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CARA CATASTROFE – recensione di Valeria Bianchi Mian su Poesie aeree

CARA CATASTROFE – recensione di Valeria Bianchi Mian su Poesie aeree

CARA CATASTROFE | Felicia Buonomo (d’amore e rovina)

Che cos’è mai questa Cara catastrofe?

O meglio: dove trova luogo una tanto potente amica di penna?

Rovina è il suo sinonimo –  allo specchio riflesso si fa uguale e contraria all’amore e, giocando a immaginare, fa sì che l’affetto degli amanti diventi eroma. Se la catastrofe è amica interiore, i relitti sono dentro la relazione, ed ecco che allora, matematicamente, il risultato è ‘uno fratto’ quell’abbracciarsi forte tra le macerie della coppia archetipica nel dipinto di Burne-Jones Love among the ruins.

Catastrofe, cara – accende romantiche assonanze ed è risoluzione drammaturgica (possibile), capovolgimento dal rosso al nero, parola viva che mi lascia immaginare l’Appeso dei Tarocchi (carta numero XII) impegnato a trasmutarsi in Torre (il Trionfo numero XVI).
Ed è una Torre che scoppia e sputa fiamme sopra il paesaggio noto, quella che l’anima della catastrofe mi porta a fantasticare.
Sorella simbolica di penna, un ‘caro diario’ evocativo, l’Altra-in-sé di Felicia Buonomo è cara alla poeta, mai scontata né a buon prezzo – è compagna di viaggio. Echi di una privataapocalisse con relativa potenziale apocatastasi aleggiano nell’etere, insieme a Vasco Brondi che apre la silloge e canta… “a inchiodare le stelle a dichiarare guerre a scrivere sui muri che mi pensi raramente…” (Vasco Brondi – Cara catastrofe).

Cara Catastrofe

m’innamori 
come il gelo sul lungolago di Mantova, 
le luci dei lampioni di Milano,
le onde sul porto di Genova 
e la strada oscura dei vicoli di Napoli. 
Trova nuovi colori e tratti che m’incantino. 
Dipingi la geografia del mio sentire.
Io credo solo agli incantesimi.

La poeta e la sua Catastrofe – ormai fattasi Persona – procedono in carteggio univoco, come traccia unidirezionale o ricamo monologico, coinvolte nel medesimo sguardo che, sempre giocando a immaginare io definirei – riconoscimento omopsichico. E ancora dico gemellaggio interiore, incontro e resa dell’Io all’Ombra. Pensando al rapporto tra queste due istanze, non posso scacciare dalla mente la memoria di un’opera che ho amato tanto. La prosa poetica che abita La casa dell’incesto emerge nel ricordo di un passo d’acciaio e della leggerezza delle piume di un femminile simbolo dell’Altra-in-se-stessa tra le pagine di Anaïs Nin – seppur distante dal tema chiave del libro della Buonomo. Una pennellata, forse, soltanto un tocco leggero mi fa riprendere il filo nella lettura dell’impresa più difficile per le donne (ma anche per gli uomini) di tutte le epoche: ricongiungere i pezzi sparsi, rimettere insieme frammenti di sé, voci e volti dell’interiorità. Vedo l’autrice e la sua Catastrofe come la poeta e la Musa, coinquiline nella stessa ispirazione.

Elementi in luce si intrecciano alle voci in nuce, ai tratti ancora oscuri, messi a nudo fino alla scarnificazione. La pelle e la carne, da un lato. Il dolore dall’altro. La ferita in mezzo. Mentre leggo ho i brividi nelle ossa.

Cara Catastrofe

guardarti è come entrare in scena, 
senza aver mai provato la parte. 
Improvviso, inciampo, goffamente mi rialzo. 
E di nuovo inciampo. 
Nei tuoi occhi, il mio sold out. 
Non c’è spazio per replicare. 
E io continuo a improvvisare.

C’è solo un modo per soccombere senza soccombere: l’unica reazione possibile sembra essere quella del fare poesia.

Fare anima – Hillman insegna – fare il verso nello spazio di accoglienza del disastro, consapevoli della co-dipendenza dal buio. L’Altro, allora, si declina al maschile, una catastrofeche veste gli abiti dell’amato e prende, scrive l’autrice,

spazio nella linea del mio sguardo,

uno sguardo

che aderisce al tuo passo spavaldo.

L’amato ha le armi per aprire la porta alla stessa Catastrofein quanto portatore sano di rovinagiocatore esperto di ungiogo che stringe la donna, ed è un meccanismo perfetto per donare il male.

(…)
Strano meccanismo attiva il cuore: 
brilla negli occhi senza distinguere 
tra l’amore e il male. 
Accorcia il tempo, 
come la fune che mi hai stretto al collo. 
Ho sempre pensato che sarei morta di crepacuore. 
Ora so che sarà per soffocamento.

Lui ha in mano la Catastrofe adesso, forse l’ha tenuta saldamente nelle sue tenaglie sin dall’inizio.

La mia vita

scrive ancora la poeta

procede per sottrazione.

Coscienza di quella sottrazione uguale: votarsi al martirio.

Dormiamo insieme ogni notte
ma è nella crepa che dovrai recuperarmi. 
Fai piano, che anche la luce è dolore, 
dopo la culla di un buio così violento.

La Catastrofe non è fine a se stessa, se nel procedere serrato nel dolore Felicia – nomen omen, per l’uno fratto la Catastrofe stessa –  ci conduce al centro, là dove sta l’amore come

dismorfia

ed è l’amore indifferenziato tra L’Io e l’Altro il modus amandiche annulla L’Io.
È importante, mi sono chiesta, sapere a chi sono dedicate le invocazioni, le frustate emotive, gli schiaffi nell’anima, le parole che arrivano dritte al brivido del lettore?

No.

La mia impressione è che si tratti in ogni caso di un procedere immersi nella carne della violenza collettiva contro le donne, nella sottomissione e oltre la tirannia, raschiando il fondo della dipendenza affettiva conosciuta da migliaia di esseri umani fragili e forti e innamorati del male, presi al laccio nel non sapere come uscirne, senza potersi muovere da quel legame di Eros e Thanatos – amore mortale. La poeta canta un canto universale, una musica di sfiducia che diventa possibilità di ricostruzione.

In un’ottica analitica potremmo vedere la faccenda da almeno due punti di osservazione: ciò che avviene dentro risuona fuori e richiama il mondo in una danza di viceversa – è un calvario narrato per versi che condurrà alla resurrezione?

Mi ricordi che anche il figlio di Dio 
è fatto di carne che sanguina e muore. 
E che nessuno aspetterà, per me, 
il terzo giorno.

Forse, le voci altre del mondo potranno aprire la breccia, il varco nelle macerie per estrarre, prima o poi, l’anima dal terremoto.

Jessica dice che mi aiuterà 
e che non sono sola. 
Quando vado a farle visita 
non la guardo mai negli occhi. 
Ogni visita la concludo così: 
«Jessica, è colpa mia?».

Ogni staffilata poetica di questa toccante silloge è una dose di dolorosa consapevolezza. Fuori dall’inferno, l’inizio è denso grigio, è vuoto pregno che l’arte può coltivare, punti di sutura, poetica della cura.

[Valeria Bianchi Mian]

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://poesieaeree.wordpress.com/2020/03/26/cara-catastrofe-felicia-buonomo-damore-e-rovina/