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“SONO STATA FEDELE A UNA MILITANZA FUNESTA”: FINO A STRAPPARSI LE OSSA VERBALI, CON VERONICA TOMASSINI – su Pangea.news

“SONO STATA FEDELE A UNA MILITANZA FUNESTA”: FINO A STRAPPARSI LE OSSA VERBALI, CON VERONICA TOMASSINI – su Pangea.news

Posted On Marzo 13, 2019, 7:31 Am

I più, penso, resteranno lì, non vedranno altro oltre l’insolente insolazione della ‘denuncia’, al sole del ‘neorelismo’ di facciata, che sfacciati. Insomma, la scrittrice dei drogati, della periferia di Siracusa, che è poi anima di catrame, l’isolamento dell’uomo, catabasi, catarsi, etc. etc. Sarebbe come considerare Il processo di Kafka un legal thriller e Moby Dick un baldo romanzo d’avventure a bordo di baleniera e l’Ulisse di Joyce una guida turistica della città di Dublino, che idiozia. Con Mazzarrona (Miraggi Edizioni, 2019) Veronica Tomassini – già autrice di libri importanti, cito solo Sangue di cane e L’altro addio – va al di là del gergo linguistico di Altri libertini, è in esilio dalla ‘denuncia’ – propria dei burocrati della provvidenza, dei puri di cuore – redige l’implacabile epica dei rimpianti, dei persi senza pianto, dei tossici, degli indifesi, degli indegni, degli indimenticabili dannati senza aura, senza beneficio di pietà (senti qua: “I fiori degli aranci restituivano la leggerezza della stagione. Oggi mi sembra un fatto straordinario assistervi senza dover pagare un prezzo, sentirmi indegna. La primavera è per tutti. Anche per noi in quel tempo. Il nostro inverno perenne disconosceva la primavera”). Ci sono tante frasi da sottolineare e una bellezza così candida – del candore che si ottiene soltanto dopo il massacro – in questo romanzo, lo prendi ed è come se un pezzo d’ombra e un pezzo di sole fossero conficcati sotto i mignoli, a spalpebrare il senso del tatto. Ma non è questo. Veronica Tomassini scrive facendo scempio di sé, come i pittori d’icone che murano la propria vita nel carcere del Volto – per Veronica, ogni volta, scrivere è sudario, pazienza, perdizione – si scuoia per dare grammatica di fiamme al nostro caos. Ne parlo, è certo, con un giudizio sghembo, di Veronica, perché ho il privilegio di dialogare con lei, fino a sfinirci, fino all’ultimo lembo emblematico di fiato. Veronica significa colei che ‘porta la vittoria’, ma il nome, storpiato, ha a che fare con la vera immagine (icona) di Cristo. Il volto è vittoria; lei porta il tuo volto con una grazia indecente. Attraversi Veronica per trovare te stesso – e l’esperienza non è indolore. (d.b.)

Cosa bisogna avere per scrivere, per te: compassione o ferocia? Amore per sé o desideri per gli altri? Necessità di perdersi, definitivamente, o di risorgere, luminosamente?

La compassione è lo sguardo che finisce dove gli altri lo tolgono; la luce che si fa strada dove per tutti ripara l’ombra. L’ombra e non le tenebre. Il mio sguardo è compassionevole anche quando è feroce, serve alla scrittura, il dolore laconico, l’ho imparato dai nostri maestri russi, è la grande lezione russa, il dolore non si ribadisce, lo devi mortificare, ignorare, così lo esalterai nel suo potere di salvezza. È il riso con il suono del singhiozzo, persino, capace di seppellire il lettore nello sgomento e nella tristezza. Il dolore nella pozzanghera mirgorodiana di Gogol’. E alla fine l’uomo risorge, sì. E tuttavia non per questa ragione io sia nobilitata, migliore, dedicata all’altro, no, si può essere creature mostruose, fuori quello sguardo, fuori la scrittura.

