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Recensione a L’animale nella fossa su Casadeilettori.blogspot.com


Sii tu le rete che raccoglie 

le olive che cadono

io sarò l’ulivo”

La destrutturazione del linguaggio metaforico attraverso l’immagine: è questo il percorso poetico di Gaia Ginevra Giorgi.

Una sperimentazione che la porta a coniugare il dire con il vedere.

Non ci sono fratture tra queste parti e il soggetto finalmente torna intero.

Mente, corpo, parola, percezione in un intreccio lucido, bilanciato, molto espressivo.

“Oggi sono schiuma

sottrazione

cicatrice laterale – roccia

che frana”

La mancanza di punteggiatura, la scelta accurata del fonema creano una musicalità sacra.

E la sacralità è ricerca di geometrie e di linee e di colori.

Le pause sono respiri trattenuti, incanti, fluorescenze.

I ricordi frammenti di pulviscolo, i sogni evocazioni di un immaginario che sconfina nelle solitarie meditazioni.

“L’animale nella fossa”, pubblicato da Miraggi Editore nella Collana “scafiblù” è “il buio primitivo” di un’assenza, “il rischio del varco”, lo strappo.

È il bosco, la lacerazione, la luce del mattino.

È l’ombra, la possibilità, il confine tra selvaggio e domestico.

È la prosa che arriva senza preavviso, il ritmo accelerato della vita, la corsa verso l’irraggiungibile.

Bellissima la prefazione di Tommaso Ottonieri.

Il labirinto nel labirinto.

Di Anna Maria Patti. QUI l’articolo originale: https://casadeilettori.blogspot.com/2024/03/lanimale-nella-fossa-gaia-ginevra.html?m=1

Una grinta a oltranza. La lezione di Valeria sulla vita da disabili

Dopo un incidente sono stato costretto a utilizzare la sedia a rotelleL’incontro con una donna paralizzata ha cambiato il mio sguardo

Andare a oltranza vuole dire superare tutti i limiti, o cercare di farlo. Ma partiamo dall’inizio, perché mi ha riguardato personalmente e mi ha aiutato a capire parecchie cose. Per tutto l’anno scorso, dopo un incidente, sono stato un disabile. Niente di troppo grave, se vogliamo, ma ho avuto una gamba fracassata che non mi ha consentito di fare una vita normale: primo mese, sempre a letto al Cto; secondo e terzo mese, un po’ a letto e un po’ in sedia a rotelle in una struttura di degenza da cui non vedevo l’ora di uscire. Ma non sarei potuto tornare a casa perché la sedia a rotelle non passava nell’ascensore. Ho dovuto aspettare il momento in cui ho potuto provare a muovermi con le stampelle, alla faccia del fissatore esterno, un’incastellatura di cinque anelli da ognuno dei quali due chiodi attraversavano le mie povere ossa; un vero strumento di tortura. Laura era preoccupatissima: «Aspetta ancora un po’. Abbi pazienza». Ma alla fine ce l’ho fatta: sono tornato a casa appoggiandomi da solo sulle stampelle e sul piede sano. Dopo pochi giorni, abbiamo azzardato la prima uscita, Laura e io. Era arrivata la primavera. Poche decine di metri al giorno, intorno all’isolato, poi una capatina fino a Porta Palazzo e poi, qualche settimana dopo, il primo grande obiettivo: arrivare in Galleria, a salutare Cristiani, a bermi il mio bianchetto seduto da Cecio o da Ciro o da Stefano, a veder passare qualcuno che mi sorride e dice «Va meglio, eh? Abbiamo saputo… Mamma mia!». In effetti la gamba e la caviglia continuano a farmi un male cane anche se prendo gli antidolorifici. Ma l’importante è essere fuori. 

E qui arrivo al dunque: in Galleria ho conosciuto Valeria, sulla sua carrozzella elettrica con la sua cagnetta Luna; ho capito che era affetta da qualche brutta forma di paralisi. Dopo un paio di incontri di sfuggita, si è fermata a un tavolino da Stefano, sull’angolo di via della Basilica, vicino al mio. L’ho salutata, mi ha risposto con quella che poteva sembrare una smorfia e che invece, ho capito, era un sorriso. Lì per lì non ho neanche afferrato quello che diceva: «Puoi ripetere, per favore? Ah, sì, oggi è proprio una bella giornata». 

La gente passava e qualcuno guardava il mio gambone, le mie stampelle e la sua carrozzella. Intanto era arrivata l’estate, mi avevano tolto il tremendo fissatore esterno e avevo finalmente potuto rimettermi una paio di pantaloni normali. Sembra una cosa da niente, ma andare in giro con braghe da ginnastica extralarge per più di sette mesi ti toglie la voglia di vivere, ti senti solo un vecchio relitto. 

E poi ecco l’autunno, e io avevo incominciato a camminare con una stampella sola. «È uscito il mio libro!», mi ha detto un giorno tutta contenta. «Libro?». «Sì: l’ho scritto io!». Me lo porge, e vedo sulla copertina una bellissima caricatura di lei in carrozzella con Luna in braccio. Leggo ad alta voce: «Valeria Carletti. A oltranza. (Dis)avventure di una vecchia groupie. Miraggi edizioni». Non so bene che cosa sia un groupie, ma me lo faccio spiegare e scopro che è un fan di un cantante o di un musicista rock. La guardo con occhio interrogativo e lei mi fa di sì ridendo: lei è proprio una groupie. «Posso comprarlo?» le chiedo al volo. Ha una borsa con parecchie copie e me ne dà una, «Mi fai la dedica?». E lei, con difficoltà ma senza titubanze, riesce ad aprire il libro e scrive «A Giorgio» sul frontespizio. Cosa dire? Anche se ho fatto finta di niente mi sono commosso. Che grinta! 

Passano pochi mesi. Laura e io abbiamo letto il libro, lo abbiamo apprezzato e lo abbiamo poi detto a Valeria quando l’abbiamo di nuovo incontrata in Galleria. Lei mi ha fatto i complimenti perché adesso cammino solo con il bastone e ride: «Fa anche chic!». Poi ci dice di guardare le prime recensioni del suo libro su Amazon; le trovo subito sul telefonino e leggo la prima: «Paola. 5 su 5 stelle. Fatevi un regalo, leggete questo libro! Recensito in Italia il 18 gennaio 2024. Acquisto verificato. Un libro pieno di vita, musica, sentimenti, tutto legato insieme dall’ironia! Divorato in pochissimo tempo, tante risate, qualche lacrima e tantissime emozioni. In tanti possono ritrovarsi in quelle parole perché la “disabilità” ha varie forme e io vorrei riuscire ad affrontarla con la stessa caparbietà di Valeria». «Poi c’è quest’altra» e vado avanti a leggere: «Anna Maria Burrafato 5 su 5 stelle. Un viaggio dentro la consapevolezza. Un libro prezioso che regala l’opportunità di cambiare punto di vista e provare a percepire il mondo così come lo sente Valeria: con commozione, gioia, tristezza, speranza e amore. Un libro pieno di empatia e pieno di musica. Un libro così empatico proprio grazie alla musica e al suo enorme potere salvifico e di espressione interiore. Personalmente l’ho trovato molto intenso. Offre spunti musicali davvero interessanti per chiunque ama la musica ed è sempre alla ricerca di scoprirne nuove perle. Da leggere. Io l’ho divorato in due giorni». L’autunno volge al termine. Incontro di nuovo Valeria in Galleria: «Domani c’è la presentazione al Circolo dei Lettori!» mi dice raggiante. «Venite?». Il Circolo dei Lettori, massima aspirazione per chi scrive un libro. Sala gremita: tutti giovani, bei giovani; atmosfera di amicizia e di spirito positivo, tutto intorno a Valeria; all’inizio c’è la sua assistente logopedista che traduce, ma alla fine è proprio lei, al microfono, che parla, parla bene e riesce a farsi capire da tutti. O forse siamo noi, che finalmente riusciamo a capirla? Laura e io abbiamo preso il taxi per venire perché la gamba mi fa ancora male, siamo i più anziani, ma ci sentiamo giovani con loro e come loro. 

«Ma che belle persone, che bel tutto… sono proprio contenta per lei; se lo merita» dice Laura mentre siamo ormai in scesi in via Bogino. «Chiamiamo il taxi?». Io faccio segno di no, brandisco il bastone con gesto da Brancaleone e indico la direzione di casa dicendo: «A oltranza!». E, passo passo, ci avviamo sottobraccio verso Porta Palazzo.

di Giorgio Caponetti 

QUI l’articolo originale: https://www.lastampa.it/torino/2024/03/17/news/disabili_esempio_vita_storia-14153324/

Può un solco senza seme dare frutti?

