È appena uscito un romanzo di Daniela Cicchetta che vuole essere, nello stesso tempo, un monito contro la dissipazione che la specie umana sta facendo del pianeta che abita e la visione di una realtà che vada oltre il mondo apparente che tutti conosciamo. Sono innumerevoli i riferimenti nell’immaginario che possono venire in mente al lettore di questo libro, dal Vagabondo delle stelle di Jack London a film come Interstellar e Matrix. S’intitola L’ultima lettera di Einstein (Miraggi 2022) e quindi chiama come testimone anche quello che è stato il più noto scienziato del Novecento, del quale racconta dei documenti inediti riscoperti in un futuro distopico. Il romanzo, infatti, racconta tre storie che si svolgono nel passato, nel presente e nel futuro, ma che nella realtà di questa storia avvengono in uno spazio temporale unico. Le tre protagoniste sono Dunia (una donna di oggi dalla sensibilità particolare), Dymfna (una sacerdotessa druida che vive nel 54 a.C. durante lo sbarco di Giulio Cesare in Britannia) e Deena (una ricercatrice del 2190), legate tra loro da un legame misterioso e astrale. I temi del romanzo sono così interessanti e la storia così coinvolgente che non poteva mancare un’intervista all’autrice, no?
Come nasce l’idea di questo romanzo?
Probabilmente questo romanzo nasce con me per poi prendere voce quando ho cominciato a percepire quello che le mie protagoniste chiamano “il dolore del mondo”. Sono anni che ci lavoro, ma era rimasto sospeso in attesa di un messaggio d’inizio, così come la narrazione dei viaggi astrali che Dymfna, Dunia e Deena fanno continuamente. Fogli su fogli scritti a penna che attendevano di essere inseriti in una storia che è arrivata nel 2019, durante un viaggio a Stonehenge. Citando Dunia, la donna del presente: “Come in un puzzle senza un’immagine di riferimento, vidi ogni più piccolo tassello adattarsi alla perfezione a un disegno che non avevo ancora compreso e che era sempre stato lì, sotto i miei occhi”
C’è molto della tua vita in questa storia?
La voce narrante è Dunia, una donna della nostra epoca, e sì, mi somiglia molto per esperienze di vita e pensiero filosofico. In sanscrito Dunia significa Terra, era anche a lei che volevo dar voce. Il romanzo è pieno di riferimenti simbolici che raccontano quello che a parole non può essere spiegato, il continuum passato/presente/futuro, gli elementi di acqua terra e aria, la triplice divinità femminile fanciulla madre e anziana o gioia pace e amore, l’identità collettiva e la fusione con la Natura. C’è anche un’araba fenice come buon auspicio, mi auguro che assolva il suo compito grazie a un risveglio generale.
Il tuo sembra quasi un messaggio che riguarda la possibile distruzione climatica del nostro pianeta, secondo te gli scrittori possono avere un ruolo attivo nel denunciare i drammi contemporanei, oppure la loro parola cade nel vuoto?
Dipende, se siamo arrivati a questo punto di sicuro il problema è nell’indolenza, nel procrastinare decisioni e azioni. Nella storia si parla di ben due allarmi, reali, lanciati dagli scienziati di tutto il mondo, ti rispondo con le parole di Deena, la donna del futuro:
Era il 1992 e diversi scienziati, premi Nobel e altri millesettecento firmatari allertarono che l’impatto delle attività umane sull’ambiente avrebbe danneggiato il pianeta in modo irrimediabile, definendo il riscaldamento globale una delle minacce più gravi per il futuro.Venticinque anni dopo ci fu un nuovo allarme, questa volta lanciato da oltre quindicimila scienziati!
Il mio romanzo è una goccia nel mare (inquinato) delle denunce a tutela dell’ambiente, trascurato per ragioni politiche ed economiche, non abbiamo mai teso l’orecchio con vero interesse. Siamo il capitolo più distruttivo della storia dell’Umanità; narro anche di rivolte neonaziste contro la globalizzazione iniziate in Eurasia e delle guerre per il predominio, del fatto che depauperiamo dove viviamo e che siamo naturalmente autodistruttivi, egoriferiti. Non ti nego che sono rimasta scossa quando molte delle cose che avevo scritto hanno cominciato a verificarsi. Comunque dobbiamo continuare a parlarne e a scriverne, non smettere mai, anche una piccola goccia di consapevolezza può fare la differenza.
