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BRUCIO PARIGI. “Manifesto rivoluzionario di un futurista polacco” – recensione di Salvatore Greco su PoloniCult

BRUCIO PARIGI. “Manifesto rivoluzionario di un futurista polacco” – recensione di Salvatore Greco su PoloniCult

BRUCIO PARIGI – MANIFESTO RIVOLUZIONARIO DI UN FUTURISTA POLACCO

A novant’anni dalla sua prima uscita, arriva finalmente in Italia un romanzo polacco che ha scandalizzato la Francia

E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!… Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!… Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!… Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!… Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate!

Chissà cosa devono aver pensato i borghesi parigini la mattina del 20 febbraio 1909 sfogliando la copia appena acquistata di Le Monde. Perché proprio quel giorno, lo storico quotidiano francese ospitò questa e altre affermazioni incendiarie, provocatorie e violente firmate da un poeta italiano ancora poco noto e sotto un titolo che annunciava un movimento nuovo sulla scena letteraria: Manifesto del futurismo.

Sappiamo bene invece cosa pensarono quegli stessi borghesi parigini quasi vent’anni dopo, nel 1928, quando sulla rivista L’Humanité apparve a puntate un romanzo ispirato da quei concetti di futurismo e che parlava della distruzione della città venerata per definizione, la loro Parigi. Sdegno, raccapriccio, e la volontà di cacciare l’autore di quell’opera così dissacrante. Il libro in questione si intitolava Palę Paryż, era firmato da un polacco che si faceva chiamare Bruno Jasieński e oggi finalmente possiamo leggerlo in italiano, nella traduzione di Alessandro Ajres uscita per i tipi di Miraggi edizioni, con il titolo di Brucio Parigi.

Quando pensiamo al futurismo, noi italiani pensiamo subito a Marinetti e a un movimento artistico bruciato di un ardore intenso e consumatosi in fretta, stinto poi mestamente in un entusiasmo demenziale per la parabola mussoliniana. Dimentichiamo l’esistenza del futurismo russo che ha regalato alla letteratura mondiale l’estro dinamitardo di Majakovskij o le visioni siderali di Chlebnikov. Ancora di più dimentichiamo l’esistenza di altri futurismi, come quello polacco di cui proprio Jasieński è stato uno degli ideatori.

Gli anni Venti e Trenta del ventesimo secolo sono stati in Polonia un periodo di fervore letterario e della grande esplosione delle avanguardie. Il motivo è semplice: dopo l’ottenimento dell’indipendenza del 1918, gli intellettuali polacchi si erano finalmente liberati del ruolo di cantori patriottici che il romanticismo gli aveva lasciato in eredità, e poterono finalmente dedicarsi alla sperimentazione, alla provocazione, all’edonismo e anche alla militanza politica.

Jasieński era uno di questi. Da figlio di un ebreo assimilato e studente spiantato all’università di Cracovia, l’avvicinamento alla nascente ideologia comunista fu quasi automatica per lui. E arrivarono le tappe obbligate di un poeta futurista e giovane rivoluzionario di quegli anni: il teatro, i recital di poesie, le provocazioni, gli arresti. Jasieński era un comunista convinto, ammaliato dal fascino della rivoluzione, cresciuto leggendo Majakovskij, e lo sarebbe rimasto fino alla fine (ci arriveremo).

Nel 1929, non ancora trentenne, Jasieński si sposa, lascia Cracovia e va a vivere a Parigi. In Francia organizza circoli teatrali per i locali operai polacchi e fa da corrispondente per alcuni giornali. Non guadagna quasi niente, sopravvive a stento, matura per Parigi un sentimento oscuro che, unito alla sua missione politica, è alla base di Brucio Parigi.

