornata nella foresta a raccogliere funghi. In queste righe, dal sapore dolceamaro, Douna Loup ci parla della crescita e dell’amicizia, colorandole di quella luce calda delle prime giornate d’estate. Il momento della crescita, oltre che dalla circoncisione, viene confermato anche da un avvenimento molto importante: la partenza verso Kishasa, la città, in cui Gabriel frequenterà il liceo. Diviso tra la tristezza di abbandonare il padre e l’eccitazione per la vita in città e il ricongiungimento con gli altri membri della sua famiglia, Gabriel si trasferisce a casa della sorella. Prima di sentirsi pienamente a casa, però, l’adolescente deve fare i conti con Kinshasa, che lo spaventa e lo affascina allo stesso tempo, sottolineando addirittura che “Kinshasa è un mostro” (p. 54) e che “Kinshasa è una balena che cresce incessantemente” (p. 61).
Douna Loup non si astiene dal raccontare anche dei risvolti sociali legati alla Repubblica Democratica del Congo, soffermandosi sulla povertà, la corruzione e l’illegalità. Gabriel, infatti, ben presto capisce che i voti buoni e la maturità si comprano e, all’università, a causa del “favoritismo etnico e le segregazioni politiche, se non sei mobutista e della tribù giusta, potresti non laurearti mai” (p. 64). Gabriel, però, ha sete di conoscenza e si applica diventando uno studente modello. Purtroppo, a causa di una disavventura apparentemente da niente, non riuscirà mai a diplomarsi.
La storia del passato più recente di Gabriel, invece, viene raccontata da un narratore che utilizza la seconda persona singolare. Parlando della storia dell’uomo, il narratore sembra quasi rivolgersi al lettore dandogli del “tu”. Questa scelta stilistica potrebbe derivare dal fatto che Douna Loup voglia far identificare il lettore con il protagonista, facendogli vivere sulla propria pelle la storia della sua migrazione. Infatti, questa parte del racconto si sofferma proprio sul viaggio che Gabriel compie per arrivare dal Congo in Europa, in una qualsiasi “nazione d’oltreguerra” (p. 9). Per poter realizzare l’obiettivo, però, il ragazzo deve passare per l’Angola, precisamente a Luanda, dove lo ospita una famiglia che lo aiuta con i documenti necessari per ottenere il visto. Prima di riceverlo, Gabriel vive una vita da recluso, prigioniero in casa della famiglia, in quanto se i soldati lo avessero trovato, lo avrebbero probabilmente fatto arruolare in guerra o lo avrebbero ucciso. L’Angola, infatti, al momento della narrazione è un Paese in guerra, in cui tra l’altro si parla una lingua che Gabriel non conosce minimamente: il portoghese. Anche qui, Douna Loup si sofferma a descrivere la situazione angolana, anche questa corrotta da povertà e delinquenza.
Il senso di soffocamento che Gabriel prova stando a Luanda lo si percepisce dalla tecnica narrativa della ripetizione: per svariate pagine viene ripetuta la parola Luanda, sempre seguita da un punto. La ripetizione, a cui si aggiunge una prosa spezzata, crea un senso di soffocamento, che trova la sua liberazione solo quando Gabriel ottiene il passaporto. Una volta ottenuto, infatti, la parola Luanda viene finalmente inserita in una frase di senso compiuto: “al di là di Luanda” (p. 15). Sia la scelta stilistica che le parole utilizzate dall’autrice sottolineano la nuova libertà acquisita da Gabriel, che finalmente può abbandonare la città e guardare altrove.
Per tutto il tempo della narrazione, Luanda prende le sembianze di una donna. Se all’inizio questa donna viene definita come un’ “[a]mante aggrappata alla tua pelle. Appiccicosa. […] una puttana […] Devi liberarti di lei. Levartela di dosso”, ma “E lei, lei è sempre là. Luanda” (p.17), una volta ottenuto il passaporto il protagonista pare perdonarla.
Luanda. Non conosci il porto di Luanda. Non conosci la bellezza del mare che lambisce Luanda, l’odore salmastro, i soli sulla riva di Luanda […] La faccia bruciata di Luanda […] Non conosci l’amore, a Luanda. Non conosci le feste di Luanda (p. 18).
Dopo aver lasciato la città angolana, passando prima dal Belgio e poi dalla Francia, Gabriel si dirige in Svizzera, dove fa richiesta d’asilo, vivendo in dormitori dedicati ai migranti e spostandosi tra diverse città. All’interno di quei dormitori, Gabriel si chiude ancora di più in se stesso, sentendosi solo: “Non è solo una questione di temperatura esterna, l’inverno… è anche l’assenza di sguardi, di contatti, di parole” (p. 57). Trova sollievo solo quando un regista gli chiede di diventare l’attore protagonista di uno spettacolo teatrale, in cui recita la parte di un richiedente asilo. Lo spettacolo si intitola Casa, o come riconoscere un rifugiato? Il nome del protagonista è Mopaya, che significa straniero, esiliato nella lingua di Gabriel, ma che potrebbe essere tradotto letteralmente con colui che porta in sé l’altrove.
Solo a questo punto, complici il teatro e l’amore, l’identità di Gabriel viene non tanto svelata, ma finalmente acquisita: l’uomo può finalmente affermare il suo nome, perché riesce ad accettare sé stesso. “Ich bin Gabriel” (p. 87). Paradossalmente, però, la narrazione a questo punto passa dalla seconda alla terza persona. Gabriel diventa così un personaggio del libro, che oltre al teatro si dedica anche a Renata, di cui si innamora fin da subito. Tutto sembra andare per il verso giusto: Gabriel è coinvolto nel teatro, va a convivere con Renata e fa domanda per diventare infermiere. Quando, però, arriva la busta gialla contenente la lettera tanto attesa, quella del permesso di soggiorno, l’uomo scopre che gli viene negato. I membri della compagnia teatrale si indignano e promettono di aiutarlo, mentre Renata gli chiede di sposarla.