Può un solco senza seme dare frutti? Quello di Luca Ragagnin sicuramente: frutti allo stesso tempo dolci e amari, succulenti e un po’ aciduli.

Un solco senza seme è un libro impossibile da classificare e complesso da approcciare. È una raccolta di scritture in versi, come recita il sottotitolo, o, meglio ancora, “scritture con gli a-capo”, come le definisce l’autore stesso. 35 anni di testi (1988-2023) pubblicati e inediti (come Mangimonio), ispirati ad antiche leggende (gli “oracoli caldaici”) o a malattie, sale d’aspetto e corsie d’ospedale, frutto di anni di lavoro di scalpello e continuo rimuginare o scritti di getto “abbarbicato su uno scoglio”.

Il lettore si immerge in questo viaggio nel tempo, un tempo intimo e personale, perché tutto ciò che accade e che il poeta mette in versi, anche se comune e universale, spesso fatto di quotidianità appartenenti a tutti, è filtrato sempre attraverso la propria personalissima esperienza, e naviga tra versi irregolari, scoscesi come pendii alpini, frastagliati come le nostre coste, irruenti come la risacca, rimbalzando tra rime e assonanze mai banali, che cullano e scuotono.

Quello che colpisce immediatamente è proprio la padronanza del verso, della metrica, l’alternarsi continuo di strutture differenti, che dietro l’immediatezza nasconde un elaborato labor limae (come Orazio, e il paragone non risulti blasfemo, che per le prime 10 delle sue Odi utilizzò 10 versi differenti). Spostandosi, così, tra le raccolte (il libro è una raccolta di raccolte, una summa poetica, Lu cunto de li cunti) sentiamo echi di ermetismo e decadentismo, simbolismo e surrealismo, ma anche la musicalità di certi poeti spagnoli (Fosfeni di bianco e poi bianco, scrive Ragagnin; Nel bianco infinito,/ neve, nardo e sale cantava Lorca).

Riemersi annaspando dal mare burrascoso di certi versi, rimaniamo ora abbagliati da improvvise illuminazioni (Radura che il sole attanaglia./La corazza della sorte/sepolta sotto il peso della luce), ora sprofondati in abissi senza fondo, travolti dalla tempesta e sopraffatti dal divino, sperduti nell’immensità del cosmo, annegati nel grembo (materno come della Terra, che tutti ci accoglie), ascoltando echi di tristezze e rimbalzando su silenzi assordanti. Andando avanti nella lettura, siamo costretti a fare i conti con la caducità dei nostri corpi, il nostro essere fatti di atomi esattamente come tutta la realtà che ci circonda, vediamo i segni del tempo e della malattia sulla pelle e sulle ossa, miseri corpi abbandonati e prostrati (la carne ha fatto naufragio in terra straniera), ma anche nelle nostre anime, di cui, al contempo, sondiamo le profondità e ammiriamo le mille sfaccettature, attraversiamo il luogo capovolto della morte. Oscilliamo, assieme all’autore, tra bisogno di amore e d’appartenenza e senso di solitudine (sono solo come un boia al termine del giorno….Peggio sarebbe ritornare ancora/in mezzo alle persone./Ma la mia solitudine/ha un numero da circo) e ci imbattiamo di frequente in inni alla luce, ma soprattutto alla voce, alla parola, strumento principe con cui affrontare le nostre piccole e grandi sfide quotidiane e spesso difesa unica contro i mali del mondo (Si he perdido la vida, el tiempo, todo/lo que tiré, come un anillo, al agua si he perdido la voz en la maleza,/me queda la palabra)[1]. Ma, in fondo, non c’è differenza tra luce e parola, tra buio e silenzio, i sensi si confondono (il nostro canto…si distingueva appena dalle ombre).

Ricerca, scoperta (scavare, cercare viaggiare, navigare, annegare, perdersi in antri oscuri, grotte, recessi) e rimedio (ferite, lame, solchi, fessure, ma poi corde, lacci, suture, incollaggi, cucire le feriterilegatore di anime) sono temi ricorrenti nell’opera, che oscilla, appunto, tra il viaggio, fisico e spirituale, e l’aspirazione a riparare a colpe proprie e altrui. 

E navigando tra le poesie sorge all’improvviso, come uno scoglio non segnalato, un Atto unico, anzi, un Misfatto unico, rappresentazione tragicomica della razionalità portata all’estremo, scevra da ogni contatto con la realtà, scarnificata, ridotta all’essenza del pensiero matematico, ragione pura, sofismo senza sbocco, assassinio del sentimento. J’accuse contro la ricerca esasperata della perfezione fine a stessa, senza limiti e condizioni. Riflessione amara sull’impossibilità di qualsiasi cambiamento, sull’incapacità di comunicare, sull’inevitabile condanna alla solitudine e al vuoto.

Attraverso percorsi sempre privati e personalissimi, che prima dei fatti mostrano un proprio vissuto, le proprie esperienze che appaiono quasi per caso comuni anche a tanti altri, andiamo, poi, alla scoperta, o riscoperta, di titoli e personaggi, che, dallo schermo delle TV, hanno attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana, perché niente meglio della televisione rispecchia l’evoluzione (o l’involuzione) del nostro Paese e degli italiani nel secondo dopoguerra.

E di qui approdiamo al cinema: schizzi e bozzetti, immagini e musica, di un mondo meraviglioso, popolato da personaggi straordinari, eppure intimamente familiari, ritratti sempre con uno sguardo partecipe.

E la musica a dettare i tempi di ogni strofa, a dare il ritmo a voci e ricordi, un ritmo pieno di variazioni, un alternarsi di arsi e tesi, a trasmettere la sensazione che tutta l’opera sia intrisa di questa passione difficile da tenere a freno e che trova la propria consacrazione nell’ultimo “capitolo” Trentawatt (che a me fa venire in mente un piccolo amplificatore).

Anche la scrittura trova qui la sua apoteosi, in una forma assolutamente originale: brevi saggi in bilico tra versi e prosa.

Un’immersione, dunque, nella musica, sguazzando tra i generi (dal rock alla classica, dal jazz al pop) e al contempo sorvolandoli alla scoperta di suoni e sfumature, trasportati dal ritmo di versi che di volta in volta si adattano all’artista celebrato e dal calore di una passione che non vede cali di tono.

Orazioni che ci lasciano penetrare nelle vite e negli animi di musicisti e movimenti che hanno segnato, ciascuno a suo modo, la propria epoca. Personaggi fuori dal coro, originali, spesso irriverenti, come la scrittura di Ragagnin, sovente contro, come gli Henry Cow. È proprio il brano dedicato a questi ultimi (La calza di lana o di ferro) che rappresenta, almeno per me, appassionato dell’Underground inglese a cavallo tra la fine dei ’60 e i ’70, la vetta più alta toccata dall’autore: una celebrazione senza fronzoli, schietta, al contempo lucida e appassionata, di una band straordinaria.

A quasi cinquant’anni dal loro scioglimento, rimangono i portavoce della libertà mischiata al piacere, i depositari della genialità del rock, i proprietari del vero e sincero donarsi all’udienza con tutti i mezzi tecnici e umani possibili.

[1] Blas de Otero – En el principio

di Fabio Sarno


QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/un-solco-senza-seme-di-luca-ragagnin/

Le “Donne cattive”che raccontano cinquant’anni di storia italiana

Nel libro di Liliana Madeo, uscito in nuova edizione nel novembre scorso, le protagoniste testimoniano l’arretratezza moralista del nostro Paese. Figure irregolari scelte dall’autrice che «si oppongono alle gerarchie e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».

Di Laura Bertolotti. Questo articolo è uscito su www.heraldo.it

Ci sono donne cattive? Parlarne dopo la Giornata internazionale per i diritti della donna sembra quasi sacrilego, quando qualcuno si ostina persino a considerarla la “festa della donna”, per poche ore con fiori e auguri. E allora cerchiamo di uscire dalla gabbia ideologica che vede le donne sempre brave, multitasking e comunque con una marcia in più. Dobbiamo ammettere che l’argomento è di per sé debole e presta il fianco a facili critiche.

Ricordiamo piuttosto che l’8 marzo vuole essere, ogni anno, un momento di riflessione sui diritti ancora non riconosciuti in molti Paesi del mondo e sempre pericolosamente in bilico o dimenticati, per esempio, nei rapporti affettivi e nei contratti di lavoro, anche in piena democrazia.