La trama del romanzo è semplice e diabolica: un giovane operaio di nome Pierre viene licenziato dalla fabbrica dove lavora, viene sfrattato da casa e abbandonato dalla fidanzata Jeanette. Passa qualche giorno da senzatetto e poi viene arrestato per aver partecipato a dei tafferugli, fino a che alla fine non trova un nuovo lavoro come custode dell’acquedotto cittadino. Ed è da questa nuova posizione che Pierre matura il suo diabolico sogno di vendetta: dal laboratorio chimico dove lavora un amico, ruba una fialetta piena di batteri letali e la versa nell’acquedotto, iniziando un’epidemia che si diffonderà per tutta Parigi.

Nel giro di poche settimane, la capitale francese è presa dal caos. Agli abitanti è fatto divieto abbandonare la città per evitare di propagare ulteriormente la malattia e la città si trasforma in un enorme lazzaretto dove i gruppi sociali si trasformano in vere e proprie comunità combattenti. Un gruppo di comunisti cinesi, uno di ebrei guidati da un rabbino, gli emigrati russi e persino i francesi stessi, divisi tra repubblicani orfani della Comune e nostalgici della monarchia, prendono le armi gli uni contro gli altri occupando i rispettivi quartieri come piccoli fronti di guerra. Parigi così si consuma e muore lentamente, bloccata dentro i suoi confini e destinata a mostrare al mondo le ipocrisie imperialistiche del mondo capitalista. Gli unici rimasti immuni, per caso, al contagio sono i detenuti di un carcere riservato ai prigionieri politici. Sono perlopiù comunisti incarcerati che si ritrovano improvvisamente liberi dopo che le guardie muoiono una dopo l’altra e si aprono a una Parigi irriconoscibile. Quando capiscono cosa sta succedendo, rifondano la Comune prendendo facilmente il controllo della città dilaniata, trasformando Parigi in un Soviet ma tenendolo segreto al mondo esterno fino al giorno fatale in cui annunciano al resto della Francia quello che è successo e si preparano a espandere la rivoluzione e il verbo dei Soviet.

Agli occhi di un lettore contemporaneo, Brucio Parigi ha degli elementi che non si possono che definire ingenui, specie alla luce del destino delle rivoluzioni tentate a più riprese in Occidente e a quella dei fallimenti del socialismo reale in Urss e nei Paesi satelliti. Di certo non aveva lo stesso sapore in bocca ai parigini di allora che lessero terrorizzati questo romanzo e costrinsero Jasieński a lasciare la città e la Francia. Se filtrato nella sua prospettiva storica e ideologica, e se concediamo all’autore alcuni risvolti narrativi un po’ ingenui e dovuti a una stesura durata soli tre mesi, leggiamo in Brucio Parigi un romanzo dissacrante nei contenuti e straordinariamente interessante nella forma.

Quello che colpisce maggiormente sono delle fiammate di prosa geniale, tracce di una formazione da poeta futurista, con le quali Jasieński racconta Parigi e che ad Ajres va dato merito di avere tradotto con soluzioni molto efficaci. Concentrate soprattutto nella prima e nella terza parte di Brucio Parigi, alcune descrizioni di Parigi restituiscono un ritratto della città ben diverso da quello che tradizionalmente si fa della capitale francese. La Parigi di Jasieński è cupa, avvolgente, geometrica, alienante e ostile alla vita.

E la città che misuriamo ogni giorno si trasforma in perline di immagini distaccate, che fissano il nostro sguardo sulla pellicola della memoria. Esse si fondono in noi in un’idea uniforme della città dopo essere state infilate sul filo invisibile dei nostri passi sparsi, e formano la nostra mappa sfuggente di Parigi, molto differente dalle Parigi degli altri, che percorrono come noi le medesime strade (p. 25)

Strade lunghe e flessibili si moltiplicavano, si allungavano nell’infinità come una fune di gomma legata a una gamba; fuggivano da sotto i piedi come lucertole nei riflessi delle luci sfuggenti; ammiccavano consapevolmente dal buio con gli occhi di migliaia di alberghetti a ore (p. 29)

