Angelo, spiegaci un po’ il titolo Santi, poeti e commissari tecnici.
Il titolo della mia raccolta è anche il titolo del primo racconto, che poi è l’ultimo che ho scritto, e l’ultimo figlio è quello a cui vogliamo più bene. Ma è un racconto che non parla davvero di calcio, credetemi. Parla di donne, d’odio e d’amore, di quanto noi uomini siamo schifosi, anche se tutto ciò viene fuori a poco a poco, tra un gol, una risata amara e un calcio d’angolo. Ditemi un po’, questo paese popolato da santi guaritori, poeti pubblicati a pagamento e commissari tecnici da bar, da masnadieri che sanno solo fischiare i calciatori di colore, non ha stufato pure voi?
Abbiamo spesso il mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo” : perché secondo te ci si identifica in vite così lontane dalle nostre?
Bella domanda, ma io sono un ex tifoso, ho raggiunto la pace dei sensi. La verità, secondo me, è che questa è una religione con tutti i relativi apparati, leggende, storielle e supereroi, tra cui anche il mito del campionato più bello del mondo. Gli italiani non sono cattolici, quella è un’abitudine; e dopotutto non conosco quasi nessuno che abbia letto la Bibbia. Ma se quasi nessuno di noi ha mai letto la Bibbia, come possiamo definirci cristiani? L’unica vera religione italiana è il calcio. Non è solo identificazione, è idolatria vera e propria. È una fede. Il tifoso non tradisce la squadra, ma tradisce la moglie o la fidanzata. Io invece ho tradito un sacco di squadre e nel corso di questi anni, per esempio, ho tifato per tutte quelle allenate da Znedek Zeman l’eretico e non ho sensi di colpa.
Raccontaci il goal mancato e il sogno infranto che ti hanno fatto soffrire di più.
Avrei dovuto fare studi scientifici e perseguire i miei veri interessi e la mia vera natura. Invece ho ripiegato sulla cultura umanistica, sulla noia intesa come moralità, sul sacrificio per motivi risibili, sulla brutta letteratura fatta di “bello scrivere”… poi per fortuna a un certo punto mi sono imbattuto nel mio amore di gioventù, la fantascienza, l’horror, il fantastico in generale, da Tommaso Landolfi a Terry Pratchett passando per tanti altri autori non del tutto canonici, e la vita è diventata meno tetra.
Tre aggettivi tre con cui descriveresti la tua opera.
1) Uno di noi è il resoconto di una fine, strutturato come se fosse una tragedia greca. Quattro amici di vecchia data, al termine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Sono uomini mediocri, padri di famiglia, essere umani rabbiosi.
Leggendolo mi è sembrato di riscontrare i loro volti nel quotidiano. Mi vuoi dare una tua visione su di loro? Chi sono?
Sono persone ordinarie divorate da alcuni dispositivi retorici estremamente persuasivi. Roba del tipo “prima gli italiani”, “padroni a casa nostra”, “fermiamo l’invasione”, “stop buonismo”, ho omesso i punti esclamativi per rispetto dell’intelligenza dei lettori.
Grazie a questi slogan, molti di loro si sentono arruolati in un’enorme guerra immaginaria contro chiunque sia diverso, chiunque, cioè, non rientri in quel “noi” immaginario che spacciano per identità.
Da fuori sembrano persone ordinarie, conducono vite ordinarie – giocano a calcetto, tornano a casa dalla compagna, si riscaldano la cena, rimboccano le coperte ai loro figli – in realtà agiscono, pensano, combattono come dei soldati.
Sono in trincea. Hanno l’ordine di sparare su qualunque cosa si muova.
E in guerra, secondo la loro logica, tutto è permesso, compreso infliggere ogni tipo di dolore al nemico.
Siamo tutti vittime di un uso politico spregiudicato della crudeltà. La crudeltà viene esibita in ogni modo possibile nel tentativo di creare consenso. Le vicende della Diciotti, della Sea Watch, dello sgombero di Primavalle, delle barricate di Casal Bruciato hanno legittimato e propagandato un’idea disumana di convivenza, sono state dei veri e propri spartiacque. L’Italia che stiamo vivendo è una delle italie peggiori di sempre.
Uno di noi è il tentativo di raccontare tutto questo in prima persona e dal punto di vista di chi fa le barricate contro gli ultimi.
2. “Lì proprio in quel punto X c’era una bambina”. Forse, di tutto il testo, questo è il punto che mi ha richiesto un momento di pausa per l’estrema veridicità dell’immagine della scena, probabilmente anche alla luce del periodo storico che stiamo vivendo. Qual è stato il passo più duro da scrivere?
Raccontare il dolore del padre della vittima.
Sono padre anch’io, ho due figli, mi sono immedesimato col suo dolore, col suo smarrimento, col buco nero che una vicenda di questo tipo spalanca nel cuore di un genitore. Non è stato facile. Non è stato per niente facile. Nel libro è l’unico punto in cui ho dovuto prendere delle pause per respirare, calmarmi, provare ad andare avanti.
3. Come descriveresti Uno di noi con tre parole, tre?
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