Boris Vian, scrittore, paroliere, drammaturgo, poeta, trombettista e traduttore francese, morto a soli 39 anni nel 1959, non è mai stato particolarmente apprezzato in Italia – l’unica sua canzone relativamente nota è “Le deserteur”, tradotta in italiano da Giorgio Calabrese e interpretata fra gli altri da Ornella Vanoni e Ivano Fossati.
Grande estimatore di Vian è il cantautore e scrittore Giangilberto Monti, che ne ha tradotto e inciso le canzoni e l’ha portato in scena in due spettacoli teatrali.
Ora Monti racconta vita e opere di Vian in un libro fra il saggio e il romanzo, punteggiato di dialoghi verosimili, suddiviso in dieci capitoli ognuno dei quali è contraddistinto da una delle canzoni del francese.
È un lavoro informatissimo e appassionato, che tratteggia il ritratto dettagliato di un personaggio multiforme che meriterebbe di essere più conosciuto anche da noi.
Ho letto con grande godimento le oltre 400 pagine di questo libro, scritto dal competentissimo Vito Vita, che amplia e completa il lavoro del rimpianto Mario De Luigi nel suo “Storia dell’industria fonografica in Italia” (recensito qui più di dieci anni fa https://www.rockol.it/recensioni-musicali/libri/537/mario-de-luigi-storia-dell-industria-fonografica-in-italia) avendo come sottotitolo “Storia dell’industria del vinile in Italia (interessante notare come non sia stata scelta la dizione “Industria discografica”: del resto ormai parlare di “dischi” non ha quasi più senso, e il destino di un’industria privata dell’oggetto che le ha dato il nome è inevitabilmente grigio se non nero).
Vita mette in fila, cronologicamente secondo la loro data di nascita, le mille (o quasi) aziende produttrici di dischi che sono nate, cresciute e morte in Italia a partire dalla fine dell’Ottocento. Il suo è un lavoro certosino e meritorio, non solo perché ci ricorda che ci sono stati momenti (creativamente ed economicamente) assai più gloriosi di quello che stiamo vivendo, ma anche perché riporta alla memoria i nomi delle persone che alla discografia italiana hanno dato lustro. A titolo del tutto personale, mi ha anche fatto ricordare tanta gente che credevo di aver dimenticato, e che invece era solo nascosta in qualche intreccio arrugginito dei miei neuroni cerebrali (Mela Bacchini! Giusta Spotti! Gianna Morello!).
Se questo libro ha un limite, è che spesso la massa enorme di informazioni che contiene lo riduce, inevitabilmente, a un mero elenco di nomi e di titoli – e non dubito che Vita avrebbe potuto scrivere il doppio delle pagine (ma chi gliele avrebbe pubblicate?) arricchendolo ulteriormente di informazioni e riflessioni. Ecco, magari le tre interviste conclusive sono pleonastiche, ma le scelte autoriali vanno comprese e accettate.
Tuttavia, “Musica solida” – bel titolo, in contrapposizione alla fastidiosissima definizione di “musica liquida” – ha i pregi del libro storico, e sono certo che Mario De Luigi l’avrebbe apprezzato come indubitabilmente merita.
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