Il muro scricchiolava e oscillava. Il fiume innalzato dai corpi, da banconote, azioni, bottiglie, sforzi, lampade, chioschi, gambe, con un’onda rigonfia passava sopra i tetti con boati e tumulti. Dalle fauci spalancate degli alberghi, come cassetti degli armadi con le porte aperte, si spandevano materassi secolari, stantii, insonni, che crescevano e s’innalzavano come una gigantesca Babele di cento piani, dai gradini che parevano molle (p. 42)

L’estetica di Jasieński in questa prima parte sembra più simbolista che futurista, nel suo approccio scettico alla città e nel timore che essa evoca. È dovuto senz’altro alla visione che Jasieński aveva di quella Parigi capitalista vicina al collasso e alienante agli occhi di un operaio. Più genuinamente futurista, nella sua furia di distruzione, è il racconto, e l’idea stessa, di Parigi decimata e distrutta, baccello di una grande rivoluzione:

Nel silenzio mortale della città estinta, lungo il viale muto si spostava quello strano corteo, una manifestazione di gente deperita, dalle teste rasate, nelle grigie casacche della prigione, senza striscioni, con la bandiera rossa con il sole levata in alto sopra le teste; mentre negli anfratti vuoti delle viuzze quella canzone di vendetta risuonava stranamente minacciosa. La canzone dell’ultimo assalto colpiva con il proprio ritornello come il calcio di una pistola contro finestre chiuse e vuote. (p. 312)

Alla vista che si presentava davanti ai propri occhi la folla rabbrividì, come se una zampa fredda di terrore avesse toccato il suo cuore scoperto.
Nelle verande dei bistrot, sulle sedie intrecciate, sui marciapiedi e per la strada, in pose deformi e indecifrabili, così come li aveva trovati la morte, giacevano cadaveri umani che iniziavano a puzzare. (p. 313)

Ai lettori che troveranno Brucio Parigi in libreria dico di pensarci poco, svegliarlo in fretta e portarlo a casa. Non ci troveranno una trama travolgente da romanzo catastrofico scritto da sceneggiatori di Netflix per arrotondare né riflessioni fataliste nello stile di Jonathan Franzen quando la mattina si sveglia particolarmente male. Mi permetto di dire: per fortuna. Ci troveranno in compenso una Parigi che non hanno mai visto in nessun altro libro, l’attenzione alla bellezza della prosa che solo certi poeti sanno dare e che i nostri tempi di romanzieri professionisti hanno perduto, la genuinità di una brama rivoluzionaria che negli anni Trenta era sincera, mirata e che è stata tradita nel modo più tragico quando Jasieński nel 1938, da nuovo cittadino sovietico, ha pagato il prezzo di credere più al comunismo che a Stalin ed è finito fucilato a Mosca, vittima delle purghe e della rivoluzione tradita a cui aveva dedicato la sua intera vita.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Brucio Parigi – manifesto rivoluzionario di un futurista polacco

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

di Violetta Giarrizzo

“”È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela”. Così si apre questa prima edizione italiana di Nozioni di Base, con un’introduzione di Milan Kundera che ci fa presagire un libro certamente sui generis.

Petr Král è uno scrittore e poeta ceco nato a Praga ed emigrato a Parigi nel 1968, dopo l’invasione sovietica. È stato una figura di spicco dell’editoria clandestina fiorita a Parigi nonché dell’intelligenza praghese antisovietica. Diplomato alla FAMU di Praga, ha contribuito a veicolare la cultura non ufficiale svolgendo l’attività di critico letterario e cinematografico, ma anche di interprete, traduttore e insegnante, dedicandosi alla scrittura di saggi, sceneggiature, diverse raccolte di versi in ceco e in francese tra cui Enquête sur des lieux (Flammarion, 2005). Ha contribuito anche alla traduzione e alla diffusione della letteratura ceca in Europa, curando importanti antologie come Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).

Il lettore italiano può avvicinarsi a Král poeta con la raccolta di Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni 2014) e alcune poesie tradotte dal ceco e dal francese (rispettivamente da Annalisa Cosentino e da Massimo Rizzante).