Ma resta il nodo delle cosiddette “donne cattive”. Esistono, anche se riservano qualche sorpresa. Ce ne parla Liliana Madeo nel suo saggio che si legge come un romanzo, Donne cattive. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi, 2023), già pubblicato nel 1999 e uscito in una nuova edizione nel novembre scorso.

Protagoniste di un dopoguerra cui ribellarsi

Liliana Madeo è stata inviata del quotidiano La Stampa e ha lavorato come consulente del Tg2 per il programma “Mafalda – Dalla parte delle donne”. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo Bianco, rosso e verde. L’identità degli italiani (a cura di Giorgio Calcagno, Laterza 1993), Si regalavano infamie. Antonina e Teodora, le potenti di Bisanzio (Tullio Pironti 2021), Donne di mafia. Vittime Complici Protagoniste (Mondadori, 1994, poi diventata serie televisiva nel 2001 e ristampato da Miraggi nel 2020).

L’autrice ha voluto mettere al centro di Donne cattive la lentezza e la difficoltà per le donne di muoversi nel dopoguerra, che aveva tradito le loro aspettative».

«Ho scelto le donne che venivano clamorosamente alla ribalta della cronaca, tutte personagge esemplificative di quel momento storico, anche le cattive senza virgolette, perché si muovevano tra moralismo e perbenismo imperanti – approfondisce Madeo -. Queste donne cattive rifiutano il loro destino e la tradizione che le vuole spose e madri amorevoli. Sono le irregolari che si oppongono alla morale, alle gerarchie, alla Chiesa, alla loro famiglia e danno scandalo, arrivando persino a uccidere».

Lo scandalo della Dama bianca 

Madeo raccoglie tredici emblematiche storie di «persone cariche di valenze simboliche. Ciascuna con una precisa collocazione geografica, magari uscite dall’ombra e dal silenzio senza neppure l’orgoglio e la consapevolezza della propria diversità, ma in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un Paese democratico».

Troviamo la vicenda di Rina Fort, su cui la cronaca nera versò fiumi di inchiostro nell’Italia degli anni Cinquanta, uscita povera e distrutta dalla guerra. E anche la sua è una storia di povertà, di benessere appena raggiunto e subito perso, di una catena di sfortunati avvenimenti che la portarono a macchiarsi di omicidio.

Il talento dell’autrice è di incorniciare le storie nella più grande storia del nostro Paese e non è fiction, ma rispettosa documentazione e volontà di collocare i fatti nel loro tempo e nelle norme che lo regolano.

Nel libro troviamo anche la “dama bianca”, al secolo Giulia Occhini, amante di Fausto Coppi, così soprannominata dal colore del montgomery che indossava quando Coppi, nel 1952, vinse il Giro d’Italia. Negli anni Cinquanta l’abbraccio fra Stato e Chiesa era molto forte, ci ricorda l’autrice, erano i tempi della santificazione di Maria Goretti, che ispirava libri, drammi e canzoni.

La verginità era un valore, arrivare al matrimonio non illibata e non dirlo allo sposo costituiva “ingiuria grave”, riconosciuta dall’ultima sentenza della Cassazione che applicò tale principio ancora nel 1973. Come poteva essere giudicata una donna che in quegli anni lasciava un matrimonio per seguire un altro amore? Una donna cattiva.

Tra le ribelli anche una teologa scomoda

Nel libro ci sono ritratti come quello di Loriana Nunziati, che sposa con rito civile Mauro Bellandi, ignorando i consigli del vescovo, i due sono quindi dichiarati “pubblici concubini” in forza del diritto canonico e di conseguenza scomunicati.

Sembra un fatto assai distante dalla realtà di oggi in cui la convivenza è prassi normale e non preclude neppure il matrimonio religioso, ma correvano gli anni Cinquanta, come si è detto, e quelle erano considerate donne cattive.

Come Franca Viola, che si rifiuta di sposare il suo stupratore e si dovrà aspettare il 1981 perché venga abolito il cosiddetto matrimonio riparatore e il 1996, in cui la Legge 66 sancirà finalmente lo stupro come un crimine contro la persona e non contro la morale.

Era scomoda, giusto per variare l’aggettivo, persino la teologa Adriana Zarri «una spina nel fianco di quella Chiesa tradizionale – continua Madeo -, da secoli arroccata dietro verità monolitiche». Con lei un folto gruppo di donne, laiche o religiose, tra cui storiche, antropologhe, filosofe e teologhe, appunto, che alzavano una voce autorevole per scardinare i silenzi della Chiesa.

Per tacere delle “cattive, cattivissime anzi streghe” che negli anni Settanta facevano nascere il Movimento di liberazione della donna, si raccoglievano in piccoli circoli per riflettere sulla loro condizione e manifestavano apertamente per il diritto di aborto.

Il libro propone una prospettiva storica dei fatti avvenuti nella seconda parte del Novecento quando le donne venivano classificate come ribelli, scostumate, additate dalla pubblica opinione, anche solo se provavano a parlare di anticoncezionali. Non si può negare l’utilità didattica di questo testo nei confronti delle nuove generazioni perché, scrive Madeo, in Donne cattivetroviamo “le madri delle ragazze del nuovo millennio”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

QUI l’articolo originale: https://www.heraldo.it/2024/03/14/le-donne-cattiveche-raccontano-cinquantanni-di-storia-italiana/?fbclid=IwAR3K0ha-QfMDuuf-jnJ3INlKqgLGdPKKtafZHW578kIR3wkr0hXL7Y_JWoY

Il secondo addio – recensione di Andrea Tarabbia su Tuttolibri

Il secondo addio – recensione di Andrea Tarabbia su Tuttolibri

Questa recensione è uscita ieri su TuttoLibri della Stampa

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Quinto romanzo di Sylvie Richterová, scrittrice ceca emigrata nel nostro Paese all’inizio degli anni Settanta e che ha continuato a scrivere nella sua lingua madre, Il secondo addio arriva in libreria grazie a Miraggi edizioni e alla traduzione di Alessandro De Vito – e vi arriva dopo un’attesa di quasi trent’anni, visto che la sua redazione è del 1994. Storia curiosa, ma tutto sommato non insolita, quella dei libri di Richterová, di cui questo Secondo addio può essere preso a emblema: prima opera composta dopo la caduta del regime, il romanzo (se questa definizione ha senso, ma ne parliamo tra poco) poté uscire a Praga, ed era la prima volta che un libro di Richterová arrivava nelle librerie ceche. Ma era stato scritto in Italia, da qualcuno che aveva lasciato la madrepatria da oltre due decenni e che sapeva non vi avrebbe mai fatto ritorno. Fu tradotto in alcune lingue europee ma, curiosamente, non nella nostra, e così sembra che il destino di ciò che Richterová scrive sia, per un motivo o per l’altro, quello di avere difficoltà di diffusione.
Ecco, questa difficoltà trova eco nelle pagine del Secondo addio, che è un libro di personaggi più che di trama, e in cui tutti, o quasi, scrivono: scrive Jan, principale narratore di questa vicenda e marito di Marie, la protagonista – o per lo meno colei le cui vicende tengono unito il composito gruppo dei personaggi; ciò che Marie scrive a proposito della propria vita viene affidato proprio a Jan, il quale a sua volta lascerà un manoscritto che verrà ritrovato dal fratello; scrive anche Tommaso, che all’inizio troviamo in una comune romana dove Marie, esule ceca, si trova a vivere negli anni Settanta, dopo aver lasciato la Cecoslovacchia: Tommaso è poeta, e affida i suoi versi proprio a Marie, che a sua volta riceve da Praga i manoscritti scientifici e le opere di Pavel – amico del padre e di cui la donna è innamorata. Insomma, tutti o quasi scrivono, in questo libro, e tutti affidano le loro cose a qualcun altro: tutti hanno fiducia negli altri, da questa e dall’altra parte della frontiera, e si donano attraverso la parola scritta.