La parte dedicata al presente, viene narrata in prima persona da Gabriel stesso ed è in corsivo, come se la scrittura seguisse i flussi del suo pensiero. Non sappiamo come Gabriel sia riuscito a ottenere il suo permesso di soggiorno, ma nel presente della narrazione vive in Europa. Nel momento in cui scrive, Gabriel ha quarant’anni, è un infermiere psichiatrico, vive da solo e ha una figlia che vede solo di tanto in tanto. In questi capitoli Gabriel si lascia andare seguendo vari pensieri e considerazioni, tra cui l’elogio della lentezza e le emozioni che prova sapendo che Douna Loup sta scrivendo la sua storia.
A un certo punto, sebbene la scrittura resti in corsivo, la narrazione passa dal presente al passato: Gabriel inizia a raccontare quali sono le motivazioni che l’hanno spinto ad abbandonare il proprio Paese. Il suo capo, che definisce come un uomo d’azione afroamericano, viene implicato in una storia di traffico d’avorio. Gabriel, che non è bianco, né ricco, né dell’etnia giusta, sebbene non coinvolto, non ha altra possibilità che la fuga.
La narrazione, poi, volge di nuovo al presente. Gabriel sente molta nostalgia per il suo Paese natale e farvi ritorno diventa un pensiero costante. Il suo rapporto con l’Africa è diventato molto doloroso: ne sente la mancanza, cercando in tutti i modi di riavvicinarsene, ma quest’avvicinamento gli provoca un’infinita tristezza. Ad esempio, quando si reca a un’esposizione museale dedicata alla cultura africana si ritrova ad affermare “Venendo a Bruxelles per visitare il famoso Musée Royale de l’Afrique Centrale, non mi aspettavo un tale choc” (p. 77). O ancora, quando fa un viaggio in Senegal, dice “Io ho una paura irragionevole” di ricongiungersi a “quel passato che mi consuma”, consapevole che “nessun ragionamento terrà, quando sarò in Africa” (p. 81). Il viaggio in Senegal, per lui non è che un mezzo per “[addomesticare] la mia parte d’Africa” (p. 86), prima del vero viaggio in Congo.
La questione linguistica
Nel romanzo la questione linguistica rappresenta uno specchio dell’autodeterminazione identitaria di Gabriel. La lingua, infatti, spesso è un mezzo importantissimo che ci permette di affermare la nostra identità, perché, oltre a rendere possibile la comunicazione, ogni lingua veicola una determinata cultura, che ci rappresenta e in cui ci sentiamo “a casa”. All’interno di Mopaya – Colui che porta in sé l’altrove la lingua non è statica, ma arricchita di varie inserzioni alloglotte in diverse lingue. È interessante, quindi, andare ad analizzare come queste inserzioni si rapportino con l’identità del protagonista, creando dei giochi di allontanamento e di avvicinamento a determinati Paesi e culture.
Le prime parole straniere nel testo sono in portoghese, lingua parlata in Angola. All’inizio, Gabriel non capisce assolutamente nulla di questa lingua, ma col tempo impara determinate parole legate proprio alla questione identitaria. Ogni volta che nel testo è presente una parola in portoghese, infatti, essa vuole sottolineare l’identificazione di Gabriel con la gente locale e il posto in cui si trova. Si tratta di parole come adulino, velhos, o passaporte.
Nel testo, poi, sono disseminate parole congolesi, come calabash, safous, buanas, djellaba. Il testo, redatto in francese, fa spesso riferimento alla cultura del Congo, proponendo espressioni legate al mondo africano che Gabriel ha abbandonato geograficamente, ma non culturalmente. Attraverso determinate espressioni, il protagonista si sente più vicino alla sua terra natale, alla sua identità africana. Non è un caso, quindi, che quasi tutte le parole congolesi richiamino la cucina (calabash, afous) o il vestiario (djellaba).
Altre parole in lingua straniera sono quelle in svizzero tedesco. Il rapporto che Gabriel instaura con questa lingua gli conferisce particolare conforto. Difatti, per la prima volta dopo molto tempo, il protagonista riesce pian piano a sentirsi a casa, in una Berna che gli ha portato il teatro e l’amore. Per questo motivo, il narratore afferma che “Questa lingua straniera diventa tua” (p. 85). Quando Gabriel viene accolto in Europa, finalmente riesce a impossessarsi anche di una delle sue lingue. Ecco perché ci troviamo davanti a espressioni come tschüüüss, Schnee, Scwizerdütsch. E non stupisce nemmeno il rimando alla sua lingua natale:
Hai fatto grandi progressi in svizzero tedesco e scopri con sorpresa perfino di amare questa lingua. Stranamente, questo dialetto ti ricorda il villaggio, la lingua della tua infanzia. Una lingua grezza, senza struttura, senza garbo né menzogne. Una lingua che si parla con le budella, che si sputa quasi. Il francese e l’inglese non ti fanno provare la stessa cosa, sono lingue educate, diplomatiche, dietro le quali ci si nasconde facilmente. Lo svizzero tedesco è crudo, colpisce, parla con franchezza, odora di terra e cielo in collera, grida in fondo allo stomaco. (p. 84)
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