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VANILLA ICE DREAM – recensione di Teresa Capello su Minima&Moralia

VANILLA ICE DREAM – recensione di Teresa Capello su Minima&Moralia

Stati Uniti immaginari (ma non troppo): Vanilla Ice Dream di Roger Salloch

Blow up, il momento il cui un obiettivo mette a fuoco un dettaglio, avvicinandolo allo sguardo, come a volte si fa, sbattendo le palpebre. Al racconto “Las babas del diablo”, Michelangelo Antonioni si ispirò, nel 1966, per realizzare il film Blow up; Cortázar vi raccontavala vicenda di Roberto Michel – traduttore e fotografo, che indagava su un dettaglio, presente in una fotografia. Qualcosa di affine, in un contesto molto diverso, si ritrova nel romanzo Vanilla Ice Dream di Roger Salloch, edito nella collana tamizdat, di Miraggi, 2020.

Salloch, artista statunitense che vive a Parigi, poliedrico autore di narrativa, cinema, teatro nonché fotografo, e che con il suo precedente Una storia tedesca aveva inaugurato la stessa collana – racconta, con stile controllato ed asciutto – tanto scarno quanto netto ed incisivo – una storia complessa, fatta di contrasti: d’amore, di forzature, implosioni affettive, partenze e ritorni, sempre alimentati o condizionati, sullo sfondo, ma in evidenza, da un radicato odio razziale che arriva a minare, ed a volte del tutto corrodere, anche gli interstizi della vita privata del protagonista. D’altra parte, risulta essere proprio questa l’intenzione editoriale: i “tamizdat”, in Urss e nel blocco comunista, erano le opere straniere clandestine, vietate perché provenienti da «tam», là.

Con il ritmo di una sintassi martellante, paratattica e nervosa, a tratti discontinua – esattamente come uno scatto fotografico, meditato a lungo, oppure dominato da un impulso improvviso – il protagonista, Carter Hollmann, comprende, a mano a mano, e parallelamente vive, la distopia, inizialmente sfuocata, poi nitida, in crescendo – dura,e tragica – che ritrova, in un ipotetico 2021, al suo ritorno negli U.S.A, dopo molti viaggi in tutto il mondo,dei quali conserva molti ricordi, condivisi con il lettore. Travolto da una crisi profonda, dopo un momento di violento scontro con la donna che amava, il protagonista era infatti diventato uno “scrittore di viaggio, un osservatore”.

Gli United States che Salloch racconta sono uno Stato sufficientemente immaginario, ma i moltissimi dettagli riferiti ad aspetti del presente, da ricercare nella lettura – a volte disseminati con una certa ironia, ma sempre portati alle loro estreme conseguenze – fanno comprendere anche il risvolto sociale o addirittura sociologico, di un discorso su temi molto attuali, senza sconti (con riferimenti ad un uomo bianco “con una messa in piega arancione”)…

…Carter era seduto in una bettola chiamata The American Breakfast. Non aveva importanza. Erano le cinque del pomeriggio. Allineati nel bar vecchi sgabelli foderati di pelle porpora. La pelle rubata anni prima dalle selle di qualche rodeo. Quello sì che importava. Vecchi poster raffiguranti la Statua della Libertà e John Kennedy. E Robert Kennedy, con jeans slavati e guance colorite. E poster della prima marcia di protesta delle donne a Washington. Anche quello era importante.

Scene del passato e del presente si alternano nei clic della memoria, e tutto si confonde, ma mai senza lucidità dello sguardo, con le fotografie scattate da Meredith, la donna amata da Carter, mentre l’uomo non riesce mai a definire, del tutto, la natura della relazione, psicologicamente tortuosa, che lo attanaglia.

In un punto del romanzo, un esplicito riferimento a Hemingway dà un’ulteriore possibile chiave di lettura della storia. Un giorno l’attenzione dello scrittore viene attratta da una fotografia, appesa alla parete, in casa di Meredith. La foto in bianco e nero ritrae un bambino, gioiosamente impegnato a mangiare un gelato alla vaniglia.

Fotografie in bianco e nero merlettavano la parete. Alcune scolpite nella miseria. Tutte crudamente contrastate, famiglie nere radunate sui gradini di casa, sul davanzale di una roulotte, madri nere che tenevano bambini neri per i piedi per fermare quello che Meredith chiamava il rigurgito nero. Le dita di una bambina che seguivano le crepe di un muro, cercando una via d’uscita. Di rado c’erano uomini neri. Sul caminetto, un’immagine che lo colpì particolarmente: un bambino nero che leccava un bianchissimo gelato alla vaniglia. La lingua fuori. Il gelato che si stava sciogliendo in fretta. Le sue speranze sulla lingua. Qualcuno, probabilmente Meredith, aveva tracciato un titolo sul bianco opaco che la circondava: Vanilla Ice Dream.

