Alessandro De Vito pubblica il libro fiume della poetessa e drammaturga Radka Denemarková scritto fra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum.
È tutta una questione di recupero di memorie. Poi però bisogna intendersi sul significato di ricordo e di memoria, e anche sull’uso del singolare o del plurale. Quello che adesso fa Alessandro De Vito, 53 anni, fondatore nel 2010 di Miraggi Edizioni, figlio di Antonio, pugliese, giornalista, e di Dana, maestra, ceca di Ostrava, allora ancora Cecoslovacchia, è figlio della volontà di riannodare la memoria perduta.
La dice così. E “La memoria perduta” potrebbe essere il titolo di un libro, il suo libro, se mai lo scriverà. Per ora pubblica quelli degli altri. E oggi ha sul tavolo l’ultima fatica-follia-avventura data alle stampe, definita «la nostra più grande impresa editoriale». Esce a metà di questa settimana: “Ore di piombo” di Radka Denemarková, poetessa, drammaturga, traduttrice, una delle intellettuali più ascoltate della Repubblica Ceca. Un libro fiume, anzi mare, anzi oceano: 928 pagine scritte in cinque anni tra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum. Tre anni ha impiegato per tradurlo Laura Angeloni, che ne parla come di un classico contemporaneo che passerà alla storia e confida di aver vissuto, mentre era dentro l’opera, quasi in un’altra dimensione.
E un’altra dimensione è quella della Cina raccontata dal libro: cultura, politica, tradizioni, contrasti. «L’autrice tenta di raccontare con tutta la forza espressiva della letteratura il nuovo secolo cinese – spiega De Vito – Descrivendo quella società, ci fa riflettere su come siamo noi. La protagonista è una scrittrice affascinata dalla Cina che incontra diversi personaggi dai nomi simbolici. Quando scopre che l’essenza di quel paese è nel pensiero di Confucio, compreso l’autoritarismo che unisce e omogenizza tutto, capisce molto di più i cliché, i vizi e le contraddizioni della vecchia Europa. Essendo una donna dell’Est, cioè una persona che ha recuperato la libertà da poco, ritrova in molti nostri atteggiamenti gli stessi modi autoritari e non umani di cui spesso accusiamo gli altri».
Un romanzo non tanto sulla Cina, ma con la Cina, che racconta di noi. Bisogna affrontarlo come quando ti attrezzi per un viaggio lontano, incline alle scoperte. «È una lettura impegnativa che apre a prospettive diverse. Non ti lascia accomodato nella tua comfort zone. Altrimenti che viaggio sarebbe? Tanto vale rimanere a casa». A questo libro, il ventiduesimo della collana di letteratura ceca, e in genere al lavoro di editore, che è uno in grado di ascoltare e far viaggiare per il mondo le storie degli altri, Alessandro De Vito è arrivato recuperando le tessere della memoria familiare. «È una storia articolata – spiega – Mio padre era figlio di un falegname emigrato a Torino, che in Puglia nel 1924 ha fondato una sezione del Partito Comunista. Mentre i miei nonni cechi erano borghesi e, prima, hanno subito l’invasione nazista e poi hanno vissuto sotto la dittatura comunista, quindi erano feroci anticomunisti. I miei si sono conosciuti in Bulgaria, sul Mar Nero. Si sono visti un paio di volte e nel 1969 si sono sposati. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un mese d’estate l’ho trascorso dai nonni a Ostrava. Ho smesso di andarci a vent’anni e ho perso completamente la lingua ceca».
Altri vent’anni sono passati prima che la recuperasse. «E accaduto verso il 2009, quando ho iniziato a interessarmi di letteratura». Prima ha fatto altro. Si è iscritto a Legge, ma presto finisce fuori corso. Dopo quattro anni molla gli studi e va a lavorare in un circolo Arci di Grugliasco, in cucina. Poi torna all’università, a Lettere però. E nel 2000 si laurea in Storia del cinema con una tesi sulle Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta. «È stato un primo recupero dell’identità ceca. Comunque, vado a lavorare in una cooperativa sociale. Solo dopo una decina d’anni, quando con gli amici Fabio Mendolicchio e Davide Reina già cercavamo di lavorare nel mondo editoriale e poi abbiamo deciso di fondare la nostra casa editrice, soltanto allora ho rimesso insieme le mie radici».