Hai narrato tre donne, pensi che ci sia una sensibilità femminile più attenta di quella maschile per questi temi?
Non amo fare differenza di genere per la sensibilità, ho narrato di tre donne perchè questa è la storia che mi è arrivata, la quarta protagonista è la Dea Madre che ascolta, subisce e reagisce.
I personaggi maschili del passato e del futuro vivono retaggi egotici che non riescono a superare, forse qui si potrebbe trovare un clichè, però ti assicuro che non è legato al loro sesso ma al tipo di ruolo che ricoprono nelle due società. Flavio Aurelio è un centurione romano che fa della conquista una filosofia di vita e Dymfna, la donna del passato, cerca di risvegliare in lui una conoscenza animica sopita forzando la naturale evoluzione degli eventi. Marcel è uno scienziato del futuro, legato all’indottrinamento di una società che decide della sua vita sociale e sentimentale, ma anche una persona estremamente rigida, di quelli che non ho mai compreso, che rinunciano a situazioni o persone facendosi del male ora per non soffrire successivamente. Con Flavio Aurelio e Marcel volevo proprio identificare una sorta di autolesionismo di chi segue troppo la ragione accantonando il cuore o di chi non si ritiene mai responsabile delle sue azioni. La società di oggi, se vogliamo: i due uomini rappresentano quello che siamo diventati, autoriferiti e disposti anche a fare del male pur di non accogliere l’ignoto che ci destabilizzerebbe.
Chi è per te Einstein?
Un uomo estremamente curioso, in buona fede, intrappolato nella folle corsa dell’esplorazione scientica, che ha sofferto del genìo e della speculazione fatta sulle sue scoperte. Un uomo solo, un sognatore sicuramente, un difensore della libertà, con grandi difficoltà ad amare e a lasciarsi andare, conscio e pentito di aver confinato il figlio in un ospedale psichiatrico.
Un uomo di coscienza, addolorato dall’utilizzo nefasto della bomba atomica, uno scienziato che ha cercato di avvertire il mondo di quello a cui stava andando incontro. Sua la citazione: “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta sì: con bastoni e pietre”. All’interno del romanzo è citato il Manifesto Russell-Einstein con il quale, poco prima di morire, insieme al filosofo e matematico, si fa promotore di una dichiarazione a favore del disarmo nucleare in nome della pace. Ci ha visto lungo, non credi?
Quanto c’è di vero e di Einstein in questa “Lettera”?
Ci sono due citazioni nella lunga lettera che Albert Einstein scrive al figlio Eduard: “Tutto è energia e questo è tutto quel che esiste” e “Credo di aver capito che uno stile di vita vegetariano, per il suo effetto puramente fisico sul temperamento umano, avrebbe la più benefica influenza sulle sorti dell’umanità”. Il resto mi è arrivato, e non mi chiedere come, sotto dettatura di un inconscio che spesso muove le mie mani sulla tastiera. È una lettera piena d’amore per il figlio e l’Universo, che si chiude con la consapevolezza di un qualcosa che va oltre la ragione scientifica della quale si era sempre fatto paladino. Una coscienza che gli arriva attraverso una “nota stonata”, ma solo quando permetterà al suo sentire di allinearsi al suo sapere, per scoprire che il vero “orizzonte degli eventi” è dentro di noi.
Come hai lavorato per raccontare la parte storica del romanzo?
Nel 2019 ho atteso l’alba del solstizio d’estate a Stonehenge, all’interno del cerchio di Pietre, è lì che la storia si è chiusa, diventando chiara nella mia mente. Fortissimo il messaggio, ho capito che non potevo più rimandare quello che sentivo di dover scrivere. Ricostruire i colori e i profumi della Britannia non è stato difficile, da sempre sono attratta da quei luoghi e dalla cultura druida, i tempi coincidevano con le prime guerre di conquista in Gallia, e avevo studiato che alcuni contingenti si erano spinti in Britannia per una fase esplorativa, dove rimasero solo qualche giorno per tornare successivamente. Lì nasce la storia d’amore tra Flavio Aurelio, centurione romano, e Dymfna, sacerdotessa druida.
Nell’immaginare il futuro, ti sei servita di qualche studio scientifico?
