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Altre ossessioni – La Realtà Pura di Riccardo De Gennaro- di Luisa Grion per La Repubblica

Altre ossessioni – La Realtà Pura di Riccardo De Gennaro- di Luisa Grion per La Repubblica

Carlo Gozzini, l’io narrante, è un professore di economia innamorato di Blandine, attrice di vent’anni più giovane che non lo ama e non perde occasione per umiliarlo. La sua ossessione diventa paranoia quando Blandine viene ricoverata in un manicomio e quando Carlo scopre di essere spiato da una organizzazione criminale e da un uomo misterioso. Sono loro, non la donna, a condizionare la sua vita. Ed è questo, non l’amore, il tema centrale del romanzo. Quali sono le forze che trattengono i nostri desideri facendo sì che non si realizzino e trasformandoci in persone diverse da quello che siamo? “Sentivo che due sono le cose fondamentali: non giudicare la vita e non compiere atti che siano irreversibili”.

di Luisa Grion


Sesso, droga e samba: sino alla fine. “Ho scoperto di essere morto” secondo Angelo Di Liberto su Repubblica Palermo

Sesso, droga e samba: sino alla fine. “Ho scoperto di essere morto” secondo Angelo Di Liberto su Repubblica Palermo

Angelo Di Liberto

Gentili lettori, sembra che non ci si salvi dalla ferocia. Viene esibita con soddisfazione attraverso i media, ostentata come unica soluzione possibile ai mali della società. Sembra che si cerchi sempre la tragedia e si finisca per scadere nella farsa.
Nugoli di persone fagocitate dall’ultimo proclama razzista, massacrate dal colonialismo del pensiero spicciolo, consumate dalla schiavitù dell’analfabetismo funzionale quest’ultimo ormai endemico dalle nostre parti.
Irretito in una sorte di balbuzie esistenziale, il cittadino consumatore è sempre in ritardo su qualcosa senza saperla individuare. Sbriciola dignità grattandola da uno spot elettorale o pubblicitario; si adatta all’arbitrio e impone la gogna; schiamazza per strada, strepita negli uffici, pontifica in rete.
La cagnara è la cifra scelta per schifare il sistema che ha concorso a formare. Non importa se una pagina social sia un cortile condominiale su vasta scala, l’ominide urbano ha un imperativo insopprimibile: dimostrare di essere il migliore, sputando sull’ordine costituito e sui simili.
Se queste sono solo le premesse di una desistenza collettiva, è altrettanto vero che i governanti ne siano il risvolto obbligato.
L’unica ancora di salvezza è la giustizia, o la fuga, la scomparsa. Non ci si salva dalla catena di montaggio, ci ricorda Carmelo Bene, e forse è vero. Specialmente quando chi dovrebbe giudicare, perché chiamato dalla legge a farlo, manca di statura morale e intellettuale.
Siamo abituati ai fatti di cronaca che denunciano errori, manchevolezze, superficialità. Chi la fa franca e chi viene condannato severamente per reati leggeri. Ma cosa accade quando si è davanti al verbale del proprio decesso?
«Chiamo dal 5° Distretto di polizia. Sono l’ispettore Gomes, abbiamo tirato fuori la sua scheda dopo la denuncia per i disordini al ristorante./ – E?/ – E c’è che qui abbiamo un altro verbale con data 14 luglio 2008, a suo nome./ – Che verbale?/ – Lei sa di che cosa si tratta?/ – Non ne ho la minima idea./ – Il verbale che ho qui notifica il suo decesso». A scrivere è João Paulo Cuenca, psichedelico scrittore brasiliano che nel suo “Ho scoperto di essere morto”, tradotto da Eloisa De Giudice e pubblicato da Miraggi edizioni, rimescola gli elementi essenziali del romanzo sino a stabilirne una forma iconica che si caratterizza per tensione verso l’immaginifico, la crisi dell’identità, il mistero, una viscerale convulsione ideativa e una forte dose di spregio e anarchia sessuale.
Il protagonista ha lo stesso nome dell’autore e da subito sbarazza il lettore della sua ingombrante presenza, quasi a voler significare il ruolo esangue della letteratura, detronizzata dall’equazione ostensoria da reality show.
Il personaggio Cuenca è il doppio del suo autore, intrappolato in una Rio de Janeiro che si prepara alle Olimpiadi del 2016, l’uomo discende i gradini del limite, tra le macerie di quello che fu un grande deposito di schiavi tra il Settecento e l’Ottocento e i fasti dei salotti mondani contemporanei, in cui si alternano starlette che cuociono il sushi nella propria vagina, attrici di soap opera, letterati allo sbando preda di sostanze anfetaminiche e una casistica umana consumata dalle scorie di un sistema collassato su se stesso.
Con una lingua che aggancia il lettore uncinandolo sottopelle, costringendolo all’uso di sensi inespresso, J.P. Cuenca crocifigge crismi e velleità, esamina crudelmente i vizi di un microclima brasiliano degradato dal lusso e dalla dissolutezza, non dimenticando di sferzare lo Stato attraverso la sua polizia violenta e fascista.
Il protagonista, in mezzo allo sfacelo fisico e psicologico, cerca di stabilire una verità, la stessa che non è ai riuscito a imporre nei suoi libri. «Che l’Europa illustrata da Cervantes, Shakespeare, Dante e Tolstoj ha schiavizzato generazioni di neri, di indiani, di analfabeti e di dissidenti politici».
La letteratura in sé come atto ininfluente ai fini della vita e che non può colmare le manchevolezze degli uomini sembra apparire la figura dello scrittore fuori scena. Il feticcio di una società consunta nei suoi resti putridi esiste come esibizionismo grottesco traboccante di luoghi comuni.
Ecco che il presente è una ripetizione di se stesso, libero dalle scelte e condannato alla caduta.