È così che nel 2016, alle collane di narrativa italiana e narrativa straniera, si affianca quella di narrativa ceca. Nel lavoro di editore. che consiste nel leggere, scegliere, curare storie e coltivare idee in forma di libri, De Vito ricompone il mosaico delle sue storie personali e delle sue geografie. Il modo in cui guida la casa editrice può essere riassunto da ciò che Radka Denemarková dice del suo romanzo: «Ho voluto metterci l’essenza di tutto ciò che sono riuscita a capire di questo mondo. Ma forse, soprattutto, ciò che non avevo capito». È così che si va avanti, a far libri e a vivere: si continua a ricercare.
Arriva su una vespa blu. E si presenta con un libro in anteprima, copertina crema e titolo rosso: “Ore di Piombo” di Radka Denemarkovà, a breve in libreria.
«È la mia biblioteca su due ruote, ci faccio dei veri e propri tour riempiendo le sacche da viaggio di libri», spiega mentre si toglie il casco Fabio Mendolicchio, uno dei tre editori di Miraggi, insieme con Alessandro De Vito e Davide Reina. Entriamo da Barbagusto, nel cuore di San Salvario.
Siamo un po’ in anticipo sull’orario di pranzo perciò possiamo scegliere il tavolo e ci accomodiamo a quello vicino alla porta finestra: alle nostre spalle una parete di bottiglie di vino, a destra un cortiletto con una luce ancora calda per l’autunno.
Mendolicchio si presenta subito come editore che «vede i fenomeni da un’altra prospettiva». «Leggo i libri solo quando sono in produzione, mai prima — dice — diciamo che sono il lettore 1, da me poi inizia il viaggio nelle librerie». E a proposito di viaggi, scopriamo subito che Mendolicchio non solo fa i tour dei libri in vespa con la Ubik, ma ama anche cucinare in libreria. Perché è si editore, ma anche musicista e chef. «Ho studiato all’alberghiero e sono arrivato all’editoria per uno scherzo del destino. Ho fatto un corso di grafica creativa perché volevo applicare le nuove competenze alla mia passione per la cucina e poi con la grafica sono arrivato all’editoria grazie a un amico, mi è sembrato un percorso naturale dato che leggevo e tutt’oggi leggo moltissimo, ma non ho mai abbandonato la passione per la cucina, anzi mi piace contaminare i due mondi, per esempio i miei tour in libreria con le cene sono un format amatissimo dagli autori e dai lettori, oltre che dalle librerie».
Arriva l’oste, e scegliamo un tris di antipasti della casa, tondelli al pesto, agnolotti di Bra e Barbera (mezza porzione), acqua e un calice di Ruché. Poi torniamo a chiacchierare di libri ed editoria.
Tour in vespa e cene in libreria, ma una casa editrice torinese come Miraggi che storia ha, perché si diventa editori? «Siamo nati con il sogno di fare narrativa di viaggio, il nostro pubblico erano i viaggiatori, ma negli anni abbiamo cambiato pelle. Credo che se vuoi fare l’editore e vuoi diventare grande devi avere a disposizione grandi capitali, altrimenti devi accontentarti di quello che fai, nel enso che sei un artigiano e il tuo prodotto è l’oggetto libro, noi siamo artigiani dell’editoria».
Invito a pranzoArrivano i primi e il profumo del pesto e del ragù ci distraggono. Ma riprendiamo subito, un po’ provocatori: ma allora fare l’editore è un miraggio? Fabio Mendolicchio sorseggia il vino, sorride «un po’ sì forse, i miraggi esistono, il nostro miraggio è di fare libri belli con grande rispetto del lettore, ci piace fare libri che gli altri non fanno».