Per quello ho usato l’immaginazione, almeno credo, perché le informazioni sono arrivate fluidamente, “vedevo” ciò che scrivevo e ne ero immensamente dispiaciuta. Deena è una ricercatrice e abita il futuro distopico del 2190, dove la comunicazione è cerebrale, si vive sottoterra al riparo dal sole malato e l’alimentazione di sintesi poiché nulla nasce più sul Pianeta, depauperato dalle generazioni precedenti. Ha un compagno obbligatoriamente a lei abbinato in base alla compatibilità del DNA, ma viene coinvolta nel Progetto Connaissance, ultima possibilità di salvare la Terra, da Marcel, l’uomo che ha amato e dal quale si è dovuta allontanare per rispettare le regole della società nella quale vive. Qualche anticipazione c’era già nella mia antologia di racconti Doppio Legame: abbinamento sul Dna, teoria delle stringhe e buco spazio temporale. Avevo dato una prima voce a questi argomenti che mi hanno sempre affascinato.
A un certo punto nel romanzo si parla di una lingua perduta, pensi che in futuro molto di quello che siamo si perderà?
Di certo non mi preoccupa la perdita di una lingua, nel futuro che ho dipinto si comunica attraverso quella ausiliaria, la stessa in tutto il pianeta. Stiamo già perdendo molto di quello che avevamo conquistato con millenni di evoluzione, siamo tornati selvaggi, ci siamo anestetizzati emotivamente.
Vorrei tanto si abbandonassero le guerre, questo folle accanimento per il predominio, il sacrificio di vite per interessi economici e politici, l’arroganza verso il nostro pianeta che ci porta a saccheggiare dove viviamo. Il dolore del mondo, lo senti anche tu?
Hai raccontato tre epoche, oltre alla nostra anche quella storica degli antichi druidi e quella fantascientifica della società futura. In quale ti sarebbe piaciuto di più vivere?
Non importa se passato presente o futuro, vorrei vivere in una società forse utopica, che non conosce violenza o imposizioni, dove l’interscambio del dare e avere sia spontaneo, le persone in armonia e l’interesse per l’anima sia almeno pari a quello per la mente e il benessere economico.
Una società dove non ci sia bisogno di sgomitare e ognuno possa esprimersi in quello che gli viene meglio. Una collettività che si sostiene e che guarda al futuro delle generazioni successive, con l’orgoglio di essersi meritata un posto in questa dimensione per migliorarsi.
Sono una sognatrice, lo so, ma se in uno dei prossimi viaggi astrali dovessi trovarla, mio caro Paolo, verresti con me?
PATRIZIO ZURRU: “MOLTO DELLA FORMA RACCONTO LA DEVO AL MIO DISORDINE, CON LA FORMA LUNGA RISCHIEREI DI PERDERMI”
Patrizio Zurru ha appena pubblicato per la casa editrice Miraggi un libro di racconti di una pagina o poco più (sono 65 come il suo anno di nascita, precisa lui) dal titolo Endecascivoli, che con la sua carica ironica e surreale sembra già un racconto in sé e per sé. Io ho sempre trovato molto interessanti le storie brevi e ne scovo poche in giro tra gli autori di casa nostra (pure se sono una tradizione antica e ricca della letteratura italiana). In più mi piacciono i calembour venati di nostalgica malinconia. Inoltre l’ironia di Zurru non gli impedisce di scambiare con il lettore sguardi che vanno oltre una lettura superficiale e anzi riesce a portarlo dallo stupore al dramma e dal divertimento sottile all’apertura di impreviste finestre da cui scivolare in nuovi universi che potrebbero aprirsi appena oltre quello della nostra vita quotidiana. L’autore stesso sembra scivolare come i suoi racconti sulle onde del mare agitato dell’editoria, visto che oltre a scrivere è stato editore, libraio, agente letterario, ufficio stampa e ora si occupa della comunicazione della casa editrice Arkadia, dove cura la collana SideKar insieme a Mariela e Ivana Peritore. Così mi è sembrato giusto scambiare con lui le solite due chiacchiere domenicali (in genere sono quattro le chiacchiere, ma qui parliamo di racconti brevi e non di romanzi…).
Il lettore incontra subito una citazione da Augusto Monterroso, che fu citato da Calvino nelle sue Lezioni americane. Ti trovi a tuo agio lì, tra la rapidità e la narrazione fantastica? Questo racconto di Monterroso apre dei mondi con poche parole, mi piacerebbe pensare fosse così anche per i miei, in realtà molto della forma racconto la devo al mio disordine, con la forma lunga rischierei di perdermi.