Alcuni dei testi che i personaggi scrivono entrano a far parte del romanzo. Pavel, per esempio, affida a Marie un’opera letteraria di cui leggiamo degli estratti: si tratta di un romanzo, Il Narciso cieco, dai toni vagamente esistenzialisti e malinconici. Ma di Pavel leggiamo anche frammenti di lettere in cui l’uomo ragiona sulla sua condizione di “prigioniero” di un mondo che non sa e non vuole abbandonare e sostiene che «a partire da un certo momento le notizie sulla nostra vita sono state più vive della nostra stessa vita». Scrive: «Cara Marie, l’uomo ha l’irresistibile istinto di raccontare la vita, di darle una forma… è la forma a darle senso» – e questo mi pare il concetto capitale attorno a cui Il secondo addio è costruito. Come sostiene anche Massimo Rizzante nella postfazione, infatti, questo libro non possiede uno statuto definitivo: non ha un vero proprio intreccio, al di là delle vicende biografiche, spesso esili, di Marie; non ha una voce narrante principale: si direbbe che sia Jan, il quale però cede il posto al fratello e, a turno, a tutti i personaggi della vicenda, che in dati momenti dicono “io”; non ha un’unità di tempo (si viaggia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, senza indicazioni precise) né di luogo, perché ai capitoli romani si alternano parti ceche senza soluzione di continuità. E allora? Dove sarebbe questa forma attraverso cui, secondo Pavel, diamo forma alle nostre vite? Sta proprio in questo saltabeccare, in questo continuo non trovare un centro di gravità: è la stessa Richterová, nella prefazione appositamente scritta per questa edizione, a fornire una chiave di lettura non solo per questo libro, ma per molta letteratura dell’Europa orientale che, oggi, tenta di restituire il proprio rapporto con la Storia, con la realtà. Ecco cosa scrive, parlando della fine del XX secolo come di un’epoca in cui «la storia non era più lineare e consequenziale ma piuttosto multidimensionale, e la biografia non si svolgeva nel tempo lineare, bensì attraverso una continua tessitura nel tempo e nello spazio di cui prendiamo coscienza. E siccome partecipano molti tessitori, il racconto può procedere benissimo con voci di narratori diversi». Ecco, questo concetto, che potrebbe andar bene anche per i libri di Gospodinov, di Drndić o di Hemon – tutti autori, ciascuno a suo modo, le cui biografie e i cui popoli sono stati travolti dalla Storia e che cercano disperatamente una forma e la trovano nel frammento – è ciò che rende Il secondo addio un libro rapsodico, insolito nei modi e nella costruzione, ma simile ai lavori di altri grandi autori europei che, avendo sofferto la Storia e sperimentato l’esilio e il dispatrio, cercano il modo per renderli leggibili.

QUI l’articolo originale: https://andreatarabbia.wordpress.com/2023/12/03/sylvie-richterova-il-secondo-addio/

Il secondo addio – recensione su Andergraund

Il secondo addio – recensione su Andergraund

Scrivere l’utopia della dimora perduta. “Il secondo addio” di Sylvie Richterová

Con Druhé loučení (“Il secondo addio”, 1994) anche Sylvie Richterová (Brno, 1945), grazie alla traduzione di Alessandro De Vito, entra a far parte della collana “NováVlna” di Miraggi edizioni, specializzata in letteratura ceca. È il terzo libro edito in Italia della scrittrice ceca, emigrata in Italia nel 1971 ed eternamente errante tra Roma e Praga, dopo Místopis (“Topografia”, Edizioni E/O 1986, Rina 2021) e Každá věc ať dospěje na své místo (“Che ogni cosa trovi il suo posto”, Mimesis, 2018).

Gli scritti di Jan consistono di alcuni incartamenti di testi più lunghi e più o meno coerenti e di diversi frammenti più brevi, annotazioni o piccoli lavori a sé stanti. È un romanzo che un giorno mio fratello finirà di scrivere? O è un’accozzaglia autobiografica di ricordi e note diaristiche, per la quale non ha pensato una forma compiuta?” (p. 135)

Un pulviscolo di voci errabonde, una comune di personaggi che abitano la dimora fittizia di un romanzo. Sono solo due dei molteplici modi con cui si potrebbe interpretare Il secondo addio. Il romanzo a variazioni di Richterová gioca continuamente con il carattere fittizio della scrittura e sulle diverse idee di “casa” dei suoi personaggi che vanno spargendosi geograficamente e spiritualmente, per poi svanire egli infissi del tempo e della carta. Non è dunque possibile riassumere un susseguirsi di fatti, la cui credibilità d’altronde è fortemente minata, ma solo soffermarsi sulle tracce di plurali e soggettive ricerche tematiche. Il secondo addio, infatti, solo dal punto di vista dei temi può essere considerato un romanzo corale.

Spesso il lettore si domanderà chi parla, quali parti siano narrate da Jan o da suo fratello, quanto le diverse scritture siano riportate fedelmente o mediate, o se sia tutto un gioco metaletterario di Richterová stessa. Cercherà di ricomporre episodi e vicende da cui sono sempre tolti dei tasselli e non gli sarà mai possibile ricostruire la fabula. Ma se riassumere un intreccio è impossibile, è necessario parlare del vero protagonista di questo romanzo: la scrittura.

“[…] Marie stendeva sulle pareti il colore bianco lavabile con uno spesso pennello piatto, dall’alto in basso, applicava il colore con uniformità e accuratezza, il primo strato copriva lo sporco, il secondo raggiungeva il biancore, ma solo il terzo era immacolato.” (p. 35)

Anche l’appartamento bianco è qualcosa di diverso, c’è silenzio e Marie non invita più ospiti e non organizza cene, nell’appartamento bianco non si cucina, non si beve, non si fuma. Marie non vuole macchie. Non vuole e basta.” (p. 68)

La scrittura si pone in contrasto con la sporcizia del mondo, una sporcizia ubiqua che pervade ogni luogo dell’eterno presente alla fine della Storia, da Roma a Praga, da Padova fino all’America Latina. Uno sporco a cui è contrapposto di continuo il biancore della casa di Marie, emigrata ceca, professoressa di matematica e madre di Michal, nato con quella che si potrebbe definire “un’immacolata concezione”, e di Blanka, “bianca come la pagina bianca, pulita, non scritta e non descritta” (p. 90). Un bianco presente anche nella neve praghese che avvolge la macchina in cui Pavel, intellettuale dissidente, si abbuffa barbaramente o i vestiti della setta messianica da cui si lascia coinvolgere Anna: un’ossessività (presumibilmente di Jan) che si traduce in 69 realizzazioni del solo lemma “bianco”, declinato per genere e numero, in poco meno di 150 pagine. Ma la scrittura come antidoto alla sporcizia può finire per essere forse un “salasso”, un riversarsi tutto intero nella pagina bianca attraverso un sottile filo di inchiostro” (p. 143), una manifestazione essa stessa della sporcizia?

Nonostante nel 1994 Richterová viva ormai da ventitré anni in Italia e abbia un ruolo attivo come mediatrice culturale, sceglie di continuare a scrivere in ceco. Nel romanzo trovano posto temi presenti in molta letteratura mitteleuropea del secondo Novecento, come la persecuzione degli intellettuali da parte di un regime totalitario o il dramma del confine che separa i nuclei famigliari. L’autrice non demistifica la grammatica dell’emigrazione – in cui la scelta della lingua di scrittura gioca un ruolo spesso fondamentale – ma ne compone una propria variazione individuale. Nessuna delle figure che popolano il suo romanzo può essere ridotta a un ruolo o un’identità storica (pratica tipica di un certo sguardo occidentale e del suo pietismo): Pavel non è solo un uomo di scienza ostracizzato e messo a tacere, l’emigrazione politica non chiarisce integralmente la natura errabonda di Jan, la “vita impropria” di Marie nella comune romana non presenta che pallidi accenni alle origini ceche, tanto autoctona da sembrare scritta da una penna italiana. Il suo sguardo si sofferma principalmente sul mistero privato e intimo dei personaggi ancora prima del crollo delle ideologie politiche; la loro ricerca individuale di significazione permane anche in un tempo in cui i confini ritornano a essere invisibili linee che non ostacolano più la circolazione delle persone e la Storia, non agendo più sul presente, da centrale nelle singole biografie può trasformarsi in insignificanza.

Ventidue quaderni, scritti di fretta con una grafia illeggibile, sono tanti, sono troppi.” (p. 75)

Nell’insignificanza può però sfociare anche la cecità narcisistica del singolo, la cui scrittura nel prendersi troppo sul serio rischia di trasformarsi in mera grafomania. Non è infatti casuale che Richterová, portavoce di una letteratura il cui carattere umoristico non ha forse eguali nel mondo, chiuda la sua premessa al libro con un invito allo humour (e con altrettanta ironia inviti a non confondere le vite degli enunciatori-narratori con la propria biografia).