Ma è un sognatore disilluso Mendolicchio: «Ahimè è cambiata la vita del libro, è diventata brevissima, prima le novità duravano mesi, ora ogni 25 giorni c’è una nuova uscita. Il libro è un po’ come il latte, scade velocemente, solo che il latte si trasforma, diventa formaggio o altro, i libri no: tornano in casa editrice». E quindi? «Quindi mi ricordo il nostro primo Salone del libro nel 2010, eravamo solo io, De Vito e Reina, in tre facevamo il lavoro di 15 persone, con grinta ed entusiasmo. Oggi siamo diventati una cooperativa e tra i nostri piccoli successi — ce ne sono tanti — per esempio abbiamo lanciato Guido Catalano, un autore da 40 mila copie».
Il primo è finito e davanti ai piatti vuoti Mendolicchio continua serio.
«Negli ultimi 14 anni il mondo è cambiato tre volte e siamo cambiati anche noi come editori, abbiamo virato dall’orizzonte iniziale dei viaggi e abbiamo aperto la linea editoriale Baskerville, la nostra strada maestra di letteratura, italiana e dal mondo, divisa in quattro collane. La prima è Tamizdat. Col termine samizdat si indicavano, nel blocco comunista e in Urss, le opere straniere fatte circolare clandestinamente. Tamizdat erano i samizdat delle traduzioni: al suo interno Miraggi pubblica traduzioni di autori che difficilmente arriverebbero al lettore italiano, per contenuto scomodo, idee, tempismo, nonostante il valore letterario e culturale. Poi c’è Scafiblù, come venivano chiamate le imbarcazioni dei contrabbandieri di sigarette a Napoli, e tornando all’idea di clandestinità di Tamizdat, questa collana è dedicata agli autori italiani che seguono vie non ordinarie». Arriva il caffè. E prima di bere: «E poi c’è NováVlna, la collana di letteratura ceca, in ceco significa “Nouvelle Vague” e Janus|Giano, collana dedicata alle traduzioni con testo a fronte».
Il caffè lo beviamo entrambi amaro, in un sorso. Quindi per sopravvivere avete scelto le micro-nicchie di autori e di lettori?
«Ci siamo dati un’identità, chiedendoci quali libri potevamo proporre in un mercato così nervoso e frenetico che gli altri non pubblicavano».
E va bene?
«Abbiamo un bel riscontro, quello che ci fa andare avanti».
Ritorniamo all’attacco, quindi i miraggi esistono o no? Ride finalmente dopo un pranzo un po’ amaro come il caffè.
«I miraggi esistono eccome! Altrimenti non saremmo qui a combattere come editori, a leggere e pubblicare libri, l’anno prossimo sono 15 anni».
Lasciamo Barabagusto che ha ospitato le confessioni dell’editore in una sala accogliente e amica. E ci scappa l’ultima domanda sulla felicità.
«Certo che sono felice dice l’editore chef — indossando il casco — cucino e leggo tutti i giorni. Non ha prezzo alzarsi al mattino, portar tuo figlio a scuola e decidere quando inizi a lavorare e quando vuoi staccare. Il mio miraggio è fare l’editore e poterlo fare come mestiere a tempo pieno sempre di più». Sale in vespa, saluta e parte lento. Ci allontaniamo con l’idea che fare l’editore è un po’ come creare una libreria a bordo di una vespa, si va piano e non c’è molto spazio, perciò bisogna avere coraggio e fare delle scelte».
Carlo Gozzini, l’io narrante, è un professore di economia innamorato di Blandine, attrice di vent’anni più giovane che non lo ama e non perde occasione per umiliarlo. La sua ossessione diventa paranoia quando Blandine viene ricoverata in un manicomio e quando Carlo scopre di essere spiato da una organizzazione criminale e da un uomo misterioso. Sono loro, non la donna, a condizionare la sua vita. Ed è questo, non l’amore, il tema centrale del romanzo. Quali sono le forze che trattengono i nostri desideri facendo sì che non si realizzino e trasformandoci in persone diverse da quello che siamo? “Sentivo che due sono le cose fondamentali: non giudicare la vita e non compiere atti che siano irreversibili”.
Gentili lettori, sembra che non ci si salvi dalla ferocia. Viene esibita con soddisfazione attraverso i media, ostentata come unica soluzione possibile ai mali della società. Sembra che si cerchi sempre la tragedia e si finisca per scadere nella farsa.