Tu sei la santa dei sottosuoli, la regina virginea degli inferi della periferia: con un linguaggio visionario, da apocalisse gnostica, garantisci una consistenza narrativa a quella “loggia di sbandati” che è l’umanità di Mazzarrona. Mi pare, però, che la tua lucidità non preluda a una facile ricerca di ‘riscatto’. Dimmi. Dimmi perché quei luoghi sono la tua materia narrativa.

Racconto solo la mia vita. Tranche de vie. Non so fare altro. Sono finita nei luoghi sbagliati, tra gli imperdonabili, fino ad amarli. Io stessa lo sono, imperdonabile. Sono fuori dal mondo colpevolmente, una brutta copia della Bess di Von Trier de Le onde del destino. Ho letto Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino a nove anni. Mi ha cambiato la vita, forse me l’ha rovinata. Da allora quello sguardo di cui ti dicevo “deragliava”, illuminava i segreti e la laidezza della vita, mi sembrava di averla già conosciuta così marcia e finita a pochi anni. Ero preparatissima, a pochi anni conoscevo già l’abbecedario del tossico. Gropiusstadt, Haus der Mitt, il Sound, David Bowie, il trip, l’acido che devi calare con un succo di ciliegia, Sense of doubt. Era il mio paesaggio a nove anni. Allora ho capito che c’era una verità, dovevo trovarla, non l’ho ancora trovata. Devo capire ancora, non so cosa, quel tossico forse con l’ago infilato nel collo, Riboldi Gino chino sul cesso di un bagno pubblico (In exitu, Testori) o l’altro che muore steso su una panchina. Così è andata. E da adolescente e poi da adulta sono stata fedele a una militanza funesta, una vita in pezzi forse. E invece no, perché poi tutto mi è stato restituito, gloriosamente, tutto è diventato scrittura. Sono diventate parole, quelle parole che a Mazzarrona non si usavano, erano ridicole, troppo lunghe.

Ami dal culmine dell’abbandono, forse perfino in una compiaciuta estremità ed eresia. Il narcisismo dei perduti. È così? Contestami.

Sì, amo dal culmine dell’abbandono. L’amore è il grande assente. Il narcisismo dei perduti: mi piace. Mi sta bene. Ma devo essere perdonata e voglio solo perdonare in fondo, così sopravvivo.

C’è più denuncia sociale, rivolta civica o atto sacro, liturgia dell’amare e dell’accettare nel tuo romanzo, nelle tue intenzioni?

No, non c’è una denuncia sociale, mi annoia solo l’idea di un romanzo da denuncia sociale. Qualcosa da tessera di partito, inefficace, inutile come una posa. Soltanto racconto (non mi importa delle intenzioni, agiscono per i fatti loro, non le riconosco), poi io stessa divento simbolo di qualcosa magari. Quella che scrive di periferie o di ubriaconi, vagabondi, disadattati. Senza pietismo, però, per carità. Lo faccio e basta. Il resto mi annoia. La noia è un problema. Ho vissuto così.

“Era solo la morte degli altri, che avanzava implacabile e lenta, ad avermi contagiato”: che cosa significa?

Eroinomani, creature esangui. Erano la negazione della vita, una provocazione, un parto cieco. Frequentare eroinomani, sentir parlare solo di ‘roba’, di overdose, spade, rota, Aids, mi aveva fatto ammalare. Frequentare l’ignoranza che per me equivale a una volgarità morale, una volgarità tout court. Mi aveva fatto ammalare. Dimagrivo, avevo smesso di mangiare, non del tutto però. Non vedevo altro, solo questo orizzonte, pesto, greve. Solo la morte. Non c’era leggerezza. Era un castigo.

Da dove arriva questo tuo linguaggio che brucia i cliché di certa narrativa contemporanea, che affila il coltello con cui ti punisci? Che cosa leggi, intendo? Che cosa ti piace leggere, dell’oggi?

