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Paolo Brunati su La Balena Bianca (Roberto Batisti)

Paolo Brunati su La Balena Bianca (Roberto Batisti)

Meritevole di collocazione nelle intricate mappe della prosa non-narrativa è anche un autore italiano, Paolo Brunati (1943-2021), che dopo una vita di appartato sperimentatore fra parola scritta e arti figurative ha pubblicato proprio in punto di morte, due anni fa, i Colloqui con il Pesce Sapiente. I 160 brevi testi, che fin dai loro titoli giocano con la forma del trattato, possono sembrare molto diversi dalle buffe vignette di Edson, e il loro stile intellettualistico e lessicalmente estroso è certo più debitore del Barocco che dello slapstick. Laddove Edson mostra, Brunati racconta. Eppure, anche in queste godibilissime prose non-narrative e divaganti (a cui decisamente manca la natura di canovacci teatrali ridotti all’osso, tipica di Edson) troviamo un gusto per la creazione di scenette bizzarre, in cui uno sguardo indagatore si deposita sulle evenienze apparentemente meno clamorose della quotidianità per trasformarle in mirabilia grottesche sotto la sua lente. Così, corpi, animali e oggetti (archetipizzati dalla maiuscola pure di ascendenza secentesca: “il Tempo”, “le Colpe”, ma anche “gli Ornitorinchi”, il “Moscerino della frutta”) subiscono le conseguenze paradossali di un interrogativo filosofico spinto fino all’assurdo. Un po’ come in Edson, l’attenzione di Brunati si sofferma particolarmente spesso sui legami familiari (il Marito, la Nonna…); e se l’autore italiano si diverte a immaginare strani modi di fare figli (“Trovarli dentro una coppia preziosa e antica […] scoprire l’Albero dei Figli e trapiantarne in vaso dei germogli […] prenderli vivi al volo con una sorta di enorme acchiappafarfalle […] partorirne infiniti dalla bocca”), troviamo varie nascite non convenzionali anche in Edson, dove un uomo fa nascere un rospo dall’ascella della moglie, o un giocattolaio costruisce un bambino-giocattolo.

Spesso Brunati rivolge la sua contemplazione ai Morti, trattati come una specie misteriosa e un po’ incongrua, che suscita ammirata perplessità o al massimo il fastidio concettuale del classificatore enciclopedico davanti a un fenomeno contraddittorio. Tipico è lo scandalo di fronte al cadavere, un “coso affatto estraneo alla morte”, imbarazzante nella sua fisicità di burattino inanimato, che sembra mimare malamente quella dei vivi. “I Morti […] ancora parlano, ma senza effetto”, e se “la Morte non può che cogliere nel pieno della vita”, le trasformazioni “sbalorditiv[e]” a cui va incontro la salma suscitano “una curiosità di paure”: anche al cadavere di un animale “sono possibili emozioni ed avventure altrimenti invivibili”, ma gli toccherà viverle in stato d’immobilità. Anche in Edson troviamo morti trattati alla stregua di vivi dalla strana, inaccettabile inerzia. Fra le prose più memorabili, l’apologo del Raccoglitore di legna, che appena deceduto è rimesso prontamente all’opera dalla moglie, a cui la morte sembra solo una scusa per non lavorare: ma al vecchio taglialegna ormai cadavere l’ascia cade maldestramente di mano, di modo che finisce per amputarsi una gamba; al che la donna si adira (“hai tagliato la gamba del mio vecchio”) e impadronitasi dell’ascia fa definitivamente a pezzi quel corpo che non è più, ormai, il marito (il quale, anzi, la incita dal cielo). In un’altra pagina, un defunto viene riportato in vita (ma senza che si arresti la putrefazione) e accompagnato in giro per fiere, ristoranti e festini, dove continua a perdere pezzi con grande disgusto e scandalo dei presenti. Altra soluzione ancora è quella dello scultore che esuma i cadaveri per riportarli in vita, “rimpolpati con una specie di argilla viscida”.

Così nascita e morte, i due termini del percorso terrestre, vengono svelate nella loro assurdità dalla penna dei poeti, che sembrano non volersi arrendere a darne per scontata la naturalezza e si ostinano a presentarceli come esotici, goffi misteri. E lo stesso vale, naturalmente, per tutte le sfaccettature della vita tesa fra questi due estremi. Ma in entrambi gli autori i perturbanti interrogativi suscitati dalle prose non fanno in tempo a generare inquietudine, perché sono invariabilmente proposti con tocco ironico e lieve. Gettano piuttosto i semi di un possibile sguardo altro sul mondo, come ogni poesia (in prosa o meno) dovrebbe fare.

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