Il titolo invece è un calembour che richiama il verso poetico, un verso che però sembra non riuscire a contenere tutto quello che vuoi dire e lo lascia scivolare giù. Questo ho pensato, è un po’ folle come lettura? È la giusta interpretazione, fatto salvo il fatto che più che di poesia lo chiamerei ritmo (o Ritmo, come l’auto Fiat che tutto era tranne auto e tranne ritmo).
Insieme ai racconti il libro contiene delle cornicette che invitano i lettori a disegnare, a scarabocchiare, come si faceva durante le telefonate di una volta (scrivi tu), mi pare un chiaro invito alla creatività del lettore, no? È pensata come forma di lettura interattiva, ero curioso di sapere cosa può ispirare la lettura, quindi la cornice col bianco lascia la possibilità di sfogarsi, nel bene e nel male.
La leggerezza che insegui però non esclude la malinconia e nemmeno il dramma. Si può dire proprio tutto in poche parole? Abbiamo uno dei migliori vocabolari al mondo, per quantità di termini. Io credo che incastrati bene, come nel Tetris, ci sia la possibilità di dare densità a piccoli spazi, o almeno ci provo. La risposta è Si può, sì, volendo si può.
Carbone, miniera, pioggia, terra e odori, che spazio ha nella tua immaginazione la materialità delle cose? Una presenza predominante, un riappropriarsi di tutto quello che la velocità e i nuovi mezzi ci fanno trascurare, perché ritenuti pesanti o superflui. L’idea di scrivere per odori, colori, sensazioni epidermiche mi ha sempre attirato.
E la nostalgia? La nostalgia c’è, ma non solo la mia. Racconto la nostalgia dei miei familiari, genitori, fratelli, zii e cugini, per quello che poteva essere perduto. Molti dei racconti sono scritti quasi su commissione, non esplicita ma dettata da mezze frasi riferite a episodi di quei tempi.
Mi ha colpito in uno dei racconti l’apparizione/sparizione di Gigi Riva. Ti appassiona l’epica del quotidiano? Mi appassiona moltissimo. In quel caso si trattava di un personaggio noto a tutti, e qui si gioca facile, mi interessa come facente parte dell’epica molto di più il tipo in bicicletta con la molletta a tenere il pantalone, la brillantina e la Nazionale senza filtro, un personaggio così ho scoperto essere ben più condiviso nella memoria collettiva, (Almeno, da chi ha più o meno i miei anni).
I racconti sono in prima persona ma, insomma, quanto è vero quello che racconti? Sei sempre tu il protagonista? Si parte da una base sì vero, ci sono sempre io, più o meno, o qualcuno a cui sono stato particolarmente legato, anche nei racconti “inventati” e alla Big Fish, come la storia del tipo che legava gli spaghi e l’uomo sui trampoli, ci sono nella misura in cui ho raccontato la verosimilità di personaggi realmente esistiti.
Hai mai immaginato un Patrizio Zurru nato in un’altra parte del mondo? Come sarebbe uno Zurru non sardo? Ho pensato a un Zurru non sardo, e mi è mancata l’isola intorno, come sentirsi nudo senza questo vestito fatto di doppie consonanti, vento e spruzzi di acqua salata.
Lavori da anni nell’editoria, con libri e autori, come la vedi oggi? C’è una voglia assurda di vedere il proprio libro pubblicato, come se questo potesse contribuire a renderci immortali, non considerando che invece questa quantità enorme di libri che entra in circolo non fa altro che renderci tutti più invisibili, uno sputo nel mare.
MARCO PROIETTI MANCINI: “IO SCRIVO SEMPRE DI GETTO E DI ISTINTO”
Marco Proietti Mancini ha da poco pubblicato un nuovo libro di racconti, Non serve nascondersi (Miraggi edizioni), dopo diversi romanzi e altre raccolte. Romano, ama scrivere storie nelle quali oltre a lui si riconosce facilmente anche il suo pubblico, come la trilogia Da parte di Padre, Gli anni belli, Il coraggio delle madri e i romanzi Oltre gli occhi e La terapia del dolore. Instancabile, fa anche il curatore di antologie e il giurato nei premi letterari. Ci è venuta voglia di ascoltarlo, leggendo i suoi racconti che vogliono prendere posizione con forza in una realtà sempre più oscura e difficile da sopportare.