Oggi leggo solo testi sacri o classici dello spirito. Ho amato molto i russi, il neorealismo, alcuni autori americani, ma se vai a vedere scopri che sono poi russi o giù di lì, tipo Saul Bellow (origini lituane).

Ora cosa ti attendi? Lo Strega, un nuovo libro, uno che ti porti via da tutto bruciando i ponti, niente, tutto?

Uno che mi porti via da tutto, bruciando i ponti.

Qui l’articolo originale: http://www.pangea.news/sono-stata-fedele-a-una-militanza-funesta-fino-a-strapparsi-le-ossa-verbali-con-veronica-tomassini

“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

“Frigorifero Mon Amour”: il dialogo Serra-Fais su pangea.news

Philip Roth, nell’ultima parte della sua vita, sarà stato sicuramente mortificato per non aver ricevuto il Nobel. Certo, però, non era in buona compagnia: quasi ogni cretino, anche con una sola plaquette di poesia pubblicata, è convinto di essere un vincitore ingiustamente mancato. Sono veramente pochi a non avere l’ego tanto grande da ambire a un qualche riconoscimento sovradimensionato rispetto alle loro reali qualità artistiche. Per fortuna, ogni tanto, capita di trovare uno scrittore che, con estrema modestia, non si sente in competizione con i grandi e non ambisce a scalzarli dal loro trono. Come Andrea Serra che, con il suo Frigorifero Mon Amour, Miraggi 2018, non è sceso in campo con l’intento di rivoluzionare la storia della letteratura. Molto più serenamente, lo scrittore torinese di origini sarde si limita a regalarci qualche momento di leggerezza e riso. E lo fa raccontandoci la  toria tragicomica di una famiglia comune, la cui vita si trascina tra un’avventura grottesca e l’altra. Travolti dalla sua inguaribile tendenza a tramutare ogni situazione in un’occasione di divertimento, siamo andati a intervistarlo con l’animo sollevato, sicuri che non ci avrebbe ammorbati con la solita tiritera, della serie “sono il migliore, ma ancora nessuno l’ha capito”.

Insomma, ragazzo mio, hai letto i classici: Dostoevskij, Kafka, Camus, Sartre. Hai studiato a Torino, con pensatori del calibro di Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris. Ti sei laureato in Filosofia a pieni voti… Com’è che poi hai deciso di non prenderti per niente sul serio e diventare l’autore di Frigorifero Mon Amour?

Questo libro che parla dell’amore per un frigorifero è qualcosa di serissimo. Ed è la diretta conseguenza dei miei studi filosofici e della mia imbarazzante dipendenza dai classici. Solo dopo aver conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia Morale ho capito che, se volevo scrivere qualcosa di serio, dovevo evitare in tutti i modi la serietà.  l mio intimo amico Franz Kafka, quando leggeva agli amici le pagine di Il Processo, rideva fino alle lacrime.

Hai scritto un libro che diverte ed è segnato da una profondissima leggerezza di fondo. A tuo avviso, nel mondo letterario, c’è bisogno di qualcuno che faccia ridere, di autori che non perseguano il tragico come partito preso?

Sì, penso che la leggerezza sia necessaria, soprattutto in questa nostra società liquida e liquefatta che viaggia a ritmi vertiginosi. La leggerezza, d’altronde, non è superficialità, come già affermava Calvino, ma qualcosa di essenziale e profondo. Basta solo non dimenticarla nello scomparto dell’umido. Insomma, non bisogna lasciarla ammuffire nel frigorifero, ma cibarsene quotidianamente. I medici consigliano di consumarne almeno cinque porzioni al giorno.