Nugoli di persone fagocitate dall’ultimo proclama razzista, massacrate dal colonialismo del pensiero spicciolo, consumate dalla schiavitù dell’analfabetismo funzionale quest’ultimo ormai endemico dalle nostre parti.
Irretito in una sorte di balbuzie esistenziale, il cittadino consumatore è sempre in ritardo su qualcosa senza saperla individuare. Sbriciola dignità grattandola da uno spot elettorale o pubblicitario; si adatta all’arbitrio e impone la gogna; schiamazza per strada, strepita negli uffici, pontifica in rete.
La cagnara è la cifra scelta per schifare il sistema che ha concorso a formare. Non importa se una pagina social sia un cortile condominiale su vasta scala, l’ominide urbano ha un imperativo insopprimibile: dimostrare di essere il migliore, sputando sull’ordine costituito e sui simili.
Se queste sono solo le premesse di una desistenza collettiva, è altrettanto vero che i governanti ne siano il risvolto obbligato.
L’unica ancora di salvezza è la giustizia, o la fuga, la scomparsa. Non ci si salva dalla catena di montaggio, ci ricorda Carmelo Bene, e forse è vero. Specialmente quando chi dovrebbe giudicare, perché chiamato dalla legge a farlo, manca di statura morale e intellettuale.
Siamo abituati ai fatti di cronaca che denunciano errori, manchevolezze, superficialità. Chi la fa franca e chi viene condannato severamente per reati leggeri. Ma cosa accade quando si è davanti al verbale del proprio decesso?
«Chiamo dal 5° Distretto di polizia. Sono l’ispettore Gomes, abbiamo tirato fuori la sua scheda dopo la denuncia per i disordini al ristorante./ – E?/ – E c’è che qui abbiamo un altro verbale con data 14 luglio 2008, a suo nome./ – Che verbale?/ – Lei sa di che cosa si tratta?/ – Non ne ho la minima idea./ – Il verbale che ho qui notifica il suo decesso». A scrivere è João Paulo Cuenca, psichedelico scrittore brasiliano che nel suo “Ho scoperto di essere morto”, tradotto da Eloisa De Giudice e pubblicato da Miraggi edizioni, rimescola gli elementi essenziali del romanzo sino a stabilirne una forma iconica che si caratterizza per tensione verso l’immaginifico, la crisi dell’identità, il mistero, una viscerale convulsione ideativa e una forte dose di spregio e anarchia sessuale.
Il protagonista ha lo stesso nome dell’autore e da subito sbarazza il lettore della sua ingombrante presenza, quasi a voler significare il ruolo esangue della letteratura, detronizzata dall’equazione ostensoria da reality show.
Il personaggio Cuenca è il doppio del suo autore, intrappolato in una Rio de Janeiro che si prepara alle Olimpiadi del 2016, l’uomo discende i gradini del limite, tra le macerie di quello che fu un grande deposito di schiavi tra il Settecento e l’Ottocento e i fasti dei salotti mondani contemporanei, in cui si alternano starlette che cuociono il sushi nella propria vagina, attrici di soap opera, letterati allo sbando preda di sostanze anfetaminiche e una casistica umana consumata dalle scorie di un sistema collassato su se stesso.
Con una lingua che aggancia il lettore uncinandolo sottopelle, costringendolo all’uso di sensi inespresso, J.P. Cuenca crocifigge crismi e velleità, esamina crudelmente i vizi di un microclima brasiliano degradato dal lusso e dalla dissolutezza, non dimenticando di sferzare lo Stato attraverso la sua polizia violenta e fascista.
Il protagonista, in mezzo allo sfacelo fisico e psicologico, cerca di stabilire una verità, la stessa che non è ai riuscito a imporre nei suoi libri. «Che l’Europa illustrata da Cervantes, Shakespeare, Dante e Tolstoj ha schiavizzato generazioni di neri, di indiani, di analfabeti e di dissidenti politici».
