Di recente Walter Siti, parlando della scrittura di Roberto Saviano, ha dichiarato che ‘difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti’. E’ un assunto condivisibile e necessario, che riporta le due questioni al denominatore comune del loro carattere di urgenza. Esiste però anche una terza possibilità e cioè che le due cose non debbano affatto essere contrapposte, e semmai che si rafforzino sinergicamente. E’ in questa direzione che va Uno di noi di Daniele Zito (Miraggi Edizioni), che scegliendo di farlo in forma drammaturgica racconta la vicenda di quattro quasi cinquantenni che dopo una partitella di calcetto, fanno una bravata e danno fuoco a un campo rom, uccidendo colposamente una bambina disabile e dunque impossibilitata a scappare. Storie di povertà spirituale ma anche storie di una follia un bel po’ ordinaria, in anni in cui in Italia è diventato normale autorizzare sui migranti scelte politiche di morte, in qualche caso persino legittimate da un’accorta retorica dell’odio e da una violenza di Stato avallata dallo scorso governo, un odio irrelato che spesso discende da generiche frustrazioni personali camuffate da necessità logistiche (“o noi o loro. Non c’è posto per tutti, etc.”). Daniele Zito affida a voci diverse la narrazione di una verità che per forza di cose risulta prospettica, raccontata in soggettiva dai personaggi che in quella verità hanno un ruolo: il carnefice (“Uno di noi”, appunto) che in sé riassume anche gli altri tre balordi che hanno incendiato il campo, sua moglie, il medico dell’ospedale dove viene portata la piccola vittima, il padre, la bambina stessa. Fa da sapiente controcanto il coro che, come è tradizione della tragedia antica, esprime il punto di vista della città, della comunità entro cui la vicenda si svolge. E dunque parla quel linguaggio ‘comune’ che ben conosciamo, si serve di espressioni come “Prima gli Italiani” e affini, ormai diventate automatismi al punto che rischiano di risultare scusabili, di non produrre più l’indignazione che meritano senza tuttavia perdere nulla della loro violenza. Ma l’opera di Zito non è un documentario, non è un’inchiesta e intenzionalmente non si inserisce nel genere tardo neorealistico (alla Saviano, per intenderci) che nell’urgenza di denunciare l’orrore, considera la forma un fatto accessorio. Già nella scelta del genere infatti, Zito si posiziona su un versante più sperimentale e, trascegliendo volutamente solo alcuni elementi strutturali della tragedia greca (mancano infatti molti tratti distintivi: agnizione, espansione tragica, complessità dell’eroe e sua dialettica interna ed esterna, catarsi, fato e necessità, etc.), racconta una storia di privata aberrazione che consiste innanzitutto nella mancanza di coscienza del protagonista che non si pente affatto del suo gesto e non mostra nessun senso di colpa, in tal senso smarcandosi completamente da potenziali modelli dostoevskiani, esclusivamente agito dalla paura d’essere scoperto, dalla volontà ‘di farla franca’. Zito mette in gioco un contro-eroe umanamente poverissimo, un nano se paragonato ai titanici protagonisti della tragedia greca, un personaggio che non evolve e in nessun momento ci dà speranza di redenzione, incapace fino alla fine di maturare una consapevolezza. ‘Uno di noi’ è quello in cui non vogliamo immedesimarci perché ci disturba e che proprio in assenza di una punizione o un ravvedimento, cioè di una rassicurante catarsi finale, resta a molestarci ancora e ancora. Come deve essere. È qui lo scopo di quest’opera drammaturgica ed è forse questa la ragione per cui Zito intende ricollegarsi alla tragedia greca: la sua militanza civile, l’intenzione destabilizzante che però qui, in questo consiste la modernità dell’opera, non viene compensata. Il carnefice infatti non guadagna la conoscenza profonda del senso della sua azione né della sua povertà spirituale, proprio perché sennò sarebbe in contraddizione con sé stesso: non ne ha i mezzi, non può. Nell’intenzione di raccontare questa storia così tristemente plausibile nel nostro tempo, Zito fa delle scelte stilistiche accorte che miscelano il linguaggio mimetico, trito e basico con cui i personaggi si esprimono, con un registro poetico che via via nel testo progredisce verso un abbandono del primo a favore di un linguaggio sempre più onirico, poetico fino a diventare musica soltanto, con cui, altra scelta felicissima dell’autore, viene data voce alla bambina rom (vero ‘pharmakos’, capro espiatorio innocente su cui si riversano tutti i mali della comunità). Con ritmo pienamente drammaturgico e agio tecnico, Zito fa dunque frequente ricorso all’anafora ossessiva (“Nessuno ha visto niente/Nessuno ha sentito niente/Nessuno è in grado di testimoniare”, oppure ”Tu prova ad andare nelle fabbriche/Tu prova ad andare nei bar/Tu prova ad andare nei cantieri”), alla ripetitività di alcuni mantra (“Il buonismo ci sta ammazzando”, “Questa è un’invasione bella e buona”) che hanno infestato l’immaginario collettivo verbale fino a pochi mesi fa e che ora l’autore fissa sulla pagina nella loro posa sconcia, nella banalità espressiva cui fa da contrappunto la finezza lirica che dà espressione ai pensieri della bambina, metafora di tutte le vittime che subiscono la Storia. Come è norma della tragedia greca, non vediamo l’atto criminale compiersi sulla scena ma l’orrore che si consuma affiora poco a poco dalla ricostruzione a posteriori che ne fanno le voci, riemerge e galleggia una bruttura morale che resta anche dopo, quando il martirio della bambina diventa metafora di tutti i morti in mare, vittime come lei di una collettiva ingiustizia autorizzata dalla legge, e che sono tanti. Tantissimi. Come le stelle, innumerabili. L’orrore resta e ci interroga, anche quando ‘Uno di noi’ rimane “a guardare quei granuli dissolversi nel liquido aromatico/finché non ne è rimasta più alcuna traccia”; anche quando ognuno di noi, che l’autore chiama a testimoni responsabili di questa Storia, lascia dietro di sé “soltanto le barchette”.