Quando ti ho presentato a Cagliari, hai confidato al pubblico di aver scritto qualcosa già prima, un libro che, se non ricordo male, avevi anche inviato al Premio Calvino. Quando ti è stata recapitata la scheda finale di valutazione, il tuo testo è stato bocciato senza possibilità d’appello e tu sei stato invitato a levarti dalle palle. Ci potresti raccontare dell’accaduto? Sono sicuro che saprai presentare un momento così difficile per uno scrittore come qualcosa di divertente e, magari, tirare un po’ su di morale i tanti scrittori che sono abituati a ricevere solo rifiuti. Ah, già che ci sei, potresti pure dirci cosa ne pensi dei premi letterari in generale.

Certo! Pensa che io avevo lavorato a quel manoscritto per diversi anni. Si trattava di una serie di racconti esoterici collegati tra loro. Il risultato era tra il terrificante e l’imbarazzante. Per fortuna, la giuria me lo fece notare. Io ci rimasi malissimo ovviamente, perché chi scrive pensa sempre di essere vicino al Nobel per la Letteratura. Ma le critiche e le stroncature, alla fine, sono il momento più prezioso, se si vuole davvero migliorare nell’arte della scrittura. Se non avessi ascoltato i consigli e i pareri negativi che mi sono stati rivolti, adesso non sarei qui a rispondere alle tue domande. Perciò, mi sento di suggerire a chi inizia a scrivere di fare tesoro di tutte le critiche e i suggerimenti, perché proprio lì si possono cogliere i segnali da seguire per trovare la direzione giusta. I premi letterari, inoltre, sono una bella occasione per mettersi alla prova e per confrontarsi con altre persone che hanno la tua stessa passione.

La cifra distintiva della tua narrazione sembra essere quella dell’esasperazione del quotidiano in chiave dolcemente grottesca. Com’è che hai deciso di adottare una simile soluzione nella tua scrittura?

Questa esasperazione grottesca non è studiata o programmata, fa parte di me da sempre. È una tragica tendenza della mia troppo fervida immaginazione. Mia moglie è giustamente disperata perché, conoscendomi bene, sa che, quando le racconto un fatto, questo non corrisponde mai al vero. Sono sostanzialmente un individuo disturbato che trascrive su carta i suoi deliri quotidiani.

Andrea, è la vita a essere divertente e la tua scrittura, di conseguenza, la imita; oppure la vita è così dolorosa che la letteratura deve riscattarla buttando in vacca ciò che è solo pena e afflizione? Perdonami la domanda che fa palesemente il verso a Marzullo.

Grazie per questa domanda marzulliana, che tuttavia non ho compreso completamente. Ma per non sfigurare voglio rispondere citando la Critica della Ragion Pura di Immanuel Kant, che, tra l’altro, fa molto figo. Direi che sono le nostre categorie mentali a dare forma al mondo. La realtà è divertente, tragica o noiosa sulla base degli “occhiali” che portiamo. L’ironia è un abito mentale, un abito che andrebbe insegnato a scuola a mio parere, perché permette di guardare le cose da prospettive diverse e consente di trovare soluzioni inaspettate. Con questa risposta credo di esserne uscito alla grandissima e, nello stesso tempo, di aver spremuto completamente il mio unico neurone. Ti chiederei pertanto di abbassare notevolmente il livello delle prossime domande.

Tu hai, diciamo pure, un buon successo presso il pubblico dei social, un successo che molti scrittori che perseguono la serietà a ogni costo si sognano. Da cosa pensi che dipenda una simile attenzione che tu riesci evidentemente ad attirare e altri no?

Ho iniziato a postare alcuni dei miei racconti da un paio d’anni, quindi relativamente tardi. Il mio approccio ai social è poco virtuale: io tratto tutte le persone che interagiscono con me come persone reali, per cui, se mi scrivono e commentano i miei post, rispondo sempre e, magari, nasce una conversazione, uno scambio, un’amicizia che va al di là della rete. E non importa se devo replicare a trecento messaggi in una sera. Sono tutte persone che hanno impiegato il loro tempo per dirmi qualcosa e il minimo che io possa fare è dare risposta a ognuno. Credo che il segreto stia qui. D’altronde, quello di cui abbiamo bisogno tutti è di essere riconosciuti, mentre i social, al contrario, spingono verso la massificazione e l’anonimato.