La scena nella foto, però, come molte altre scattate dalla sua ex compagna – nuovamente inseguita, come un incubo ricorrente – è colma di disperazione che amplifica, nell’uomo, il desiderio di capire perché e per conto di chi sta lavorando Meredith, come fotografa. Il rimbalzo delle notazioni coloristiche, nel romanzo, è potente e fortemente visivo, costruendo un discorso nel discorso, con una citazione più volte ripetuta – oltre ad altri numerosi rimandi letterari – la pagina quarantadue di Moby Dick di Melville, che ossessiona il protagonista:

Pensava ad Achab, a Pip e al Pequod, ma soprattutto al capitolo 42, dove si scopre che il bianco, e non il nero, è il colore dell’orrore. Sebbene in molti oggetti naturali la bianchezza accresca raffinatamente la bellezza, quasi le impartisse una sua speciale virtù […] pure, malgrado tutte queste accumulate associazioni, con tutto ciò che è dolce e venerabile e sublime, sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue.

Quindi, mentre l’America è sinistramente dominata dal motto “Make America white again” e la Casa Bianca è chiamata l’Albergo Bianco, in una specie di Stato che controlla i propri cittadini attraverso ogni mezzo possibile – dividendo e selezionando nettamente le persone non solo in base al loro colore della pelle o etnia, ma soprattutto in base alla loro ricchezza – l’osservatore Carter Hollmann, non riuscendo a cancellare il ricordo di quella donna enigmatica (che lo stesso narratore, inizialmente, descrive in un modo asettico e straniato: “In realtà, lei non era nemmeno nera, diciamo più ebano con sfumature di rosa, come quelle sbavature di tramonto che ti avvolgono alla fine di una bella giornata”) intreccerà una relazione con un’altra donna, che conosce da tempo, Catherine, cercando di uscire da una coazione a ripetere che lo spinge a compiere sempre lo stesso errore.

Su suggerimento di due amici, Rachel e Bob, caratterizzati come borghesi piuttosto indifferenti ai problemi sociali – benché li riconoscano e siano consci della distopia che stanno vivendo – lo scrittore inizia a lavorare in una scuola di scrittura dove le pareti sono controllate con un circuito elettrificato; mentre contemporaneamente, in una zona denominata Perimetro, avviene un atroce gioco di ruolo,una lotta, forse simulata, forse sanguinosamente vera, tra Rossi e Blu. Alla tessitura narrativa, ad un certo punto, si aggiunge l’amicizia che lo scrittore di viaggio intreccia con un alunno, Julio, bizzarro e solitario, il cui vero nome è già una storia, di per sé (“Mi chiamo Julio Orijnak. In realtà, Juliano Orijnak. E mia madre ha voluto che fosse Julio Cristobal Crazy Horse Prijnak. Ma di questo ve ne parlerò più avanti”) che, suo malgrado, porterà Hollmann a capire che cosa si nasconde dietro i viaggi in furgone del giovane amico e soprattutto a cosa si riferiscono le foto di Meredith.

Vanilla Ice Dream occupava il pannello centrale all’ingresso. La testa del ragazzino era girata di tre quarti come se potesse già sentire l’approssimarsi della folla nella fotografia successiva, dietro l’angolo, quattro poliziotti con pistole e manganelli che sembravano rosso fuoco sotto la loro placcatura d’argento. Si poteva quasi percepireil gelato che gocciolava sulle sue dita. E poi, un minuto dopo, il gusto dei suoi polpastrelli mentre cercava di leccarlo via. I sogni non mentivano, e nemmeno le fotografie di Meredith. Davano voce ai gradini sul retro, ai giardini, alle roulotte piene dell’immondizia del giorno prima, davano voce all’America, la nostra bella America, My country, ’tis of thee, of thee I sing. Nera l’architettura, bianco lo spazio. Così mangiavano i neri, così pisciavano i neri.

Una battuta, a mio parere, racchiude il cuore intimo di questo romanzo, esplicitando, sul piano emotivo, l’incapacità caparbia, poi consapevole e ricercata con determinazione, del protagonista: così come Carter Hollmann non ha mai imparato ad allacciarsi in modo consueto ed abituale i lacci delle scarpe, egli risulta altrettanto incapace di accettare di vivere, in un silenzio passivo e compresso, in un luogo dove, quando un ragazzo nero viene investito da un furgone – sorpreso forse a rubare in un negozio e malamente spinto fuori dal titolare – nessuno si ferma a preoccuparsene, al di fuori del protagonista stesso e di un’altra persona: e forse è anche per questo che è diventato scrittore di viaggio ed osservatore, quasi cercando, inizialmente, un’ulteriore possibile risposta alla propria inquietudine. Insomma, sentendosi infine più Ismaele che Achab, l’uomo non riesce a stare senza far nulla, senza almeno provarci a cambiare quel mondo, pur sapendo che non è un’impresa facile.

La frase a cui mi riferisco si legge quando Julio, l’allievo/amico che sta imparando ad esprimere, con esercizi di scrittura creativa, le proprie emozioni, inizialmente raggrumate nel silenzio, inizia, quasi in una specie di febbricitante trance, a recuperare la storia di migrazioni della propria famiglia, osservando il dolore che aveva nascosto a sé stessoe dice a Carter: “Mi stai ascoltando? Io mi sto ascoltando”.

Approssimandosi al finale, si svela una speranza, concreta ed interiore, che guarda ad un 2021 senza condizionamenti da strabismo distopico:

A parte questo, avrebbe potuto non esserci alcuna speranza nella nostalgia, ma per ragioni che solo gli dei conoscono, c’era ancora speranza nei pancake.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.minimaetmoralia.it/wp/vanilla-ice-dream-roger-salloch/