Leggere Piergianni Curti oggi è un ottimo modo per capire il presente. La narrazione sviluppata a partire dall’immediato dopoguerra ci restituisce un’Italia giovane, confusa, in perenne ricerca di un proprio centro di gravità. Un’Italia povera ma elegante, comunista e democristiana, rabbiosa e impaurita. Il “Mio Padre” di Curti è un po’ il padre di tutti noi, un uomo coraggioso e idealista che nasconde grandi contraddizioni e fragilità tra le mura domestiche.
Il libro è scritto superbamente, le numerosi divagazioni e riflessioni (a volte vere e proprie perle) non inficiano la godibilità del tessuto narrativo. È molto divertente trovare luoghi comuni che si perpetrano ai giorni nostri come quando il Padre studia una conferenza su “questi giovani che non si impegnano più”. Siamo negli anni ’50, pensate a quante frotte di persone non si sono più impegnate da allora…
Quando i padri camminavano nel vuoto, sabato 26 novembre 2019, sarà nella nostra libreria e sarei molto felice di trovarmi davanti un pubblico il più eterogeneo possibile; mi piacerebbe veder scorrere negli occhi dei settantenni una pellicola della loro infanzia, nei ricordi dei cinquantenni racconti ormai leggermente sbiaditi dal tempo e nei più giovani l’invidia di un tempo che ci assomiglia così tanto, ma che forse aveva più TEMPO per raccontarsi e starsi a sentire.
Sarà un vero piacere conoscere PierGianni, perchè se la sua ironia è pari a quella che trasuda dalle pagine che ho appena letto ci sarà da divertirsi.
L’IMPERATORE DI ATLANTIDE DI ULLMANN E KIEN DI ENRICO PASTORE. RESISTERE FIN DENTRO IL PARADOSSO
Felix Nussbaum, Il Trionfo della Morte
L’inesauribile questione dei rapporti tra opera e autore e tra autore e contesto, che si è a fatica districata nel Novecento tra frigido strutturalismo, critica storicista (marxista e post-) e letture psicanalitiche, incontra uno scoglio particolarmente aspro quando ci si imbatte in opere che trattano dall’interno il fenomeno estremo del lager. Ancor di più, poi, se si parla di quelle concepite nel lager stesso, ineludibilmente marchiate da contingenze tanto atroci da restituirne come monumentale la semplice esistenza. In tali casi, se richiesti di un giudizio di valore, ci si sente quasi obbligati a quell’atto della sospensione del giudizio di cui parlava, ma da un punto di vista morale, Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”, riferendosi alla ‘zona grigia’ dei piccoli collaborazionisti ebrei, dei kapo, degli appartenenti ai famigerati Sonderkommando. Salvo poi registrare che i testimoni capaci di raccontare e dunque di svolgere l’insostituibile funzione sociale della memoria sono stati molto spesso proprio coloro che hanno militato tra quelle discutibili file, e che grazie ai minimi privilegi che il loro ruolo comportava, hanno conservato la vita. E con essa, talvolta, la voce.
Tale inquietante cortocircuito, che sembra adombrare il sospetto dell’arte/testimonianza nell’orbita-lager come correità, assume peraltro nel caso de “L’imperatore di Atlantide” (opera lirica composta da Viktor Ullmann e Petr Kien nel 1943-44, mentre erano prigionieri del ghetto di Terezín) una misura inaspettatamente calzante.
Alla breve opera in un atto e quattro quadri, della durata di un’ora circa, dedica ora un agile saggio il regista e critico teatrale Enrico Pastore (“L’imperatore di Atlantide o l’abdicazione della Morte di Viktor Ullmann e Petr Kien”, Miraggi Edizioni 2019), uno scritto pieno di non celato amore, e insieme strutturato con efficaci strumenti critici. Amore, perché l’autore confessa già in sede di prefazione di aver subito una fascinazione immediata per il lavoro, nato nel ghetto-lager ceco di Terezìn: ne era stato colpito durante gli studi universitari, aveva ipotizzato di farne l’oggetto della propria testi di laurea, e infine si è cimentato, dopo un lavoro teorico di studio di documenti e di viaggi di reperimento di fonti, nella sua messa in scena, seppure con i dialoghi parlati, in Italia e all’estero. Una lunga appassionata frequentazione, che però non tarpa mai le ali a considerazioni scientifiche, benché l’autore ritrosamente rifiuti per sé la definizione di «studioso di professione». Strumenti critici, si è aggiunto: perché a una ricostruzione storica sono affiancate, nell’architettura del saggio, l’analisi dell’opera, che occupa un buon quarto del libro, una lettura più strettamente musicologica della partitura, affidata a Marida Rizzuti, e l’edizione del libretto con testo a fronte (traduzione di Isabella Amico di Meane) che segue le poche ma significative varianti che ci sono pervenute, tra cui quella del finale – dell’opera è peraltro disponibile dal 2015 un’edizione critica.
È noto che Terezìn fu un campo particolare: organizzato nel 1941 come “ghetto degli anziani”, o “degli artisti”, divenne pian piano il volto, o meglio la maschera pseudo-umana, del disumano progetto di genocidio nazionalsocialista accelerato con la conferenza di Wansee e la Soluzione Finale. Era, o meglio doveva diventare per un momento ciò che si riteneva potesse essere accettato dalla comunità internazionale quando si affrontava lo spinoso argomento ‘condizione degli Ebrei nel Reich’. Terezìn fu infatti visitata in due occasioni dalla Croce Rossa e da rappresentanti di Svezia e Danimarca che, bene o male, caddero nella trappola ordita da Eichmann e collaboratori, per cui Theresienstadt (così fu rinominata Terezìn, con quel revisionismo toponomastico prurito delle dittature, da Stalingrado ad Agrigento) apparve agli inviati come ghetto modello, una «città donata da Hitler agli Ebrei». Una normalità di cartapesta, costruita per durare poche settimane, preparata nel modo e con gli accorgimenti che Pastore riporta, e visibile seguendo il link agli spezzoni superstiti di un “documentario” che fu girato su un set così accuratamente allestito, nel quale non poteva mancare la finzione di una vita culturale: caffè, scuole, concerti e opere liriche e di prosa di nuova composizione dovevano brillare agli occhi dei visitatori. Tra di esse il nostro Kaiser, l’altrettanto famosa Brundibar e un’esecuzione straziante del Libera me domine dal “Requiem” verdiano, con un’orchestra dai ranghi più volte falcidiati dalle improvvise deportazioni.