La tua raccolta di racconti si apre con una dedica suggestiva: “Questo libro è dedicato a tutti quelli che si sentono diversi. Siete diversi, siamo diversi, siamo unici. Siamo ricchi”. A parte il contenuto dei racconti che in effetti la giustifica, perché hai scelto di rivolgerti a chi si sente “diverso”, e che intendevi con questa parola?
Sono partito da una riflessione tutta interiore e – temo – molto poco originale. L’umanità (e quindi gli individui che la compongono) ha bisogno di secoli per progredire e invece le bastano pochi anni, a volte mesi, per tornare indietro. Quello che sembrava fino a pochissimo tempo fa un modello avviato e consolidato di integrazione ed accettazione della “varietà”; termine che gradisco molto di più di “diversità”, è stato totalmente rimesso in discussione con una involuzione a tutti i livelli, sociale, politica, scientifica.
Ho voluto dimostrare che la varietà è una ricchezza, un’opportunità, una realtà umana inequivocabile e innegabile. Nasconderla, negarla, vietarla, è l’ipocrisia maggiore. I miei “diversi”, a vario titolo, sono la dimostrazione di un’esistenza forte, che non può e non deve essere cancellata in un’omologazione che – quella sì – mi spaventa.
Non sono i “diversi” che mi fanno paura, sono gli “uguali” forzati.
Nel primo racconto fai un paragone di grande effetto tra chi arriva sui barconi oggi e chi si muoveva più o meno nello stesso modo in altre epoche. È una storia che si ripete sempre, ma c’è chi dice che un tempo era un’altra cosa. Non hai paura di essere attaccato da una parte del pubblico?
Veramente più che una paura, la mia è una speranza. Quel racconto non è altro che una “cronaca”, tanto inventata quanto verosimile (e quel che in un libro è verosimile, diventa “il vero”). Che mi attacchino per aver scritto una storia che è LA storia. Sarà così che attaccheranno loro stessi.
Il complimento più bello ricevuto per quel racconto?: “Ma quello non l’hai scritto tu, è un documento originale, come mai non hai messo la fonte?”
In questi racconti utilizzi spesso una struttura a rivelazione finale, fai crescere la tensione lasciando sconosciuti alcuni particolari decisivi per il lettore e li riveli proprio all’ultimo, come nella busta che viene consegnata a uno dei protagonisti. Ti è venuto naturale costruirli così oppure l’hai deciso a tavolino?
Non riesco a “costruire a tavolino” neanche i romanzi, figurati se potrei farlo con i racconti, che sono l’istantanea di un’emozione, il fermo immagine di una storia immediata, che rappresentano poche ore di una vita, a volte pochi minuti.
Mi rendo conto che i puristi delle tecniche narrative inorridiranno, ma io scrivo sempre di getto e di istinto, lasciando alle fasi di revisione le verifiche di congruità e il controllo temporale degli avvenimenti. Certo è che la maggior parte di questi racconti sono stati scritti in un arco temporale breve, due, tre settimane, quindi è venuto naturale assecondare una struttura narrativa abbastanza simile.
Tra i “diversi” che popolano queste storie c’è spazio anche per gli animali, c’è un cane molto amato. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei nostri “fratelli” pelosi?
È un rapporto fisico, animale. Un rapporto naturale di relazione corporea. Il cane che vive con noi è parte integrante della famiglia. Dorme con me, giochiamo insieme, ci guardiamo negli occhi e – secondo me – chi soffre nel “non capire” sono io. Perché lui mi capisce benissimo.
Sono convinto di quel che ho scritto nel racconto in cui parlo di lui, sono esseri “migliori” nel loro essere diversi (vedi, perché c’è un racconto sul mio “figlio diverso”?), sono capaci di amore incondizionato e quindi purissimo. I loro calcoli, se pure il loro fosse un amore interessato, sono calcoli basati su istinto e natura, mai su convenienza.
Molto del tuo immaginario in queste storie si regge sulle relazioni che toccano i sentimenti essenziali dell’uomo. Ti offenderesti se qualcuno ti definisse sentimentale?
Ne sarei orgoglioso. È una definizione positiva, che porta con se valori e ricchezza. Anche qui, credo che bisognerebbe essere capaci di rivalutare al positivo etichette come – appunto – “sentimentale” emancipandosi da snobismi e cinismi di facciata.