La letteratura in sé come atto ininfluente ai fini della vita e che non può colmare le manchevolezze degli uomini sembra apparire la figura dello scrittore fuori scena. Il feticcio di una società consunta nei suoi resti putridi esiste come esibizionismo grottesco traboccante di luoghi comuni.
Ecco che il presente è una ripetizione di se stesso, libero dalle scelte e condannato alla caduta.
Cinquant’anni fa, nel maggio 1968, Jean-Luc Godard capeggiava l’occupazione del Festival di Cannes, per solidarietà con le manifestazioni e gli scioperi in corso nel Paese. Quell’edizione fu infine annullata dopo giorni di scontri e trattative. Una vicenda più volte rievocata, anche di recente: l’anno scorso al Festival la raccontava con ironia Hazanavicius nel film Il mio Godard, ispirato ai memoir di Anne Wiazemsky. Ed è appena uscito in italiano un libro dal titolo eloquente, Volevo uccidere Jean-Luc Godard (Miraggi edizioni). L’autore, Jan Němec, scomparso nel 2016, era uno dei maggiori registi della “nuova onda” cecoslovacca, e ce l’aveva a morte con Godard per quella contestazione: tanto i francesi quell’anno non avevano film decenti, malignava, e invece i tre registi cechi che presentavano i film migliori (lui, Forman e Jirí Menzel) rimasero fregati. Il ’68 di Godard, insomma, è ormai una leggenda, discussa o celebrata, e fa un po’ impressione ritrovare il regista ottantasettenne in concorso con un nuovo film, mentre un’immagine di Pierrot le fou è la locandina di questa edizione…
Dobbiamo fermare l’orologio e abbracciare le lancette per vivere la dimensione allegorica di un segmento temporale scritto più di trent’anni fa: cosa è La notte dei botti di Biagio Cepollaro Miraggi edizioni?
Più volte è stato definito un romanzo profetico che interpreta l’Italia “alle soglie di un ventennio politico che per alcuni di noi si profilava oscuramente come una notte lunga, la vera notte della Repubblica, un tunnel interminabile”, i cui protagonisti sono i resistenti seminati in una zolla confusionaria e circoscritta di un autogrill, in cui non si ha percezione nitida di cosa succeda e la curiosità tende la corda capoverso dopo capoverso.
La Notte dei Botti che già alcuni sul posto avevano con sicurezza battezzato “della Libera Espressione” è un binario convulso su cui corrono vagoni carichi di personaggi e vicende che sembrano sparate al piattello senza schemi, per un lettore immobile affidato ad una convulsa frammentarietà di informazioni.
Il capitolo d’ouverture è contraddistinto da una successione anaforica e reattiva di descrizioni puntuali e infastidite che rendono l’idea dell’insofferente sfogo liberatorio sociale.
E dove non c’era il giallo in terra e non c’era il fetore acuto che veniva dalle toilettes, c’erano invece …. E dove non c’erano mucchi né televisori, c’erano dei grandi spazi vuoti, delle fosse comuni, fosse della promiscuità. Perso nella promiscuità della memoria dei vecchi, l’aborto si preparava all’eccitante novità dei mucchi. E in quella promiscuità trasmutava e si confondeva.
Il frenetico dispiegarsi della vicenda è incentivato dalla pedalata continua del ciclista notturno di nome Scriba, la cui ombra è proiettata su una scenografia talvolta ferma, inchiodata e contrapposta alla propria spigolosa vitalità, espressione di una meditata condizione di inferiorità rispetto al potere.
Pedalo e sudo. Sudando sviluppo pensiero
La messa a fuoco delle diapositive che scorrono durante la il percorso, lascia scorgere intermezzi di dimensioni oniriche sconvolte dalla realtà distorta e costipata.
Dopo le prime esplosioni in molti dissero che si trattava di tuoni perché d’estate i tuoni sono così. Poi dissero che si trattava di una caldaia, di una vecchia caldaia senza manutenzione. Poi dissero che doveva essere un terremoto, ma la terra non tremava. Tremavano i vetri, però.