Ecco quale fu la temperie in cui prese forma l’opera di Ullmann e Kien, dei quali non manca l’appassionante ricostruzione biografica e a cui si tenta con acume di restituire uno spessore artistico e psicologico. Uno, musicista che il successo non aveva ancora sfiorato, psicologicamente provato da affanni privati e dalla condizione di perseguitato, entrato nell’orbita antroposofica e sostanzialmente prosciugato nella vena compositiva; l’altro artista visivo, assai più giovane, praticamente esordiente nella scrittura poetica.
Quanto all’opera, essa fu probabilmente proibita ancor prima della messinscena, dopo una prova generale che doveva rivelarne i caratteri intrinsecamente provocatori più che le forme e i modi schiettamente afferenti alla vasta galassia della Entartete Kunst, etichetta di cui fecero le spese Brecht, Hindemith, Schoenberg, Kokoschka, Grosz e infiniti altri, molti dei quali nati dal fertile e doloroso laboratorio della repubblica di Weimar – ma di tutto ciò conviene approfondire nelle pagine del libro e attraverso i richiami bibliografici.
Ecco, ciò è curioso e paradossale: che nella particolare situazione di Terezìn, quegli stessi autori che altrove sarebbero stati ridotti al silenzio, non solo sono tollerati, ma, poco per volta, vengono incentivati alla produzione artistica, in un contesto che, come nota Pastore, fa di Terezìn la città probabilmente più libera dal punto di vista creativo dell’intero Grande Reich. Il tutto pur mantenendo, tranne che nella prossimità delle visite internazionali, le usuali privazioni, a partire dalle razioni alimentari.
Ma il paradosso maggiore è un altro, ed è ciò a cui si faceva riferimento nella spericolata estensione della citazione leviana: e cioè che la libertà creativa che si è costretti ad ammettere nel ghetto-lager, era funzionale a un obiettivo il più antitetico a quella stessa libertà, ne era il più radicale capovolgimento, giacché fungeva da copertura allo sguardo internazionale per l’intero sistema dei campi di sterminio. Il tutto nell’assurdo metateatrale di un’opera scritta e messa in scena in una città a sua volta di finzione, che sarebbe stata di lì a poco spazzata via, con l’avvicinarsi del fronte orientale, insieme alle vite dei due autori, passeggeri di uno degli ultimi ‘trasporti’ verso est.
Le qualità del libro, agile nell’impaginato (136 pagine escluso il libretto con testo a fronte), sono soprattutto due. La prima è quella di riunire, riassumendole con garbo e spigliatezza, una considerevole mole di notizie sulle condizioni materiali del ghetto di Terezìn, nelle quali Ullmann e Kien hanno operato, attraverso testi più generali, tra cui l’irrinunciabile Hilberg e altri più particolari, accompagnati anche da qualche lacerto dell’essenziale “Theresienstadt 1941-1945” di Hans Günther Adler, tempestivamente pubblicato in tedesco nel ’55, recentemente tradotto in inglese ma di cui ancora manca una versione italiana.
Il secondo evidente pregio è invece il coraggioso tentativo di ricollegare in sede analitica ogni momento del Kaiser a un movente politico, con la chiara e spesso convincente tesi di farne un’opera coscientemente e persino apertamente ribelle, a partire dalla scelta della città di Atlantide quale ribaltamento del mito fondativo nazista di Gorsleben e Lindt-Lindenhoff per i quali era, in modo diverso, figura del Reich, passando attraverso dati cronologici citati nel libretto che si riferirebbero a contingenze storiche precise, per concludere col riconoscimento di citazioni all’interno del testo musicale riferibili a opere di compositori di origine ebraica: Mendelssohn, Meyerbeer, Offenbach. Né manca l’attenzione ai particolari, come l’accurata ricostruzione del nome di uno dei personaggi, Bubikopf, che alluderebbe al motto «Arish ist der Zopf, judisch ist der bubikopf», ariana è la treccia, ebreo il Bubikopf (taglio di capelli a caschetto, acconciatura evidentemente più espressionista che wagneriana).
Di contro, un punto debole potrebbe essere la tentazione, comprensibile ma a suo modo consolatoria, di “far quadrare il cerchio” percorrendo in avvio di ‘Conclusioni’ l’evitabile strada dell’etichetta: “Der Kaiser von Atlantis” costituirebbe un «mito» in un secolo, il XX, che, a detta dell’autore, non sarebbe stato in grado di proporne altri, a parte forse “Il signore degli anelli”. Senza entrare nel merito, l’inesausta analisi e il competente uso di fonti e testi avrebbero già reso il libro autoportante, senza bisogno del ricorso a un sigillo teorico che potrebbe suonare affrettatamente sistematizzante e correrebbe il rischio di offrire il fianco a una leva tale da mettere in discussione porzioni più ampie dell’opera.
Rimane a concentrare su di sé l’attenzione quel paradosso a cui si accennava, e così brillantemente suggerito, che trascina le vittime nella complicità e mette gli artisti davanti alla lacerante scelta tra il silenzio, tetro anticipatore della morte, e un’attività che, per quanto fin nell’intimo resistente, caparbia, antagonista, inevitabilmente si sporca di quel grigio stigma evocato da Levi. Contingenze inaudite, certo, quelle di Terezìn, tali appunto da sospendere il giudizio. Capaci però di consegnare a una penna altrimenti spuntata e a una voce ancora acerba un’imprevedibile fiammata di genio.