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la citazione di Emiliano Morreale su Repubblica

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la citazione di Emiliano Morreale su Repubblica

Cinquant’anni fa, nel maggio 1968, Jean-Luc Godard capeggiava l’occupazione del Festival di Cannes, per solidarietà con le manifestazioni e gli scioperi in corso nel Paese. Quell’edizione fu infine annullata dopo giorni di scontri e trattative. Una vicenda più volte rievocata, anche di recente: l’anno scorso al Festival la raccontava con ironia Hazanavicius nel film Il mio Godard, ispirato ai memoir di Anne Wiazemsky. Ed è appena uscito in italiano un libro dal titolo eloquente, Volevo uccidere Jean-Luc Godard (Miraggi edizioni). L’autore, Jan Němec, scomparso nel 2016, era uno dei maggiori registi della “nuova onda” cecoslovacca, e ce l’aveva a morte con Godard per quella contestazione: tanto i francesi quell’anno non avevano film decenti, malignava, e invece i tre registi cechi che presentavano i film migliori (lui, Forman e Jirí Menzel) rimasero fregati. Il ’68 di Godard, insomma, è ormai una leggenda, discussa o celebrata, e fa un po’ impressione ritrovare il regista ottantasettenne in concorso con un nuovo film, mentre un’immagine di Pierrot le fou è la locandina di questa edizione…

Emiliano Morreale

“La notte dei botti”: la recensione di Ombretta Costanzo su ilgruppodipolifemo.com

“La notte dei botti”: la recensione di Ombretta Costanzo su ilgruppodipolifemo.com

Dobbiamo fermare l’orologio e abbracciare le lancette per vivere la dimensione allegorica di un segmento temporale scritto più di trent’anni fa: cosa è La notte dei botti di Biagio Cepollaro Miraggi edizioni?

Più volte è stato definito un romanzo profetico che interpreta l’Italia “alle soglie di un ventennio politico che per alcuni di noi si profilava oscuramente come una notte lunga, la vera notte della Repubblica, un tunnel interminabile”, i cui protagonisti sono i resistenti seminati in una zolla confusionaria e circoscritta di un autogrill, in cui non si ha percezione nitida di cosa succeda e la curiosità tende la corda capoverso dopo capoverso.

La Notte dei Botti che già alcuni sul posto avevano con sicurezza battezzato “della Libera Espressione” è un binario convulso su cui corrono vagoni carichi di personaggi e vicende che sembrano sparate al piattello senza schemi, per un lettore immobile affidato ad una convulsa frammentarietà di informazioni.
Il capitolo d’ouverture è contraddistinto da una successione anaforica e reattiva di descrizioni puntuali e infastidite che rendono l’idea dell’insofferente sfogo liberatorio sociale.

E dove non c’era il giallo in terra e non c’era il fetore acuto che veniva dalle toilettes, c’erano invece …. E dove non c’erano mucchi né televisori, c’erano dei grandi spazi vuoti, delle fosse comuni, fosse della promiscuità. Perso nella promiscuità della memoria dei vecchi, l’aborto si preparava all’eccitante novità dei mucchi. E in quella promiscuità trasmutava e si confondeva.

Il frenetico dispiegarsi della vicenda è incentivato dalla pedalata continua del ciclista notturno di nome Scriba, la cui ombra è proiettata su una scenografia talvolta ferma, inchiodata e contrapposta alla propria spigolosa vitalità, espressione di una meditata condizione di inferiorità rispetto al potere.