Il romanzo è stato scritto a metà degli anni ’90, proprio nel momento in cui finisce la prima Repubblica. L’autore ha scelto di sforbiciare un’ambientazione surreale mediante voce singola interiore e rumore collettivo, due lame incidenti atte a conferire l’idea di una sorta di “colpo di stato”, estratto non da reali ragioni storico-politiche ma da meccanismi sociali, che separano la quotidianità di ieri dal sapore del nuovo millennio. Si catapultano via via in scena numerose comparse dai connotati sociali e morali differenti, accomunati da una sovrapposizione rispettiva di pensieri e di sogni, deliri e allucinazioni che sgomentano e pongono in uno stato di tensione l’osservatore che aspetta lo “spettacolo”.
Chissà la Notte dei Botti qui. Ogni luogo avrà avuto la sua. I Resistenti. Quanto cammino; quanta strada per le circonvoluzioni dei cervelli, per i pantani dei neuroni, le sinapsi spezzate, i riflessi condizionati, le inerzie, e la paura che cresce dentro, la paura che domani non più…
E’ un panorama di merci e consumatori vincolati nell’autogrill, di Scriba in sella a una bicicletta,tendenzialmente obliquo rispetto al corso degli eventi che fanno tremare i vetri sulla gente accatastata negli angoli dell’edificio, di resistenti, di condomini che si personificano e diventano anime sognanti, contenitori di corpi confusi e guardinghi. La distratta inquietudine si manifesta nelle “lotte sociali” che lasciano trasparire la dinamica dei rapporti condominiali, dietro cui si cela soprattutto il deterioramento di innesti collettivi.
Non può dormire perché i condomini sognano rumorosamente. Non può dormire perché i condomini sognano, sognano continuamente e, senza pudore, mostrano il marcio della loro anima.
L’emblema dello spaesamento in cui versa la popolazione è Tornabuoni, sagoma entusiasta della notte dei botti, ma soprattutto interessante spunto di analisi complessiva.
Non è un caso se i primi nomi compaiono dal secondo capitolo dopo un incipit spettrale, buio e puzzolente; dapprima l’autore scruta da un drone abitanti e luoghi del suo racconto, dopo di che preferisce rendere rarefatta l’atmosfera tra nebbia e trambusto, che insistono nell’attesa di una risposta; si effonde fluidamente il sapore di un’ incompiuta routine in procinto di espedienti evolutivi tra lotte, pareri, indifferenze e soluzioni.
La Notte dei Botti si era insinuata sotto i discorsi, era cresciuta all’ombra delle apparenze, come un mugugno routinario e quasi inoffensivo…
Il linguaggio di Cepollaro è incalzante, ascendente e traboccante di stimoli sensoriali che diventano corpo e linfa vitale per condurre un viaggio ai confini della notte.
Da un’analisi prettamente linguistica, il romanzo sembra essere costruito attorno al compito affidato allo scrittore/poeta e quindi a Scriba, che così si chiama certamente per evidenti motivi etimologici, contraddistinto da “la fissa di scrivere tutto”, impegnato in un’eccentrica cronaca che riporti metaforicamente ogni tipo di dinamica sociale.
Un sopralluogo nella casa abbandonata dei nonni, occasione per fare i conti con il passato rimosso di famiglia. L’immagine della gatta randagia fatta sopprimere, ancora visibile nel cortile condominiale su Google Maps, che diventa il modo per lasciar scaturire il dolore accumulato. I racconti sono fatti della stessa materia di cui sono fatti gli attimi. È il modo in cui li si guarda dopo, che rende i fatti degni di essere narrati. Quello di Simone Ghelli è la pietas: per un animale sofferente, un parente strano, una versione passata di sé di cui ci si vergogna e che scrivendo si prova a perdonare. In una delle storie più belle del libro, il protagonista gira un documentario nel rudere della casa toscana del poeta inglese Peter Russell, che non verrà mai trasmesso. Metafora, forse, della scarsa accoglienza che hanno in Italia le raccolte di racconti di scrittori italiani, mentre chissà perché a quelle di autori stranieri nessuno dubita di attribuire la dignità di un romanzo.
Usiamo cookie per garantirti un servizio migliore.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.