Scriviamo ognuno un nostro libro, pallido riflesso di quel libro dei vivi e dei morti, in cui non vediamo.” (p. 107)

Il tragicomico de Il secondo addio risiede proprio nella serietà con cui è posto il legame tra due termini cardine in Richterová come scrittura e casa, entrambi rimandano a una sfera ideale e sono proiezioni progettuali tese a una struttura immaginaria perfetta e irraggiungibile. Abitare-scrivere – uno scrivere come in Kristóf non connotato in senso letterario – svela il troppo umano bisogno di imprimere una traccia di sé nel mondo, scolpire il fragile passaggio di un sé transitorio, prendere possesso della significazione della propria esistenza.

Ogni voce di questa polifonia sviluppa a modo suo questo binomio bifronte. Marie, la cui scrittura rimane intima, quasi in ombra, vive in una casa condivisa e all’interno della scrittura altrui di cui è depositaria e spesso destinataria. Pavel, che vive isolato rispetto al mondo in un confino subito e forse persino cercato, elabora il “Narciso Cieco”, la bozza di una propria variazione del celebre mito; ripiegato su se stesso, il suo amore per Marie sarà solo platonico, paternale e intriso di belle parole. Jan espone il suo ideale kitsch di domesticità, un idillio famigliare vago e indefinito, forse la pallida eco della casa praghese dei genitori che aveva lasciato da giovane (eco suggerita da un dettaglio significativo come la panca ad angolo). La casa che presto andrà a fuoco, con cui inizia il suo racconto, potrebbe essere l’abbandono dell’illusione di finire un romanzo che non si compie mai, la rinuncia a quella ricerca di significazione che tende al lirismo, a una profondità che talvolta risulta anch’essa kitsch nel suo prendersi troppo sul serio.

Rileggendo a ritroso Il secondo addio, ogni elemento serio rivela il proprio aspetto ridicolo e la scrittura stessa sembra guardare a sé con autoironia: il tono apocalittico con cui Jan esordisce annunciando la fine prossima, la placida quotidianità di una famiglia che probabilmente è solo frutto di fantasia, la scelta di nomi quali Blanka e Mels (Marx, Engels, Lenin e Stalin), la trama lacunosa alternata a copiose riflessioni liriche, le frasi interrotte a metà, personaggi abbozzati che non vengono approfonditi – le cui relazioni sono date e quasi mai sviluppate – e soggetti maschili che non riescono a immaginare e raccontare credibilmente il femminile. È la dimensione tragicomica del “Narciso Cieco”, colui che non è più capace di vedere gli altri, simbolo di uno scrittore che non riesce più a elaborare in forma compiuta altri personaggi all’infuori di sé.

Richterová espone in piena luce l’impalcatura di un grande romanzo generazionale lirico e al contempo polifonico, delineando la sua personale variazione di un genere che ha avuto illustri antecedenti come Žert (“Lo scherzo”, 1967) di Milan Kundera o Zbabělci (“I vigliacchi”, 1958) di Josef Škvorecký, disossandoli fino a lasciare un qualcosa che però non è solo mero progetto o accozzaglia di appunti di svariate mani.

È finito il tempo delle cattedrali letterarie, delle ricerche del tempo perduto; eppure, l’incompiuto di Jan-Marie-Pavel-Tommaso non è sinonimo di fallimento. Forse è proprio quella forma inarrivabile a non essere più attuabile, forse non si può o nemmeno vale più la pena di scriverla. È una casa inabitabile.

Il “secondo” addio non è dunque solo l’abbandono della terra natia dopo il 1989, l’anno della Rivoluzione di Velluto che né Pavel né i padri di Marie e Jan hanno visto, ma è la rinuncia dell’eterno errante Jan al sogno irrealizzabile di avere una casa, quella da cui si è allontanato – un “primo” addio – è andata in rovina e nessuna nuova architettura potrà erigerne una nuova. Pertanto, Il secondo addio, rinunciando al progetto di raccontare una generazione dispersa e di comporre un romanzo nel romanzo accentandone l’implosione, si presenta come uno spoglio bouquet di bozze e vite pulviscolari rivendicando con leggerezza la significazione della sua insignificanza.

Il libro comincia e finisce come la nostra vita. Il libro non comincia mai, e mai finisce. Come la nostra vita. È qui, dal tempo in cui è stato creato. Lo si può attraversare in tutte le direzioni. Le parole cambiano di significato come i nostri atti, che anche loro cambiano di significato nel tempo e alla luce dell’esperienza.” (p. 91)

Apparato iconografico:

Immagine di copertina: Immagine fornita dall’autrice S.R.

Immagine 1: https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/il-secondo-addio/

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2024/01/20/scrivere-lutopia-della-dimora-perduta-il-secondo-addio-di-sylvie-richterova/?fbclid=IwAR3Th6Ag23AGBVfymvjMILQfqY1cmqxBbWjRWNQtssqY2ig6tiSEhaLYPk4

Il richiamo del dirupo – recensione su L’Opinionista

Il richiamo del dirupo – recensione su L’Opinionista

Il Richiamo del dirupo” è il romanzo d’esordio della scrittrice torinese Mìcol Mei, Genere: narrativa. Pubblicato per la casa editrice Miraggi Edizioni, “Il richiamo del Dirupo” racconta di un ambiguo propietario e della sua villa a picco sul mare, “Il Pallido Rifiugio” dove una combriccola di intrepidi ma problematici personaggi cercano salvezza dalla mestezza delle proprie vite. Per conoscere meglio la storia e i progetti dell’autrice l’abbiamo intervistata per L’Opinionista.

  1. “Il richiamo del Dirupo” è stato il romanzo che ha segnato il Suo ingresso nella narrativa italiana. A quasi due anni di distanza dalla pubblicazione, c’è qualcosa che modificherebbe del “Richiamo del Dirupo”? Oppure che non cambierebbe per nessuna ragione al mondo? Qual è il suo rapporto con le Sue opere precedenti? Le sente sempre figlie sue o le capita di rinnegarle?

Se fosse possibile modificherei ogni singola cosa che abbia mai scritto in vita mia. Sarei come uno di quei pittori che aggiungono o tolgono qualcosa al colore all’infinito. La perfezione non è interessante, come scrivo nel libro, è terribile. L’unica cosa su cui sarò sempre d’accordo con me stessa è l’autenticità nel comunicare.

Tutto ciò che scrivo e firmo è figlio mio, certe ingenuità col tempo si perdono, si sviluppa uno stile e un percorso nella propria narrazione e certamente guardando indietro si osserva come un maestro il lavoro di un allievo. Per diventare bravi c’è solo una cosa da augurare che ci capiti: invecchiare.

  1. Pubblicare in Italia, soprattutto con una casa editrice valida come la Miraggi Edizioni, è impresa ardua per gli autori esordienti. C’è un consiglio che si sente di dare a tutti gli aspiranti scrittori e scrittrici che ancora faticano a trovare un editore? Nella quarta di copertina del Suo primo libro, d’altro canto, svetta una frase eloquente: “la speranza è davvero il peggio che possa capitare a una persona”.

Credo che la differenza tra un autore che continua a fare questo mestiere e uno che invece lascia perdere stia proprio nella perseveranza. Il talento è fortuna come diceva Woody Allen, per cui al mondo ci saranno moltissimi autori di talento che non hanno ancora avuto la loro occasione. L’unica cosa che conta veramente è crederci, sapere incassare e fidarsi delle persone giuste.

Il mio punto di vista sulla ‘speranza’ riguarda ciò che definisco ‘alibi’, traslitterando liberamente e modestamente Pasolini. Detesto il pensiero di non agire ma attendere che Tizio o Caio intervengano per risolvere le cose per conto loro. Penso che bisognerebbe sforzarsi di avere un po’ di coraggio nella vita e senso di responsabilità personale, per quanto duro sia da mettere in pratica.

Si tratta per l’appunto di rendersi consapevoli della propria vita.

  1. A proposito di speranza: nel “Richiamo del Dirupo” molti personaggi sono aggrappati alla speranza, eppure presto o tardi faranno i conti con la realtà dei fatti e con le conseguenze delle proprie azioni. Che cosa è per lei la speranza? È davvero un sentimento negativo? Pensa che, da sola, possa bastare a raggiungere i propri obiettivi?

No, come ho appena menzionato votarsi a qualcosa o qualcuno perché ci tolga dai pasticci lo ritengo vano. Comprendo i sentimenti che spingono le persone a cercare questo genere di conforto e giustificazione rispetto a ciò che non vogliono ammettere con se stesse, ma preferisco vivere sapendo di essere responsabile e talvolta spettatrice.

