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Ho di recente scritto del notevole “Codice Rubens” realizzato da D’Aponte su sceneggiatura dei francesi Hoellard e Neau (vedi qui). Per l’occasione, ho riletto anche “I morti non sanno nulla”, un suo bel bel fumetto in collaborazione con lo sceneggiatore Pit Formento: un volume che avevo recuperato dopo la presentazione che avevamo fatto insieme del suo adattamento de “La Luna e i Falò” di Pavese, su testi di Marino Magliani.

Per gli interessati, qui un rimando biografico a D’Aponte, che ripercorre il suo percorso fumettistico, evidenziando il suo percorso artistico a tutto tondo, dall’Accademia alla collaborazione con la storica Orient Express di Luigi Bernardi (qui il sito dell’autore). Qui invece su Pit Formento, anch’egli un eclettico, dal cinema al fumetto (spesso figure che proprio per questo portano una certa innovazione alla Nona Arte).

Proprio Magliani scrive una bella prefazione all’opera, che non ha avuto seguito in altre collaborazioni per la precoce scomparsa dello sceneggiatore. Magliani parla di un “gioiello” e in effetti l’opera mi pare decisamente riuscita, ancorché tutto sommato meno nota di quanto meriterebbe nell’affollata scena del graphic novel italiano di oggi.

Magliani correttamente parla di un mix di modelli franco-belgi e argentini, anche se l’opera ha una notevole autonomia e quindi i rimandi possono anche esser solo connessioni che vengono in mente al lettore smagato del fumetto. 

Il segno in effetti riprende la lezione franco-belga della ligne-claire, con un segno chiaro, preciso, in questo caso non quello morbido più noto ma quello più netto, squadrato, acuminato, in effetti più diffuso in ambito del fumetto più maturo. Il bianco e nero si presta molto bene a questa storia, e l’acquerellato di D’Aponte (uno dei punti di forza delle altre due opere che ho letto e citato prima) funziona bene anche in questa declinazione, creando contrasti chiaroscurali più soffusi del classico bianco e nero netto italiano.

La griglia è, come di consueto, “italiana”, ovvero su tre strip prevalenti, ma gestita in modo molto libero.

In quarta di copertina si richiama Lauzier, e sebbene non ci sia a mio avviso una derivatività diretta, in effetti siamo in questi dintorni: una satira affilata della borghesia nei suoi vari livelli: dai vertici inarrivabili a chi dal ceto medio-basso sgomita per inserirsi in essa. In particolare, è la borghesia intellettuale, annoiata, stanca, “Indifferenti” che sotto la patina della rispettabilità possono compiere di tutto. 

In questo, il segno sintetico, vagamente umoristico-sarcastico alla Lauzier e alla D’Aponte è ottimale, poiché permette di rappresentare il fascino indiscreto della borghesia, i suoi lati più oscuri, senza cadere in un compiacimento volgare. In questo aiuta anche lo stile dello sceneggiatore, in questo caso, che anch’egli rappresenta senza infingimenti pagine torbide ma senza indugiare più del necessario sulle parti scabrose, che sono ovviamente più inquietanti proprio perché lasciate intendere e dubitare. 

Naturalmente, come si intuisce, è un fumetto comunque “for mature readers”, non per bambini e ragazzi (o, almeno in questo secondo caso, consiglierei ai genitori prima una lettura e una decisione autonoma). 

Dino Fabbri è un perfetto antieroe novecentesco, un fotografo che vuole imporsi in un mondo ostile, a volte snob, a volte gretto. Fabbri è tutt’altro che perfetto, ovviamente, è a sua volta preda di insicurezze e complessi freudiani come un velleitario Italo Svevo / Zeno Cosini, in grado di raggiungere le vette della fotografia (in questo caso) come arte ma anche propenso a impaniarsi nei livelli più sordidi del fatto fotografico, tra sfortune e scelte sbagliate.

Siamo tra il 1985 e il 1993, tra Torino e la campagna svizzera, cosa che ho trovato molto godibile, perché il mondo che Formento/D’Aponte descrivono, pur immaginario come ribadisce l’ultima pagina (“riferimenti a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale”) rievoca un mondo che, senza conoscere davvero, ho percepito almeno nei miei anni universitari (e molto più di scorcio in seguito).

Il fumetto si presenta anche come noir (a partire dalla efficace cover, un caso raro, anche per il fumetto, di copertina “sequenziale” e fumettistica) e non è sbagliata tale componente, perché c’è il delitto, c’è il giallo, c’è l’investigazione. 

Tuttavia, mi pare che, come nel miglior giallo d’arte italiano (Gadda, Sciascia, Benni, Camilleri, e su Torino i grandi Fruttero-Lucentini), e appunto negli argentini più raffinati del fumetto (Munoz e Sampayo di “Alack Sinner”, per citare un nome), la detection sia un pretesto per farci scavare a fondo nelle pagine segrete di quel mondo, in cui il protagonista altrimenti non si addentrerebbe (piccolo-borghese e fotografo professionista, quindi curioso e impiccione per entrambe le sfumature, ma per lo stesso motivo fino a un certo punto se non vi è motivazione).

Sul discorso del rimando “argentino” andrebbe aggiunto, a mio avviso, che se da un lato sicuramente D’Aponte conosce bene quei rimandi, si tratta di una tradizione penetrata anche nel miglior seriale italiano, a partire da Tiziano Sclavi che su “Dylan Dog” fece propria quella lezione. I migliori gialli bonelliani in fondo sono quelli dove lo sceneggiatore usa il caso del mese come pretesto per un ritratto sociale (il migliore, in modo sistematico è per me Julia di Giancarlo Bernardi). Qui ovviamente i due autori si consentono più libertà, nel contesto più libero del romanzo a fumetti.

Non ho detto quasi nulla della trama per non creare spoiler all’eventuale lettore, che nell’ambito del giallo è particolarmente negativo. Del resto, per quanto condotta con gran raffinatezza, siamo nei dintorni di una scrittura, quella di Formento, molto classica, tra romanzo psicologico/sociale e noir, e quindi non vi sono soluzioni particolari da evidenziare come in Codex Rubens.

Appare interessante come D’Aponte – con collaborazioni diverse – tracci nei suoi romanzi a fumetti una indagine (forse causale?) dell’artista novecentesco e dei suoi rovelli: il Pavese che torna alle sue terre da scrittore affermato e melanconico ne “La Luna e i Falò”, questo fotografo Fabbri nervotico e inquieto, il Rubens multiforme del Codex. Sarebbe interessante indagare se questo si collega a una sua tendenza generale, presente anche in altre opere o meno: magari avrò in futuro modo di parlarne con l’autore e aggiornare il discorso.

Per ora consiglio questa lettura, che data la stagione è almeno per me particolarmente indicata: al di là della maggiore complessità dell’opera, di cui ho detto, l’estate torrida si rinfresca sempre con un po’ di algidi ammazzamenti di un bel giallo.

QUI l’articolo originale:

https://fumettismi.blogspot.com/2023/07/pit-formento-marco-daponte-i-morti-non.html