Non ho mai capito perché, ma mi pare che molti autori italiani si sentano provinciali a raccontare di ciò che li circonda. Tu, invece, sembri molto legato al quotidiano, alla vita di tutti i giorni. Infatti, come si evince da Frigorifero Mon Amour, prendi ispirazione dalla tua famiglia, dai colleghi di lavoro, ovvero dalle persone che ti ruotano intorno ogni giorno, per quanto ti conceda di trasfigurarli in chiave ironica. Non pensi che ci sia qualcosa di profondamente triste in tutti questi scrittori che hanno timore di raccontare con semplicità e onestà ciò che sono, la loro quotidianità, e tentano pietosamente di ambientare i loro romanzi in America o in altri posti che forse hanno visto di sfuggita per una settimana, durante le vacanze?

Sì, sono assolutamente d’accordo con te. Il meraviglioso e lo straordinario sono nel quotidiano che abbiamo davanti agli occhi. Non avrei altro da aggiungere. Scusa la brevità della risposta. Sono ancora un po’ stanchino, dopo la domanda precedente.

Tu hai scritto anche poesia, almeno in passato, giusto? Perché non ce ne reciti una, raccontandoci anche il retroscena?

Se proprio insisti… posso recitarti questa che si intitola A Pasqua. È la prima che ho scritto, avevo sette anni: “A Pasqua fuma la vasca,/ fuma da Pavia,/ in provincia di Lombardia”. Questa poesia, come vedi, anticipa l’ermetismo, il simbolismo e il provincialismo. Nasce dal fatto che, quando ero piccolo, mio padre, per farmi il bagno, mi immergeva in una vasca di acqua bollente che riempiva la stanza di vapore. Il riferimento a Pavia, invece, non è del tutto chiaro. Alcuni critici hanno pensato a un viaggio segreto compiuto all’età di un anno e mezzo, mentre altri pensano si tratti di un’influenza massonica lombarda.

Prova a immaginare di finire nei manuali di letteratura tra cinquant’anni. Secondo te, cosa scriverebbero i curatori in merito alla tua poetica?

Sicuramente parlerebbero di “poetica dell’elettrodomestico”, perché per primo ho dato voce al frigorifero, alla lavatrice e al forno. Quello che mancava nella storia della letteratura era proprio una corrente alternata e ammuffita.

C’è qualcosa di cui vorresti scrivere, ma per cui non pensi di avere le capacità?

In generale di tutto. Io sono estremamente critico verso ciò che faccio e, soprattutto, che scrivo. Dopo aver rivisto centinaia di volte quello che mi esce dalla tastiera del pc, mi sorge sempre l’istinto di darlo alle fiamme. In tutta sincerità, non credo di essere particolarmente dotato con la penna. Ci sono tantissimi scrittori veri, molto più bravi di me. Io mi limito a mettere nero su bianco una storia quando proprio ne sento la necessità e, con tutti i mezzi che ho a disposizione, cerco di limitare i danni.

Stai scrivendo un secondo romanzo, se non ho capito male. Di cosa parlerà? Dobbiamo aspettarci un nuovo Andrea Serra, o quello che oramai ci è caro?

Quello che ho iniziato a scrivere è la continuazione di Frigorifero Mon Amour. Però ci saranno tante novità, sia in termini di trama che di personaggi e, soprattutto, di numerazione delle pagine. Per la prima volta nella storia della letteratura, queste non saranno indicate con i numeri, ma con i puffi disegnati da Luna (mia figlia). Ad esempio, al posto del numero uno, a pagina uno ci sarà Puffo Ercole; a pagina due, Puffo delle Mezze Stagioni; a pagina tre, Puffo Caccola Verde… E via dicendo.

Matteo Fais