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Pellicani babbo e figlio per un torrente di parole

I Pellicani, con la p maiuscola, perché è un cognome, non sono gli animali esotici dal grande becco che nell’arte cristiana sono diventati simbolo di Gesù e dell’amore verso i figli: così si intitola il romanzo di Sergio La Chiusa edito da Miraggi.

Un torrente di parole, in un claustrofobico condomino surreale, con situazioni e relazioni ambigue, prima su tutte quella padre-figlio dei due protagonisti, che non molla più il lettore e lo spinge nella corsa lungo le pagine e la tragicommedia di questo strambo eroe.

Pellicani figlio si fa scudo di una valigetta, di un ruolo, Pellicani babbo incombe con i suoi acciacchi da vecchio assistito da una badante che il figlio a metà libro riesce a buttare fuori di casa e dalla loro vita – “Ci siamo emancipati”, annuncia il protagonista sull’onda dell’entusiasmo prima di rinchiudersi nella sua cameretta a sgranocchiare biscotti Plasmon – dopo venti anni in cui era stato assente per impegni non meglio precisati.

E’ un’opera inconsueta quella di La Chiusa, finalista al premio Italo Calvino 2019, in cui ha ottenuto la “menzioni speciale Treccani” per la lingua italiana.

Il giovane Pellicani è così antipatico da risultare simpatico, come accade in molti film. E’ ipocondriaco, goloso, si “traveste”, spacca il capello in quattro ad ogni occasione dato che dubita di tutto, sfugge alle responsabilità, ma in fondo va dritto alla meta e si installa in casa del vecchio e infermo Pellicani babbo.

Se la lettura per voi è anche sfida, immergersi nelle pagine, questo è un romanzo da affrontare. E la sua vena poetica non deluderà.

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