Ho letto con grande godimento le oltre 400 pagine di questo libro, scritto dal competentissimo Vito Vita, che amplia e completa il lavoro del rimpianto Mario De Luigi nel suo “Storia dell’industria fonografica in Italia” (recensito qui più di dieci anni fa https://www.rockol.it/recensioni-musicali/libri/537/mario-de-luigi-storia-dell-industria-fonografica-in-italia) avendo come sottotitolo “Storia dell’industria del vinile in Italia (interessante notare come non sia stata scelta la dizione “Industria discografica”: del resto ormai parlare di “dischi” non ha quasi più senso, e il destino di un’industria privata dell’oggetto che le ha dato il nome è inevitabilmente grigio se non nero).
Vita mette in fila, cronologicamente secondo la loro data di nascita, le mille (o quasi) aziende produttrici di dischi che sono nate, cresciute e morte in Italia a partire dalla fine dell’Ottocento. Il suo è un lavoro certosino e meritorio, non solo perché ci ricorda che ci sono stati momenti (creativamente ed economicamente) assai più gloriosi di quello che stiamo vivendo, ma anche perché riporta alla memoria i nomi delle persone che alla discografia italiana hanno dato lustro. A titolo del tutto personale, mi ha anche fatto ricordare tanta gente che credevo di aver dimenticato, e che invece era solo nascosta in qualche intreccio arrugginito dei miei neuroni cerebrali (Mela Bacchini! Giusta Spotti! Gianna Morello!).
Se questo libro ha un limite, è che spesso la massa enorme di informazioni che contiene lo riduce, inevitabilmente, a un mero elenco di nomi e di titoli – e non dubito che Vita avrebbe potuto scrivere il doppio delle pagine (ma chi gliele avrebbe pubblicate?) arricchendolo ulteriormente di informazioni e riflessioni. Ecco, magari le tre interviste conclusive sono pleonastiche, ma le scelte autoriali vanno comprese e accettate.
Tuttavia, “Musica solida” – bel titolo, in contrapposizione alla fastidiosissima definizione di “musica liquida” – ha i pregi del libro storico, e sono certo che Mario De Luigi l’avrebbe apprezzato come indubitabilmente merita.
Prima delle periferie urbane ci sono quelle della ragione, prima dell’occupazione abusiva c’è una casa del cuore non autorizzata a odiare, prima delle mense per i poveri ci sono le tavole imbandite di rancore, prima dei campi Rom ci sono le anime nomadi che si spostano tra un ghigno e un urlo, prima delle ruspe ci sono i barconi fatti rovesciare nel Mediterraneo con il loro carico di morte innocente, prima degli italiani c’è uno di noi, uno qualunque perduto nell’abisso della propria inadeguatezza e sconfitto dalla rabbia e dall’astio covati nel chiuso di vite banali. Uno, uno qualunque può bruciare la propria abiezione morale tra le fiamme di un campo di emarginati, può non avere consapevolezza delle conseguenze del proprio sardonico gesto, può uccidere una bambina, la più fragile di tutte, lei che somma su di sé tutta l’ingiustizia del mondo, lei così piccola e rom e disabile. Uno, uno qualunque può continuare a non comprendere davanti alla sofferenza e alla morte. Uno, uno qualunque può continuare a giustificarsi, a stordire il proprio cuore con parole d’inumana sensatezza. Uno qualunque non ha la caratura di un eroe tragico: occorrono sentimenti forti, azioni grandi, magnificenza di pensiero. Eppure, mettilo, uno qualunque, dentro una sequenza barbara del romanzo del nostro tempo ed ecco che al romanzo subentra la tragedia, il canto terribile e terrificante di un’umanità ancestrale diretta verso la catastrofe. La tragedia greca chiamava catàrsi la catastrofe, purificando il pathos nella libertà, fosse questa persino una punizione divina. Se non fosse troppo meschino nei pensieri e negli atti, uno qualunque potrebbe restare schiacciato dall’anànke che schiacciò il più contrastato degli eroi tragici, l’Edipo di Sofocle. Ma l’anànke a volte ha un’armonia di fisarmonica, mentre suona a un angolo di strada o si “sfarina” nel mistero del confine grigio e acquoso tra la vita e la morte. La necessità fatale ignora il risarcimento. Il lutto non presuppone la luce. L’eroe non è l’eroe e la nuova Ifigenia muore per una guerra ancora più assurda di ogni altra guerra, della prima delle guerre terminata nell’infamia del fuoco: nel buio tempo di quell’uomo e ancora adesso nel buio del tempo di quest’uomo “ciò che brucia/ non ritorna/mai”. Non è un essere straordinario ad appiccare il fuoco ma uno qualunque, uno apatico, annoiato, livoroso, frustrato. Un idiota, l’avrebbero detto ai tempi dei tragici; magari anche utile avrebbero detto secoli dopo. Utile a chi? Utile a cosa? “ero come incantato/tutto questo vociare/ tutte queste parole”. Parole d’ordine, propaganda. Uno qualunque con i tacchetti alle scarpe da calcetto, una moglie e una figlia, un lavoro, gli amici, lo stress, la paura. L’indifferenza, l’egoismo. Uno qualunque è un dis-eroe al quale può scattare l’adrenalina e allora agisce e incendia una baraccopoli, mentre dentro gli risuona l’eco nefasta “o noi o loro/questa è un’invasione bella e buona”. Ma loro abita un fiume di miserie e di sofferenze, loro è la bambina ustionata. Uno qualunque non ha pietà ma paura, la guarda nel letto d’ospedale e spera che si salvi per salvarsi lui stesso. Dalle indagini. Uno qualunque perde tutto per la follia di una sera, ma non se ne rende conto. Uno qualunque può riempire le pagine di una tragedia classica. Una storia di criminale guerriglia urbana entra nei luoghi del più alto dei generi letterari. Accade però che la forma letteraria dei conflitti estremi si plasmi dentro una