  1. È piuttosto risaputo che nell’atto compositivo ogni autore lasci nella propria opera qualcosa di sé. C’è un personaggio dietro cui si rivede maggiormente?

Tutti. Tutti loro sono una piccola frazione di me. Ogni personaggio riecheggia le mie cicatrici e i miei sorrisi. Tutte le mie storie sono la mia storia. Il mio debole per Thymian è però evidente.

  1. Quali sono le fonti di ispirazione di cui si serve durante la scrittura? Parte da esperienze reali – in parte autobiografiche – o dalla sua immaginazione? In altre parole: quali sono per Lei le influenze reciproche fra letteratura e vita?

Entrambe le cose. Prendo delle fette di vita e di esperienza e ci costruisco una casa sopra. Poi qualcuno ci viene a vivere e inizia l’avventura. La vita è finzione e la finzione è la vita, quello che raccontiamo sono storie e nelle storie raccontate c’è sempre del vero e del creativo.

  1. Concentriamoci per un attimo sulla persona a cui ha dedicato “Il richiamo del Dirupo”, Chiara Fumai. Vuole raccontarci qualcosa di quest’artista eclettica? Perché ha deciso di dedicare a Fumai le Sue pagine?

Non posso essere obbiettiva quando si tratta di Chiara Fumai, perché la considero un genio ma sono troppo coinvolta emotivamente e individualmente per poter dire ciò che è più giusto su di lei. Grazie al cielo c’è chi è riuscito a farlo e sono Nero Editions con il volume a cura di Francesco Urbano Ragazzi, Milovan Farronato, Andrea Bellini, POEMS I WILL NEVER RELEASE: CHIARA FUMAI 2007-2017. consiglio vivamente a chi è interessato o anche solo vagamente incuriosito di cercarlo online o in libreria.

  1. Il “Richiamo del Dirupo” poeticamente può essere considerato un’oasi all’interno di cui convivono varie arti: la narrativa, in primis, poi la pittura, la poesia, la musica. Tutta l’arte assurge a essere luogo privilegiato: qual è per Lei il ruolo dell’arte nella vita delle persone? E nella Sua? Qual è il suo valore? Qual è il suo rapporto con l’arte e quando ha capito che non potesse farne a meno?

Ciascuno di noi giustifica la sua esistenza con ciò che significa più profondamente del resto, per me si tratta dell’arte e della curiosità, dell’imparare e scoprire, conoscere. Non ho potuto fare a meno dell’arte nella mia esistenza da quando ho imparato a camminare e ancora oggi è il leitmotiv della mia quotidianità. L’arte conta per tutti, solo che molti non se ne rendono conto.

  1. Se si cerca il Suo nome in rete saltano subito agli occhi le tante persone che la seguono sui social network. Senza voler andare fuori tema, come considera questi strumenti? Che cosa rappresentano per Lei e per il Suo percorso artistico?

I social sono un male necessario per arrivare alle persone e raggiungere chi può amare ciò che facciamo, io da un paio d’anni mi sono affidata a persone competenti per aiutarmi in questo e nella mia carriera più in generale. Mi auguro di poter continuare a spacciare cultura e bizzarria con le mie opere e non solo.

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I morti non sanno nulla – recensione su Fumettismi

I morti non sanno nulla – recensione su Fumettismi

Ho di recente scritto del notevole “Codice Rubens” realizzato da D’Aponte su sceneggiatura dei francesi Hoellard e Neau (vedi qui). Per l’occasione, ho riletto anche “I morti non sanno nulla”, un suo bel bel fumetto in collaborazione con lo sceneggiatore Pit Formento: un volume che avevo recuperato dopo la presentazione che avevamo fatto insieme del suo adattamento de “La Luna e i Falò” di Pavese, su testi di Marino Magliani.

Per gli interessati, qui un rimando biografico a D’Aponte, che ripercorre il suo percorso fumettistico, evidenziando il suo percorso artistico a tutto tondo, dall’Accademia alla collaborazione con la storica Orient Express di Luigi Bernardi (qui il sito dell’autore). Qui invece su Pit Formento, anch’egli un eclettico, dal cinema al fumetto (spesso figure che proprio per questo portano una certa innovazione alla Nona Arte).

Proprio Magliani scrive una bella prefazione all’opera, che non ha avuto seguito in altre collaborazioni per la precoce scomparsa dello sceneggiatore. Magliani parla di un “gioiello” e in effetti l’opera mi pare decisamente riuscita, ancorché tutto sommato meno nota di quanto meriterebbe nell’affollata scena del graphic novel italiano di oggi.

Magliani correttamente parla di un mix di modelli franco-belgi e argentini, anche se l’opera ha una notevole autonomia e quindi i rimandi possono anche esser solo connessioni che vengono in mente al lettore smagato del fumetto. 

Il segno in effetti riprende la lezione franco-belga della ligne-claire, con un segno chiaro, preciso, in questo caso non quello morbido più noto ma quello più netto, squadrato, acuminato, in effetti più diffuso in ambito del fumetto più maturo. Il bianco e nero si presta molto bene a questa storia, e l’acquerellato di D’Aponte (uno dei punti di forza delle altre due opere che ho letto e citato prima) funziona bene anche in questa declinazione, creando contrasti chiaroscurali più soffusi del classico bianco e nero netto italiano.

La griglia è, come di consueto, “italiana”, ovvero su tre strip prevalenti, ma gestita in modo molto libero.

In quarta di copertina si richiama Lauzier, e sebbene non ci sia a mio avviso una derivatività diretta, in effetti siamo in questi dintorni: una satira affilata della borghesia nei suoi vari livelli: dai vertici inarrivabili a chi dal ceto medio-basso sgomita per inserirsi in essa. In particolare, è la borghesia intellettuale, annoiata, stanca, “Indifferenti” che sotto la patina della rispettabilità possono compiere di tutto. 

In questo, il segno sintetico, vagamente umoristico-sarcastico alla Lauzier e alla D’Aponte è ottimale, poiché permette di rappresentare il fascino indiscreto della borghesia, i suoi lati più oscuri, senza cadere in un compiacimento volgare. In questo aiuta anche lo stile dello sceneggiatore, in questo caso, che anch’egli rappresenta senza infingimenti pagine torbide ma senza indugiare più del necessario sulle parti scabrose, che sono ovviamente più inquietanti proprio perché lasciate intendere e dubitare. 

Naturalmente, come si intuisce, è un fumetto comunque “for mature readers”, non per bambini e ragazzi (o, almeno in questo secondo caso, consiglierei ai genitori prima una lettura e una decisione autonoma). 

Dino Fabbri è un perfetto antieroe novecentesco, un fotografo che vuole imporsi in un mondo ostile, a volte snob, a volte gretto. Fabbri è tutt’altro che perfetto, ovviamente, è a sua volta preda di insicurezze e complessi freudiani come un velleitario Italo Svevo / Zeno Cosini, in grado di raggiungere le vette della fotografia (in questo caso) come arte ma anche propenso a impaniarsi nei livelli più sordidi del fatto fotografico, tra sfortune e scelte sbagliate.

Siamo tra il 1985 e il 1993, tra Torino e la campagna svizzera, cosa che ho trovato molto godibile, perché il mondo che Formento/D’Aponte descrivono, pur immaginario come ribadisce l’ultima pagina (“riferimenti a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale”) rievoca un mondo che, senza conoscere davvero, ho percepito almeno nei miei anni universitari (e molto più di scorcio in seguito).

Il fumetto si presenta anche come noir (a partire dalla efficace cover, un caso raro, anche per il fumetto, di copertina “sequenziale” e fumettistica) e non è sbagliata tale componente, perché c’è il delitto, c’è il giallo, c’è l’investigazione. 

Tuttavia, mi pare che, come nel miglior giallo d’arte italiano (Gadda, Sciascia, Benni, Camilleri, e su Torino i grandi Fruttero-Lucentini), e appunto negli argentini più raffinati del fumetto (Munoz e Sampayo di “Alack Sinner”, per citare un nome), la detection sia un pretesto per farci scavare a fondo nelle pagine segrete di quel mondo, in cui il protagonista altrimenti non si addentrerebbe (piccolo-borghese e fotografo professionista, quindi curioso e impiccione per entrambe le sfumature, ma per lo stesso motivo fino a un certo punto se non vi è motivazione).