Non è, invece, facile incasellare Nozioni di Base (Základní pojmy nell’edizione originale) in un genere letterario predefinito. Edito da Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (pubbicato ”tam” ovvero ”là”, ”altrove”) e tradotto dal ceco da Laura Angeloni, si presenta come una raccolta in prosa di 123 brevi e incisivi pensieri che riguardano svariati oggetti e situazioni della quotidianità dell’autore, che assumono all’interno del libro quasi una connotazione universale.

Definito da Milan Kundera come ”una bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana” si tratta di un collage frammentato di immagini, sensazioni fugaci, epifanie fulminee che lacerano per un istante il tessuto grigio e uniforme della nostra vita quotidiana. Král osserva il mondo, si concentra sugli elementi che appaiono semplici e comprensibili e ne distorce il significato e la funzione. La prima nozione di base riguarda il caffè, una delle immagini più familiari e senza fronzoli per eccellenza, che rappresenta per Král quasi un’improvvisa rivelazione, la coscienza improvvisa della propria esistenza:

”Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”.

Da questo risveglio scaturiscono gli altri micromondi di Nozioni di base, a partire da un’osservazione attenta degli oggetti comuni e apparentemente futili che ci circondano: ed ecco che Král scrive di una camicia pulita ma anche della zuppa di pesce (”…e la gustiamo con cura, ognuno per sé, la coccoliamo e ci attardiamo con lei come con il nostro destino”), dell’attaccapanni e del cestino per la carta che diventa d’un tratto il custode della nostra esistenza. Ma ci narra anche dei nostri luoghi: il bagno degli uomini e il bagno altrui, l’hotel, la Spagna e l’Italia, l’impellente urgenza di rifugiarsi altrove per fuggire dal qui e ora.

All’interno di queste minuscole avventure, raccontate in tre righe o in due pagine appena, affiorano sensazioni e stati d’animo universali e ben conosciuti: il vizio, l’inerzia, la solitudine, l’incompletezza, l’assenza, ma anche la ridondanza, le aspettative deluse, il desiderio e il sollievo.

L’avvicendarsi dei pensieri di Král ricorda e immagini multiformi di un caleidoscopio: l’autore gioca con le gli oggetti in modo imprevedibile, assembla svariati frammenti di vita, osserva le cose da una prospettiva differente, vaga con la fantasia e l’immaginazione. E così l’ordinario si fa straordinario. Scorgere una sagoma dal finestrino di un treno e pensare all’improvviso a tutte le le vite che non saranno mai le nostre, attraversare una strada e rendersi conto delle possibili scelte che ci lasciamo dietro, l’incontro fugace con una donna sconosciuta con la quale avremmo potuto trascorrere tutta una vita, le inevitabili delusioni (”la cavità in cui precipitano senza scopo le nostre mentine rinsecchite non è solo una trappola misteriosa nella stretta di due fianchi, ma è lo sbadiglio dell’intero deserto cosmo”)

Tutto ciò con cui ci scontriamo ogni giorno sembra avere un’essenza nascosta che Král cerca di rivelare e di interpretare attraverso l’introspezione. Ogni cosa ha la potenzialità, quindi, di rivelarci qualcosa di profondo sulla nostra esistenza, di ”svelare il vero bagliore delle cose nella loro usura”, se solo la osserviamo attentamente. E così una giornata passata a languire nella quiete domestica può portarci a delle conclusioni inaspettate sulla nostra vita.

Ho amato molto questa raccolta, un vero e proprio compendio della vita, con la sua struttura frammentaria, il linguaggio asciutto e a tratti corrosivo, in cui ognuno può perdersi e ritrovarsi. Un approccio molto singolare a questo autore di certo da riscoprire.

trovi la recensione di Violetta Giarrizzo anche qui
https://polonicult.com/nozioni-di-base-di-petr-kral/