materia paradossalmente antitragica in cui la mediocrità dell’azione e dei personaggi fluisce dentro un contesto anch’esso mediocre. Non esiste l’eccezionalità, piuttosto avvampa in un’inarrestabile deriva di luoghi comuni, alimentati da pericolose idee sovraniste e razziste. La tragedia di un uomo e di una bambina, il razzista e la diversa, si fa manifesto contro l’idiozia degli italiani, contro il rissoso spirito del tempo, contro la disumanizzazione dell’uomo. Noi che siamo tutti quell’uno, noi colpevoli “viviamo l’abbaglio di una visione/ abitiamo il frastuono”: canta il popolo/coro che dà ora voce agli zingari ora fa rimbombare gli slogan dei razzisti, ora ricrea il Kommos, lo scambio tra l’uno e il noi, tra coro e personaggio. E il tirso dionisiaco chiede ai Don Caballero il ritmo metallico, perché c’è rumore di ferraglie e di coscienze arrugginite là dove si è spianato il fiume, che ora scorre nella memoria disperata della bambina. Sono tre i fiumi, gli episodi della tragedia. A tre fiumi somiglia la baraccopoli all’uno qualunque sulla cartina mostratagli in commissariato. Il fiume è l’agorà- tempio- bosco della tragedia classica. Il fiume non è lavacro né trascina detriti dell’anima ma fa scorrere vite non vite: della bambina ferita, della moglie incredula, della figlia inconsapevole, dei testimoni, di “uno di noi”. Tutti sospesi nell’indeterminatezza morale, tutti stasimi di un patetico coro. Tutti dentro l’ultimo libro di Daniele Zito “Uno di noi”. Una tragedia contemporanea: intensa, disturbante, crudele, straziante, dirotta, sconcertante. Una formidabile intuizione di scrittura. Da leggere tutta d’un fiato e d’un pudore. E poi aspettare di vederla in scena. Perché no?
Quattro amici di vecchia data, alla fine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Lo fanno così, senza una ragiona precisa, spinti dall’euforia del momento. Purtroppo, il loro gesto si trasformerà in tragedia. Il drammatico evento lascia su tutti i personaggi coinvolti tracce indelebili, Uno di noi ne è il resoconto, senza escludere nessuno, né le vittime, né i carnefici. È un libro duro, fatto di rabbia, di odio, di frustrazione. Parla di padri minuscoli, delle loro colpe, del loro inutile pentimento. Parla del ventre molle del Paese, della sua inesorabile deriva forcaiola. Parla dell’impossibilità del perdono. E poi c’è la scrittura, che divora ogni cosa, trasformandola in letteratura.
* * *
Daniele Zito ha trentanove anni, è nato a Siracusa, vive e lavora a Catania. Collabora con L’«Indice dei libri del mese» e «Che fare». Ha esordito nel 2013 con La solitudine di un riporto (Hacca). Il suo secondo romanzo, Robledo (2017, Fazi) è stato pubblicato anche in Francia. Nel 2018 ha pubblicato: Catania non guarda il mare (Laterza Contromano).
MUSICA SOLIDA. STORIA DELL’INDUSTRIA DEL VINILE IN ITALIA
L’industria discografica italiana nasce tra il 1899 e il 1901 a Milano e a Napoli, fiorisce per tutto il Novecento riempiendo di milioni di copie di pesanti 78 giri le case degli italiani, esplode negli anni 60 e 70 con i 45 giri e gli Lp e inizia un inesorabile declino negli anni 80, soppiantata dalla musica liquida. In 120 anni di storia, ci sono meno di dieci libri che possono concorrere a storicizzare il supporto fonografico, e sono tutti incompleti e parziali.
Oggi, ed è il caso di sottolineare finalmente, esce il testo di riferimento: Musica solida. Storia dell’industria del vinile in Italia (408 pagg., Miraggi Edizioni, 23 euro), di cui è autore una nostra vecchia conoscenza, Vito Vita. Nei nostri oscuri anni, in cui oltre alla musica si è liquefatta la memoria storica, si mandano al macero gli archivi, non si leggono più i giornali e i libri, la scrittura e la lingua parlata si sono impoverite come mai, c’è ancora qualcuno che raccoglie le informazioni con il metodo classico dello storiografo. Vito Vita ha concepito questo libro durante una cena nel 2009, nel ristorante Terra, sulla via Nomentana a Roma, sorto negli ex locali del Cenacolo della RCA Italiana. complici della sua visione, il sottoscritto, Michele Neri, Maurizio Becker e Luciano Ceri, praticamente il nucleo fondatore della nostra rivista «Vinile» e della mitica «Musica Leggera». In dieci anni di lavoro, Vito Vita ha fatto centinaia d’interviste, ha compulsato migliaia e migliaia di pagine di periodici e quotidiani nelle biblioteche, ha ricostruito, con la certosina e ossessiva precisione che ben conosciamo, gli avvenimenti, le circostanze, le date, e la storia delle persone che hanno vissuto l’avventura di cento anni di discografia italiana. Un libro di Storia che gratifica i sopravvissuti che ne hanno condivisa una parte, un libro di riferimento che traccia la strada per la ricerca che, ci auguriamo, fiorisca nei prossimi anni.
Il corredo di note a piè di pagina percorre la bibliografia e le fonti, l’indice dei nomi è presente ed efficace, la cura editoriale del volume è ineccepibile, e son tutte rarità nella cialtronesca editoria attuale. La prefazione di Giangilberto Monti non saltatela perché è divertente. Questo libro dobbiamo acquistarlo tutti!
Per gli antichi greci le tragedie erano rappresentazioni teatrali con una forte valenza religiosa, morale e sociale. Opere affascinanti e mistiche che hanno lasciato un’impronta nella storia del teatro, del costume, ma anche della letteratura.
Uno di noi, Miraggi edizioni, è l’ultimo lavoro editoriale di Daniele Zito. Siracusano, autore influenzato dalle radici culturali della sua terra, ripropone qui una tragedia in chiave contemporanea, ambientata in Italia.