Sul discorso del rimando “argentino” andrebbe aggiunto, a mio avviso, che se da un lato sicuramente D’Aponte conosce bene quei rimandi, si tratta di una tradizione penetrata anche nel miglior seriale italiano, a partire da Tiziano Sclavi che su “Dylan Dog” fece propria quella lezione. I migliori gialli bonelliani in fondo sono quelli dove lo sceneggiatore usa il caso del mese come pretesto per un ritratto sociale (il migliore, in modo sistematico è per me Julia di Giancarlo Bernardi). Qui ovviamente i due autori si consentono più libertà, nel contesto più libero del romanzo a fumetti.

Non ho detto quasi nulla della trama per non creare spoiler all’eventuale lettore, che nell’ambito del giallo è particolarmente negativo. Del resto, per quanto condotta con gran raffinatezza, siamo nei dintorni di una scrittura, quella di Formento, molto classica, tra romanzo psicologico/sociale e noir, e quindi non vi sono soluzioni particolari da evidenziare come in Codex Rubens.

Appare interessante come D’Aponte – con collaborazioni diverse – tracci nei suoi romanzi a fumetti una indagine (forse causale?) dell’artista novecentesco e dei suoi rovelli: il Pavese che torna alle sue terre da scrittore affermato e melanconico ne “La Luna e i Falò”, questo fotografo Fabbri nervotico e inquieto, il Rubens multiforme del Codex. Sarebbe interessante indagare se questo si collega a una sua tendenza generale, presente anche in altre opere o meno: magari avrò in futuro modo di parlarne con l’autore e aggiornare il discorso.

Per ora consiglio questa lettura, che data la stagione è almeno per me particolarmente indicata: al di là della maggiore complessità dell’opera, di cui ho detto, l’estate torrida si rinfresca sempre con un po’ di algidi ammazzamenti di un bel giallo.

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https://fumettismi.blogspot.com/2023/07/pit-formento-marco-daponte-i-morti-non.html

Dove è passato l’angelo – recensione di Riccardo Cenci su PulpMagazine

Dove è passato l’angelo – recensione di Riccardo Cenci su PulpMagazine

Jan Balabán / Sull’orlo dell’abisso

Martin è uno studente, un brigádnik, ovvero un ragazzo obbligato a sperimentare il lavoro in fabbrica durante gli studi. Si muove in una città mineraria, Ostrava, dalle coordinate oscure, costruita su lande contaminate: “Nemmeno lo sa, di cosa esattamente sente la mancanza”. La sua gioventù è già consegnata alla sconfitta, piegata da un peccato originale che non sa di aver commesso. Non a caso la sua compagna, con la quale coltiva un sentimento impossibile, si chiama Eva. Quando la incontra a Londra nuovamente a distanza di tanti anni, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è come se fossero gli unici due esseri viventi in un mondo morto. Jan Balabán è maestro nel delineare individualità smarrite, perse in atmosfere colme di abbandono. Dove è passato l’angelo, datato 2003, è il suo primo romanzo, oggi riconosciuto come un classico della letteratura ceca.

La perenne minaccia della guerra atomica, che modella il mondo sovietico, è destinata a non concretizzarsi: “non verrà alla luce nemmeno la guerra, di cui il mondo è gravido, sarà abortita dietro lo scudo atomico delle superpotenze, e tutti non faremo che invecchiare senza combattere”. L’immobilismo è la più grande tragedia. Nulla accade, mentre tutto si decompone lentamente: “La spinta delle cose morte, dei pensieri e dei sentimenti morti. Come abbiamo fatto a morire così, e allo stesso tempo a restare in movimento?” La vita trascorsa appare come una misera cosa appassita fra le mani. Le assurdità del mondo socialista, le assemblee pubbliche volontarie, in realtà obbligatorie, perché la mancata partecipazione basta a segnare il colpevole di fronte alla massa, l’individualità occupata da una società estranea, colma di menzogne, la vita trascorsa in una sorta di colonia penale dalla quale Petr, il fratello di Martin, decide di fuggire. I televisori accesi nei palazzoni tutti uguali, per non dover pensare a niente; eppure la testa di Martin seguita a pensare, anche se le parole non servono più a comunicare, ma salpano “come involucri vuoti sulla superficie di un fiume profondo”.

Strutturalmente il romanzo procede per brevi blocchi narrativi, a volte apparentemente eterogenei ma connessi da fili sottili che alla fine vanno a ricongiungersi. Dettagli sul protagonista emergono dalle parole di altri personaggi che nel passato hanno raccolto le sue confessioni. Vite si intersecano come tasselli di un puzzle, al quale mancherà sempre qualche elemento per essere completo. Balabán ha la capacità di evocare atmosfere claustrofobiche, facendo al contempo percepire la vastità dell’universo. È come se i suoi personaggi fossero giunti ai confini del tempo, senza riuscire a varcarli. Sono invecchiati inutilmente mentre i loro sogni, esalati verso il cielo, non torneranno più. Anelano l’eternità, ma è un desiderio vano. Misteriose origini dell’umanità che, secondo Martin, potrebbe benissimo discendere da una spedizione approdata sulla terra centinaia di migliaia di anni fa. Forse il mondo, dopo un’immane catastrofe, tornerà a essere popolato di belve feroci, avvinto da una giungla impenetrabile.

Il desiderio di lasciare il nostro spazio balena in una semplice corsa vista alla televisione, dove le atlete sembrano aver spiccato il volo verso un’altra dimensione. Il mondo attorno a loro scompare, e quelle figure appaiono come esseri puri, percepiti al limitare del mondo materiale prima di svanire chissà dove. Inquietante Balabán, quando pone il limite dell’esistenza fra i quaranta e i cinquant’anni, quasi profetizzando la propria morte improvvisa all’età di quarantanove anni. Le persone si crepano a poco a poco, come gli edifici fatiscenti nei quali sono costrette a vivere, come i paesaggi esausti che sono costrette ad abitare. Stordirsi con la vodka serve a poco, chi beve in solitudine, poi, beve con il diavolo che lo trascinerà nei più neri abissi. Eppure c’era stato un momento in cui la paura, l’ansia di essere ascoltati, interrogati, spiati continuamente, il terrore di sentire bussare alla porta i propri persecutori, era svanita all’improvviso. Aveva lasciato il posto a un vuoto, forse foriero di speranza, più probabilmente vacuo come un effimero sollievo.

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Malapace – recensione di Alfredo Sgroi su Mangialibri

Malapace – recensione di Alfredo Sgroi su Mangialibri

Il clima è cupo, nella Francia appena liberata dalle forze alleate. Perché sono brucianti le scorie, non solo materiali, del conflitto ancora in corso. Il momento di fare i conti con quello che è accaduto è, infatti, arrivato. E tanti francesi non hanno la coscienza limpida. Così, in un campo di prigionia controllato dagli Alleati, esattamente nel 1944, si raduna un’umanità eterogenea di diseredati, relitti, prigionieri politici. Costretti ad una coesistenza forzata, in cui il caso può fare incrociare destini inconciliabili. Accade così che si incontrano due vecchi compagni d’infanzia, approdati per vie traverse alla medesima scelta politica. Il primo, François, ex comunista poi diventato collaborazionista dei nazisti al tempo della repubblica di Vichy; il secondo, Antoine, vecchio vicino di casa e fascista convinto. L’incontro innesca nel primo un flusso inarrestabile di ricordi, partendo proprio dall’infanzia, vissuta in un piccolo borgo francese. Qui matura le prime esperienze, passa dal cattolicesimo al comunismo, vive la lacerante condizione di orfano di guerra. E poi arriva Vichy…

Francesca Veltri dipana la trama del racconto lungo un arco spazio-temporale ampio. Lo fa concedendo lo spazio maggiore alla rievocazione memorialistica, condotta in prima persona dal protagonista-narratore. Lo sfondo è quello degli anni tumultuosi che vanno dal primo conflitto mondiale, vissuto in Francia in un’atmosfera di acceso patriottismo, fino all’occupazione nazista e all’arrivo degli alleati. Ciò che più conta è che il protagonista vive il suo processo di formazione in maniera intensa, facendo comunque delle scelte controcorrente. Così è quando abbraccia il verbo pacifista negli anni della Grande Guerra, e così è quando diventa comunista, prima, filonazista dopo. E perciò si stacca, talvolta in modo sinistro, dalla massa grigia degli ignavi, che preferiscono defilarsi. Rinunciare, cioè, a partecipare ai grandi rivolgimenti storici, restando così nell’ombra. Una scelta, questa, di viltà, che il protagonista rifiuta recisamente. La sua fisionomia caratteriale risulta quindi minutamente analizzata, ma sempre inerendola nel flusso degli eventi del suo tempo.