Io scrivo di sentimenti, le persone vivono di sentimenti. Ci può essere qualcosa di più bello di cui vivere e di cui scrivere?
Altri personaggi delle tue storie sono i bambini, bambini in difficoltà, a rischio in questa vita, oppure chiusi nel loro autismo, come in Dondolo. Sei colpito dalla loro fragilità?
Sono colpito e provo pulsione a proteggere qualsiasi fragilità, dei bambini, degli anziani, dei disabili, degli animali, delle donne violate. Nel caso dei bambini c’è un’ulteriore motivazione, più estesa e sociale di una pulsione emozionale e immediata; i bambini di oggi saranno gli adulti di domani, trascurarli oggi, diseducarli, violarli, produrrà una società peggiore. Mi viene da pensare alla risposta alla prima domanda, se la società è imbarbarita e peggiorata, forse è anche colpa di una diseducazione dei bambini degli anni ’70 e ’80. Forse.
Mi ha molto colpito in un racconto la definizione “uomo di merda” che il padre del protagonista riserva a un personaggio squallido della storia, questa definizione è dovuta alla rabbia del momento oppure secondo te esiste davvero qualcuno che merita in modo assoluto queste parole?
Esiste davvero, esistono davvero. La rabbia del momento è quella che ti fa pronunciare quelle parole e ti fa battere i pugni dalla frustrazione. La lucidità è quella che ti permette – consapevolmente e coscientemente – di riconoscere questi uomini di merda, di evitarli, di controllarli, se possibile di metterli in condizione di non esercitare la loro natura e di non trarne vantaggi. Durante una delle presentazioni mi è stato chiesto “quindi per te la diversità è un valore assoluto?”. La risposta è no; ovviamente, no. Ci sono diversità che sono negative, disvalore, pericolo. Un pedofilo è un diverso che va messo in condizione di non nuocere, come un uomo violento, come un sadico, eccetera.
Uomini di merda, appunto.
Quanto c’è di autobiografico nelle tue storie? O meglio, quanto c’è di inventato? Perché sembri essere forse il protagonista di tutti questi racconti.
Bellissimo complimento, sai? Significa che il mio personalissimo “Metodo Stanislavskij” secondo il quale applico un transfert (naturale e non studiato) tra scrittore e protagonista, funziona bene. Comunque, per essere concreto; ci sono storie che sono di ispirazione “autobiografica” nel loro spunto iniziale; “Il natale di Antonio”, “Uomini di merda” e “Figlio mio”, quest’ultimo in realtà molto più che nell’ispirazione.
Tutte le altre sono pura invenzione e immedesimazione.
C’è pure un racconto erotico (per quanto alla fine si scopre che i due…), c’è stato qualcuno che ti ha guardato in un modo diverso dal solito dopo averlo letto?
A parte mia moglie, dici? No, o almeno io non l’ho notato, anche se immagino che qualcuno debba essere rimasto spiazzato dalle parole che ho usato e dalle scene che ho descritto in quel racconto (per quanto alla fine si scopre che i due…)
E alla fine c’è un racconto con i dialoghi in romanesco anche se fuori contesto visto che gli eroi sono greci… Cos’è per te Roma?
Roma è tante cose ed è tutto. È vita ed è morte, è felicità e sorpresa ed è incazzatura feroce, è frustrazione ed è speranza. È disincanto, cinismo, ironia feroce ma anche romanticismo.
Di questi ultimi, tristissimi tempi, respiro anche un sentimento che nei miei primi cinquantotto anni di vita non avevo mai assorbito; la rassegnazione. A Roma c’era il fatalismo, che significava dire “tanto ha da passa’“; ma il fatalismo è lo scrollare di spalle e il dire “sopravviveremo anche a questi e torneremo grandi”. Adesso noto la resa che si fa trascuratezza, l’abbandono, la perdita della voglia di incazzarsi e combattere. Perfino quella di risolvere tutto con una battuta e una risata, perché alla fine “Sémo romani, ma ‘sticazzi!”
Riguardo al racconto, dopo tredici storie tutto sommato, almeno nelle intenzioni, impegnative, volevo appunto regalare un sorriso e una risata. E come farlo meglio se non, appunto, spruzzando di spirito romanesco un racconto, parodiando quei seriosi dei greci?
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