Quattro amici con l’abitudine della partita di calcetto settimanale, a fine serata, cercano brio e spensieratezza giocando col fuoco.
Chi merita il fuoco?
Sicuramente i “neri”, gli invasori, “che tornassero a casa loro”, questi i pensieri striscianti della combriccola sportiva. Mariti, padri di famiglia, lavoratori, persone dotate di un organo pulsante nel petto, trasformano una serata come tante in un buco nero. Le fiamme appiccate in una baraccopoli prendono il sopravvento e a farne le spese è una bambina. Una piccola disabile che vede fumo, fiamme, ma non può scappare.
Costretta a respirare esalazioni tossiche e crudeltà fluttuanti e gratuite. Vittima sacrificale della stupidità umana. Una piccola anima sospesa nel limbo tra vita e morte, al cospetto della certezza spavalda di quattro miserabili convinti di non essere scoperti.
La verità, prima o poi, viene sempre a galla. E se quasi tutti i protagonisti non riescono a fare i conti con la propria coscienza, non possono sfuggire ai conti con un altro stato d’animo: la paura.
Paura di essere scoperti. Paura di perdere la libertà. Paura di essere arrestati.
Le voci dei protagonisti si susseguono in un vorticoso tifone di stati d’animo, contrastanti tra loro. Crudeltà ed efferatezza di ciò che hanno consapevolmente fatto tornano in superficie, proprio come l’olio sull’acqua. L’eco struggente dell’agnello sacrificale e la sua voce infantile e tenera squarcia il cuore come se fosse una lama.
Uno di noi è un’opera estremamente attuale: un libro che si stratifica nei meandri del male. In un periodo storico nero, in cui il diverso, lo straniero, l’immigrato, diventano capro espiatorio di frustrazioni e intolleranze becere. Stati d’animo che armano il polso di guerrieri “italici”, che, in nome di un falso patriottismo ideologico, scalfiscono la dignità umana, calpestando etica e moralità.
Leggere questo libro è stato difficile (e necessario), perché l’epica di Zito rimbalza dalle pagine e arriva prepotente al lettore, quasi fosse un ceffone in piena faccia. Attraverso le voci disparate e disperate degli “attori in scena” osserviamo la realtà che ci circonda come attraverso un caleidoscopio.
Questa tragedia 2.0 ha il dono dell’immediatezza, brutale e concreta. Difficile abbandonare quest’opera a cuor leggero, perché il sentimento della vergogna emerge tra acque stagnanti. Un germoglio di speranza, che può far fiorire le coscienze. Sperando, come scriveva il buon vecchio Queneau, che dal fango possano nascere fiori blu.
Forse sempre meno, ma in alcune risacche con maggiore devozione, il calcio resta metafora dell’Italia, quel campo da gioco nel quale ancora si prova a essere eroi, a fare squadra, a lottare contro la quotidiana mediocrità, a fare i campioni attirando a sé consenso nazionalpopolare, lottando per non retrocedere, facendo dello scandalo e della corruzione una banalità da espiare come peccato veniale, invocando una religione laica.
È la metafora di una società sfasciata, sull’orlo del fallimento la raccolta di racconti del siracusano Angelo Orlando Meloni Santi, poeti e commissari tecnici, Miraggi edizioni, cinque storie che usano il calcio per raccontare lo sport che è la carta di identità nazionale. Il titolo della raccolta è anche quello del primo racconto, dove si narrano le imprese della Vigor, squadra di Vezze sul mare, che da sempre non ha mai vinto una partita, condannata a un eterno limbo perché gioca in una categoria dalla quale non è possibile retrocedere. E anche la retrocessione a volte è salvezza. Gli altri racconti si intitolano “Ode al perfetto imbecille”, “Aeroplano”, “Perché no” e “Il campionato più brutto del mondo”.
I personaggi sono perdenti predestinati, ma in qualche modo con un grande cuore. C’è l’ex campione che medita vendetta perché ormai dimenticato, ci sono padri ansiosi che vessano gli allenatori pur di far giocare i figli, proteggendo la loro scarsa bravura, anzi portandola a modello, e ragazzini scattanti e gagliardi che pagano le conseguenze di un sistema corrotto.
Meloni ha una scrittura barocca che nel contesto calcistico innalza tutto a epica. Esagera, carambola sulle parole, esaspera i personaggi rendendo tutto comico e drammatico insieme, ma con lucidità e una penna felice che lo contraddistingue sin dai suoi esordi. Sullo sfondo delle storie alcune volte si intravede Siracusa, senza prosopopea, ma anzi rasoterra, con uno sguardo minuzioso e tenero si raccontano alcune ingiustizie sociali, drammi ambientali come se a guardar bene si giocasse tutti in uno sfigato campo di periferia, senza erba e senza porte, ma con l’ebrezza di essere in serie A.
Non c’è traccia di colpa o vergogna nei racconti dell’irregolare scrittore argentino Osvaldo Lamborghini (1940-1985). Lo riscopriamo oggi a poco più di trent’anni dalla morte grazie all’editore Miraggi che pubblica La pianura deglischerzi, una raccolta di quattro racconti che, per la loro impossibile aderenza a un canone già noto, sembrano provenire dal futuro.
Già César Aira lo eleva a «maestro», suo e degli scrittori argentini a venire, perché fu «qualcosa di eccezionalmente nuovo», scrive nella postfazione all’edizione completa in spagnolo delle sue opere. Pensatore arguto, in vita pubblicò molto poco, ma fu un personaggio stravagante. «Quel che fosse Osvaldo è difficile dirlo» prosegue Aira: «era un signore distinto, azzimato, dai modi aristocratici, un po’ altezzoso ma al tempo stesso molto affabile». Tuttavia, era anche capace di lasciarsi il pigiama sotto gli abiti da giorno. E poi, a letto mezzo svestito – com’è immortalato in molte fotografie – o seduto al tavolo da lavoro, scriveva circondato da pile di riviste pornografiche comprategli dalla moglie, da cui ritagliava le immagini per dedicarsi all’ancillare attività di pittore. Realizzava dipinti, fotomontaggi e collage che per la potenza evocativa richiamavano gli scatti più estremi di Robert Maplethorpe (nel 2015 tutta la sua produzione visuale è stata presentata al MACBA di Barcellona).