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Nell’armadio – recensione di Valeria Pasquali su Mangialibri

Nell’armadio – recensione di Valeria Pasquali su Mangialibri

Hana è rientrata da poco a Praga, dopo aver vissuto alcuni anni in Germania. Alla madre e alla sorella ha detto di aver trovato un lavoro in banca e una casa che sta finendo di sistemare, per questo è ancora ospite dall’amica Jana. In realtà Hana ha mentito a tutti: non ha un posto dove andare, non ha un lavoro, è sola e non ha più nemmeno il denaro per mantenersi. La sorella, ignara di tutto, distrattamente le dice di doversi disfare di un armadio: Hana si offre di farlo portare da Jana. Trasportato l’armadio in strada insieme al cognato Standa, Hana rimane sul marciapiede con quel mobile ingombrante, non sapendo bene cosa farne. Ad un certo punto, con l’aiuto di un passante, porta l’armadio in un cortile all’interno di un condominio vicino a quello della sorella. Non avendo un alloggio e non volendo pesare ulteriormente sulla sorella e sull’amica, la ragazza prende una decisione assolutamente stravagante: decide di passare le notti dentro l’armadio, mentre trascorre il giorno girovagando. Comincia per lei una vita quasi da clochard, sfruttando l’aiuto di qualche negoziante e riducendo al minimo il rapporto con i familiari: nel suo passeggiare senza meta, Hana è immersa nei suoi pensieri, rivivendo frammenti di vita che l’hanno portata a sentirsi sempre più isolata dal mondo e incapace di chiedere aiuto a chi la ama. Tra questi ricordi piano piano si svela un trauma, l’evento misterioso che l’ha spinta dopo tanto tempo a tornare a casa…

Tereza Semotamová (1983) ha studiato a Praga e a Brno, conseguendo la laurea in sceneggiatura, drammaturgia e germanistica. È traduttrice dal tedesco, giornalista e autrice di radiogrammi e trasmissioni letterarie. Nell’armadio è il suo primo libro tradotto in italiano. Un romanzo non particolarmente ricco di eventi, perché in realtà ciò che viene raccontato è il percorso interiore vissuto dalla protagonista, alla ricerca sì di un luogo fisico, ma soprattutto di un posto psicologico-esistenziale in cui trovare rifugio. È la stessa Hana che ci svela il senso della sua vicenda quando afferma che “tutti dovremmo avere il diritto di chiuderci dentro un armadio, ogni tanto”. La strana storia della ragazza nell’armadio diventa pertanto la metafora di un profondo sentimento di inadeguatezza: Hana si sente assolutamente estranea al mondo che la circonda, anche se abitato da persone che la amano, come la madre, la sorella e l’amica che continuano a interessarsi a lei. Hana si isola sempre di più perché non trova uno “spazio” dove la sua esistenza abbia un senso e questa ricerca continua e logorante la fa chiudere sempre più in sé stessa, come un oggetto in un armadio, fino a quando il dolore profondo che la accompagna la convince ad accettare l’aiuto di cui ha bisogno. L’originalità dello spunto iniziale, il rifugio rappresentato dall’armadio, richiama da lontano la genialità di alcune situazioni dei racconti di Kafka, anch’egli ceco. Il romanzo poi è intessuto di molteplici riferimenti colti, ben resi in traduzione, anche se difficili da apprezzare nella loro valenza culturale, essendo legati alla lingua e alla letteratura ceche.

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Il buon auspicio – recensione di Gennaro Ricolo su Maremoto Magazine

Il buon auspicio – recensione di Gennaro Ricolo su Maremoto Magazine

Un libro che scava, in maniera dissimulata, nella profondità della relazioni personali, della quotidianità e dell’autrice stessa. La recensione di Gennaro Ricolo

Chi è la Lorenza che scrive un diario in cui annota le vicende martoriate e a volte, loro malgrado, irresistibili dei pazienti di un ospedale psichiatrico di cui è “consulente filosofico”? È l’autrice stessa? È un caso di omonimia? Un alter ego, un Doppelgänger, ovvero un sosia, un viandante ubiquo? Luca Raganin

Così scrive Luca Raganin nella bella quarta di copertina del Buon auspicio, un romanzo non-romanzo, molto particolare, appena uscito per Miraggi edizioni.

Lorenza è l’autrice, è la protagonista, ed è Lorenzo, amico, desiderio e doppio. E racconta, con parole sue «in presa diretta, come in una stenografia del reale», e in più di 500 pagine, pezzi della sua vita, con tanto di nomi dei protagonisti, semplici conoscenti, amici, personaggi noti (gustoso e poetico il racconto di un week end con Houellebecq), senza filtri, in un modo così diretto da risultare urtante, inappropriato, e per questo affascinante.

Si sente spesso parlare di romanzo-mondo, quando un libro vuole ricreare da zero un intero immaginario.
Il buon auspicio di Lorenza Ronzano non ha questa pretesa, ma è fatto di riflessi incoerenti, un collage apparentemente casuale di eco sovrapposte, in cui ricostruire qualcosa di unitario più che impossibile risulta inutile, e infine non necessario.
Se ci siamo assuefatti alle storie intime, e “ombelicale” è un giudizio negativo, qui partiamo invece da un dato viscerale, doloroso ed entusiasta, capace di toccare il nostro stesso stare al mondo nella sua essenza più profonda.

Antonio Moresco, estimatore di Lorenza Ronzano e presente più volte nel testo, ne parla così, dopo aver tentato a lungo di farlo pubblicare:

Si lamentano sempre che non escono libri spettinati, e poi quando ce n’è uno spettinato e pieno di spigoli non lo vogliono!

Antonio Moresco

E ancora, in quarta di copertina:

«È strano, in questi anni in cui la grande editoria sembra fare a gara nel pubblicare libri scritti da donne (purché stiano dentro una certa cornice edificante e un certo spirito culturale del tempo), quelle che faticano a trovare accoglienza sono proprio le voci femminili più originali, più forti, più scomode, più irriducibili.
Quella di Lorenza Ronzano è una di queste.»

Da quello stesso racconto di pancia e cervello si originano poi delle esplosioni di umanità e riflessione più ampia, a contorno per esempio dei racconti dei pazienti psichiatrici che Lorenza raccoglie, e che incontra per lavoro.
Malati lo sono poi davvero? O sono “solo” stati sfortunati? Hanno sofferto nella vita e vengono per comodità sociale chiamati malati e sedati con terapie?

«Sto qui in ospedale a chiacchierare, mi metto a disposizione dei cosiddetti pazienti psichiatrici, loro mi chiamano Dottoressa, ma io sono il loro grande orecchio, la loro cassa di risonanza.
Voglio sdoganare la follia, per questo ho deciso di lavorare contro una visione del mondo proprio nel luogo in cui questa visione viene creata.
Sono l’anticorpo del sistema in vigore.»

Lorenza Ronzano sembra applicare lo stesso metodo a ogni cosa: cercare di forzare la superficie del mondo visibile, del consueto, dei rapporti interpersonali, con un racconto apparentemente piano, con uno stile fatto di «gergo quotidiano.
Talvolta più sorvegliato, nella maggior parte dei casi immediato, concreto, persino grezzo», e lo fa indifferentemente che si tratti di raccontare sogni (assurdi come tutti i sogni, spesso esilaranti), desideri di amplessi sessuali, visite al padre in casa di cura, serate più o meno mondane nella sua città, Alessandria.

Impigliato e in balia del flusso del racconto, il lettore deve subirne i colpi emotivi per essere ricompensato – come accade nella vita – dall’intenso premio di vedere smuovere leve dello spirito che non sapeva di avere (più). Uno spirito che ha un corpo, che è in un corpo.

E qual è allora il “buon auspicio” citato nel titolo? Lo ritroviamo in un passo, riportato sul retro del volume, esemplificatico e come un marchio a definire l’identità di questo libro così inaspettato:

«Oppure, anziché portarlo in Svizzera per praticare l’eutanasia, potrei lasciarlo in un campo.
Mi balugina per un attimo davanti agli occhi, come in un delirio visivo, l’immagine di mio padre sulla sedia a rotelle abbandonato in fondo a un campo.
Quest’immagine mi è sempre sembrata di buon auspicio.»

QUI l’articolo originale:

https://maremosso.lafeltrinelli.it/recensioni/il-buon-auspicio-lorenza-ronzano-libro