Pedalo e sudo. Sudando sviluppo pensiero

La messa a fuoco delle diapositive che scorrono durante la il percorso, lascia scorgere intermezzi di dimensioni oniriche sconvolte dalla realtà distorta e costipata.

Dopo le prime esplosioni in molti dissero che si trattava di tuoni perché d’estate i tuoni sono così. Poi dissero che si trattava di una caldaia, di una vecchia caldaia senza manutenzione. Poi dissero che doveva essere un terremoto, ma la terra non tremava. Tremavano i vetri, però.

Il romanzo è stato scritto a metà degli anni ’90, proprio nel momento in cui finisce la prima Repubblica. L’autore ha scelto di sforbiciare un’ambientazione surreale mediante voce singola interiore e rumore collettivo, due lame incidenti atte a conferire l’idea di una sorta di “colpo di stato”, estratto non da reali ragioni storico-politiche ma da meccanismi sociali, che separano la quotidianità di ieri dal sapore del nuovo millennio. Si catapultano via via in scena numerose comparse dai connotati sociali e morali differenti, accomunati da una sovrapposizione rispettiva di pensieri e di sogni, deliri e allucinazioni che sgomentano e pongono in uno stato di tensione l’osservatore che aspetta lo “spettacolo”.

Chissà la Notte dei Botti qui. Ogni luogo avrà avuto la sua.
I Resistenti. Quanto cammino; quanta strada per le circonvoluzioni dei cervelli, per i pantani dei neuroni, le sinapsi spezzate, i riflessi condizionati, le inerzie, e la paura che cresce dentro, la paura che domani non più…

E’ un panorama di merci e consumatori vincolati nell’autogrill, di Scriba in sella a una bicicletta,tendenzialmente obliquo rispetto al corso degli eventi che fanno tremare i vetri sulla gente accatastata negli angoli dell’edificio, di resistenti, di condomini che si personificano e diventano anime sognanti, contenitori di corpi confusi e guardinghi. La distratta inquietudine si manifesta nelle “lotte sociali” che lasciano trasparire la dinamica dei rapporti condominiali, dietro cui si cela soprattutto il deterioramento di innesti collettivi.

Non può dormire perché i condomini sognano rumorosamente.
Non può dormire perché i condomini sognano, sognano continuamente e, senza pudore, mostrano il marcio della loro anima.

L’emblema dello spaesamento in cui versa la popolazione è Tornabuoni, sagoma entusiasta della notte dei botti, ma soprattutto interessante spunto di analisi complessiva.
Non è un caso se i primi nomi compaiono dal secondo capitolo dopo un incipit spettrale, buio e puzzolente; dapprima l’autore scruta da un drone abitanti e luoghi del suo racconto, dopo di che preferisce rendere rarefatta l’atmosfera tra nebbia e trambusto, che insistono nell’attesa di una risposta; si effonde fluidamente il sapore di un’ incompiuta routine in procinto di espedienti evolutivi tra lotte, pareri, indifferenze e soluzioni.

La Notte dei Botti si era insinuata sotto i discorsi, era cresciuta all’ombra delle apparenze, come un mugugno routinario e quasi inoffensivo…

Il linguaggio di Cepollaro è incalzante, ascendente e traboccante di stimoli sensoriali che diventano corpo e linfa vitale per condurre un viaggio ai confini della notte.
Da un’analisi prettamente linguistica, il romanzo sembra essere costruito attorno al compito affidato allo scrittore/poeta e quindi a Scriba, che così si chiama certamente per evidenti motivi etimologici, contraddistinto da “la fissa di scrivere tutto”, impegnato in un’eccentrica cronaca che riporti metaforicamente ogni tipo di dinamica sociale.

Ombretta Costanzo

 

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Francesca Frediani su D-La Repubblica

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Francesca Frediani su D-La Repubblica

Un sopralluogo nella casa abbandonata dei nonni, occasione per fare i conti con il passato rimosso di famiglia. L’immagine della gatta randagia fatta sopprimere, ancora visibile nel cortile condominiale su Google Maps, che diventa il modo per lasciar scaturire il dolore accumulato. I racconti sono fatti della stessa materia di cui sono fatti gli attimi. È il modo in cui li si guarda dopo, che rende i fatti degni di essere narrati. Quello di Simone Ghelli è la pietas: per un animale sofferente, un parente strano, una versione passata di sé di cui ci si vergogna e che scrivendo si prova a perdonare. In una delle storie più belle del libro, il protagonista gira un documentario nel rudere della casa toscana del poeta inglese Peter Russell, che non verrà mai trasmesso. Metafora, forse, della scarsa accoglienza che hanno in Italia le raccolte di racconti di scrittori italiani, mentre chissà perché a quelle di autori stranieri nessuno dubita di attribuire la dignità di un romanzo.

Francesca Frediani