I protagonisti di questi quattro racconti vivono immersi, quasi annegati, nell’ambivalenza erotica tra delizia e dolore, tra l’essere vittime o autori del paciere. Eppure, soltanto all’apparenza è il sesso (e le sue perversioni) il centro d’attrazione della scrittura di Lamborghini, che invece lo utilizza e lo esaspera per estrarre alla fine il bello dal turpe: proprio come nei suoi quadri, anche in questi cuentos-collage (tradotti da Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montaldo) i partecipanti a un’orgia di Ilfiordo, il marchese gay e cocainomane di Sebregondiretrocede, le prostitute tratteggiate in Le figlie di Hegel e l’ambiguo ingegnere giapponese di La causa giusta vengono tutti colti mentre appagano i loro desideri. Nell’universo di Lamborghini è dunque il desiderio l’innesco di tutto. Ed è qui, mentre sottrae alla sua scrittura funambolica i concetti di salvezza e condanna, felicità o infelicità, e annulla ogni giudizio morale, che riesce a creare un mondo senza colpa o vergogna.
La rivoluzione generata da Lamborghini, la missione tutta politica della sua ispirazione per la quale è spesso accostato a Pasolini o Foucault, era liberare la letteratura argentina dal senso di colpa della tradizione culturale catto-europea (dunque dei conquistadores). E ci riesce benissimo.
Spesso si dice di un libro che sia “necessario”, abusando di questo aggettivo al punto da ottenere il risultato contrario all’intenzione, allontanando i lettori e rendendo quel libro tutto fuorché indispensabile.
Con Uno di noi, opera ultima di Daniele Zito, pubblicata da Miraggi, mi trovo però costretta a dire che in Italia, nell’attuale momento storico e politico, nessun libro sia più necessario di questo.
Uno di noi
Viene subito in mente il concetto di banalità del male, così ben espresso dalla filosofa Hannah Arendt nell’omonimo libro: sono realmente e intrinsecamente cattivi i quattro amici di vecchia data che una sera, dopo la consueta partita di calcetto, appiccano il fuoco a una baraccopoli?
O sono solo dei poveri inetti, superficiali oltre ogni buon senso, che si sono lasciati trascinare dalle parole violente ed estremiste di chi sta al potere e grida “È finita la pacchia!” e “Prima gli italiani?”.
visto quante fiamme?
visto come strillavano?
che goduria, ragazzi, che goduria
li abbiamo proprio castigati
tempo due giorni
e saranno via dalle palle
abbiamo bonificato la zona
l’abbiamo derattizzata
gli abbiamo fatto capire chi è che comanda
Quattro buoni padri di famiglia che dopo aver devastato la vita di persone ree di essere diverse, tornano a casa dalle mogli e dai figli, sperando che il loro gesto stupido e crudele diventi solo un aneddoto di cui vantarsi con i loro simili.
Ma qualcosa va storto. C’era una bambina in quella baraccopoli, una disabile che non è riuscita a fuggire e che ora giace, ustionata e in coma, in un letto d’ospedale.
Una bambina che diventa il peggior incubo per uno dei quattro, che solo per questo inizia a comprendere la follia di quel gesto. È la paura che inizia a scavare a fondo, che fa traballare la certezza di non essere scoperti. Zero rischi, zero conseguenze.
Mentre sulle pagine scorrono i punti di vista di chi è stato coinvolto quella notte e di chi in quella vicenda ha trovato nuova linfa per la propaganda politica – l’automobilista che ha segnalato l’incendio, l’infermiere che ha accolto in ospedale la bimba ferita, il ministro che dà la colpa all’immigrazione fuori controllo -, sale – come un violento conato di vomito – la rabbiosa certezza che la disumanità abbia ormai preso il sopravvento e che quei Noi siano ovunque, nemmeno più di tanto nascosti tra la gente che ogni giorno frequentiamo.
lo guardo e penso: io non sono come lui
io non ho nessuno qui
mia figlia è a casa
lontana da tutto questo clamore
che il mondo sia andato in frantumi in fondo m’importa poco
è la violenza con cui questi frantumi
si sono conficcati al centro stesso del mio cervello a darmi da pensare
Scritto in forma di tragedia greca, con tanto di cori che si conficcano nello stomaco e che s’insinuano subdoli nei pensieri del lettore, Uno di noi è un libro potente, che fotografa il momento presente e ci racconta chi siamo diventati e cosa possiamo arrivare a fare, madidi di ignoranza e sospinti da un’ideologia populista e malsana.
Ma questo pamphlet breve, incalzante, dilaniante è anche una storia di perdono e redenzione, che lascia uno spiraglio aperto alla speranza – mai perduta – che questo vacuo becerismo torni a dare spazio alla compassione.
Una scrittura che, si può qui ben dire, è vera letteratura e che, come spesso accade in questi rari casi, ha il potere di cambiare – anche solo di poco – chi ha il coraggio di affrontarla.
Assolutamente da leggere.
un libro per chi: non può rassegnarsi all’orrore di questi tempi
autore: Daniele Zito
titolo: Uno di noi
editore: Miraggi
pagg. 122
€ 13
SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI | ANGELO ORLANDO MELONI
Si sa che per noi Italiani il calcio non è semplicemente uno sport, ma quasi una ragione di vita, una religione; e mi ci metto dentro anch’io che fino a qualche anno fa lo seguivo in maniera quasi ossessiva, prima di darmi un po’ una calmata. Ci perdiamo allegramente in questo bailamme di acquisti, retrocessioni, campionati, scandali e pasticci di vario genere e sì, forse ci piace anche così. In Santi, poeti e commissari tecnici, uscito ad aprile per Miraggi edizioni, troviamo sei racconti in cui l’autore, Angelo Orlando Meloni, narra in maniera semiseria quello che spesso accade di nascosto (e non) in quel mondo sportivo che amiamo così tanto.
Il primo racconto è quello che dà il nome all’intera raccolta e al centro della storia troviamo la Vigor, squadra di Vezze Sul Mare, che fin dalla fondazione non ha mai vinto una partita e neanche è mai stata retrocessa, pur arrivando sempre ultima, perché dopo di essa c’è il nulla, non ci sono serie minori. L’allenatore, ormai abituato a quella solfa, inizia ad essere contattato dal parroco del paese che gli dà dei consigli sulla formazione che gli arrivano “dall’alto”, consigli che poi messi in pratica sembrano anche funzionare. E quando arriva il momento di giocare contro l’A. S. Marina, la squadra del comune gemello, Marina di Vezze, l’ansia sarà alle stelle, anche perché ci si aspetta quell’intervento dal cielo. Ma come finirà? E che c’entra la statua della beata Serafina?
Meloni in questi racconti prende ciò che di più strano e anche torbido c’è nell’ambiente calcistico e lo esaspera, trasformando la scaramanzia e la religione in una vera e propria fiducia nei confronti di una statua che tutto può risolvere e che realizza anche l’impossibile. Ma in altri casi porta alle estreme conseguenze uno scambio di favori, che diventa una serie di pasticci a catena in grado di far collassare tutte le squadre coinvolte e fallire il campionato intero (Il campionato più brutto del mondo).
Ma c’è anche un ex divo del pallone che medita vendetta con chi, anni prima, l’ha fatto scendere dal piedistallo e cadere nel dimenticatoio, o ancora un ragazzino che, pur essendo bravissimo a giocare, non viene mai messo in campo perché figlio di un tizio stravagante, e anzi a lui viene preferito un altro che ha il papà avvocato che pressa il presidente (Ode al perfetto imbecille).
I racconti di Angelo Orlando Meloni hanno un sapore tragicomico, sono quelle storie in cui l’umorismo non è fine a se stesso, ma lascia un retrogusto amaro sulla base del quale iniziamo a riflettere su questo pazzo mondo sportivo. L’autore parla di piccole cose, squadre di piccoli comuni, ragazzini che non vengono premiati ma anzi messi da parte, e lo fa per raccontare, quasi guardandole al microscopio, le ingiustizie, la tristezza e i problemi di un sistema che molte volte è malato in ogni sua parte. In effetti è proprio questo che l’umorismo, se usato in maniera intelligente fa: denunciare.
L’autore dichiara altrove che «In Italia la vera religione è il calcio. I miei personaggi sono perdenti con un cuore grande», e forse il problema è proprio che si prende tutto troppo sul serio. Lui porta alle estreme conseguenze questi comportamenti e ci regala una carrellata di storie che non sono solo per chi ama il calcio, ma possono essere benissimo lette da tutti, anche se probabilmente chi ha una maggiore preparazione in materia vi rintraccerà qualche collegamento interessante o troverà tra le righe qualcosa che ricorda vicende più note.
Fotografare il presente è un’operazione da attenti osservatori: richiede il giusto distacco dalle cose e dal tempo, richiede tempo e passione per ciò che si sta facendo. È una missione che solo alcuni, tra chi tenta, riesce a fare. “Uno di noi” siamo noi oggi, alcuni di noi oggi. Ogni singolo personaggio di questa amarissima narrazione ha un posto nella storia, tutti meno uno, tutti insieme meno uno, a cui è riservato l’oblio.
Il libro di Daniele è una riflessione e una speranza, è la rivelazione, nero su bianco, della bestialità a cui tutti noi stiamo tendendo assuefacendoci alla violenza, sublimando il dolore. Il coro, a tratti forcaiolo, altre volte capace di una compassione che si ferma alla superficie dell’infamia, è la platea dei talkshow che applaude al tuttologo di turno, sono le finte lacrime di chi in favore di camera racconta la sua triste e sfortunata storia, sono le chiacchiere al bar o alla fermata dell’autobus sui luoghi comuni che tutti abitiamo nella nostra testa. Ma soprattutto sono i commenti a status, a post, sono notifiche di relazioni umane con una fredda e inanimata tastiera che fa da medium tra carne e carne e rende tutto possibile, prima nell’immaginario e poi nella realtà.
La vita degli altri ha meno valore se la posta in gioco è scrivere la storia. Ma la storia guarda solo i vincitori, si diceva. Chi vince? Chi sono i protagonisti? Quale è la posta?
Non tutto è così scontato: l’eroe di un’epoca può essere considerato carnefice in un’altra. Ed è forse questa la speranza: che questa sia un’epoca di transizione e che si ristabilisca presto quel senso di umanità necessario alla coscienza, necessario alla sopravvivenza. Come un cerchio che si chiude, il funerale può essere simbolicamente fine e inizio. È la fine di un percorso in cui è il dolore, l’odio e il terrore ad avere vinto una battaglia; è l’inizio in cui colui che ha scritto quelle pagine è scomparso e al suo posto nascono germogli di umanissima presenza che chiede perdono – Irene ne è la testimonianza – che si assume le proprie responsabilità e insegna al futuro, Viola, ciò che è giusto fare, chi è giusto essere.
La trama lineare di questo racconto è in realtà la parabola di un’epoca che non sa di esserlo, che si crede eterna e vincente, che non si percepisce transitoria ed invece lo è, come tutto in questo mondo.
Cadranno le teste, bruceranno ancora case, cose, tanto dolore e fiamme invaderanno le vite di molti ma il suono di quella musica, la musica che unifica tutti, quella resterà come faro nella notte per ricordarci la nostra caducità e la nostra possibilità di toccare l’eterno, non come singoli ma come comunità umana.
E allora suona bambina, suona. Alcuni già ti sentono, altri ti sentiranno.
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