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Trentenne, Tereza Boucková, figlia dello scrittore controrivoluzionario Pavel Kohout, raccontò la sua infanzia, la sua adolescenza e la sua giovinezza, presentandosi come la sorella più piccola di Raggio di Sole e Bianca Luna, come figlia di Indiano, padre assente, e di Alfa, bulgara, esule da Sofia, madre passionale. Il libro esisteva, inizialmente, soltanto nel circuito clandestino, perché i comunisti non avevano simpatia per chi aveva firmato la Charta 77; tuttavia, nonostante circolasse in samizdat e nonostante non riferisse mai i nomi reali, nessuno faceva fatica a riconoscere certi personaggi. Il giochino, anzi, probabilmente era proprio fiutarli e smascherarli. Kohout disse alla piccola Tereza che il suo libro era pieno di rabbia e di bugie, e che non andava pubblicato così. Invece uscì esattamente come era stato scritto, come tenera filiale letteraria rappresaglia. Tereza si racconta a partire dal primo vagito: non voleva saperne di uscire da quella pancia accogliente, se ne infischiava se mamma Alfa voleva partorire presto per non perdersi una prima. Forse sentiva di non essere stata – come dire – “pensata”, come figlia: la conoscete la barzelletta, no? “L’Indiano ha tre figli. Il primo, maschio, si chiama Raggio di Sole. La seconda, femmina, Bianca Luna. E la terza, Preservativo Rotto”. Lei era la terza. Adorava questo papà fantasma, perso tra le chimere della controrivoluzione, i sogni d’arte e l’amore di un’altra donna, Musa; intanto veniva cresciuta, almeno per qualche tempo, da Azzardo, il nuovo compagno della mamma: un uomo che aveva portato in casa strane innovazioni come le cotolette di maiale, il libretto contabile, l’ordine e una serie di parole straniere. Quando era bambina, un giorno, Tereza si era ritrovata spaurita di fronte ai carri armati russi, che venivano a imporre il loro comunismo accompagnati da tanta puzza di nafta e di sporcizia. Alla radio si invocava aiuto, fuori qualcuno sparava. Mamma Alfa piangeva, silenziosamente. Papà Indiano era all’estero e non era bene che rientrasse, non in quei frangenti – era decisamente sgradito al regime. In compenso, i bambini potevano svuotare la sua famigerata dispensa. Fuori capitavano disgrazie, si cercava così di sublimare la realtà. Passò del tempo. Una volta, la nazionale cecoslovacca di hockey sconfisse l’URSS, ai Mondiali, e tutti i praghesi, pazzi di gioia, si ritrovarono in piazza, a festeggiare, cantando “Ivan, vai a casa, che Natascia ti aspetta”. Sulla tomba di Jan Palach bruciavano centinaia di candele. Qualcuno non gradì. Passò del tempo. La piccola non venne ammessa al ginnasio, perché era figlia di un artista controrivoluzionario; dopo parecchie ricerche e svariate umiliazioni, mamma Alfa riuscì a farla iscrivere almeno a una scuola di economia. Erano cose che potevano capitare, sotto regime. Non era una delle peggiori. La ragazzina, intanto, cominciava a scrivere – romanzi d’amore, come inizio. Era un’adolescente sensibile che sentiva tanta nostalgia del papà, e sognava di fare teatro per potergli stare più vicina…

Tereza Boučková, scrittrice praghese classe 1957, tra i firmatari della famigerata Charta 77, orgogliosamente e stoicamente dissidente, esordì pubblicando questo libro nel 1988, in un’edizione samizdat; a ruota ricevette il premio Jiří Orten nel 1990. La corsa indiana è un memoir caratterizzato da diversi aspetti interessanti: in primis, è la testimonianza (politica ed esistenziale) delle condizioni di vita di una giovane ceca sotto regime sovietico; non siamo stanchi di leggere e rileggere cosa significava essere controrivoluzionari sotto la grigia e infame dominazione russa, non abbiamo smesso di stupirci del clima paranoico, delle sinistre e sorde violenze, delle paurose limitazioni della libertà (tutte), delle infestanti pressioni sofferte dai nostri fratelli cechi e slovacchi. A un altro livello, La corsa indiana è il diario di una maternità sofferta e complicatissima: è la storia di un bambino tanto desiderato e più volte perduto, è la storia di due adozioni e di una nascita vissuta letteralmente come un dono, quella di Dárek. Da questo punto di vista, è un libro di una femminilità intensa e di una sensibilità e di una fragilità superiore; conosce dei picchi di crudezza che, come uomo, mi ammutoliscono. A un terzo e ultimo livello, questo libro è un lavoro che, per noi lettori italiani – e tra gli italiani includo la minoranza mitteleuropea composta dai triestini, dai friulani, dagli istriani, e ovviamente dai trentini e dai tirolesi – è di meno immediata e diretta percezione: ad esempio quando appare, in diversi episodi (è più corretto chiamarli “sketch”), sotto lo pseudonimo “Monologo”, l’ex presidente Vaclav Havel, un pubblico ceco (e slovacco, e probabilmente russo e germanico) trova certi incidenti e certi episodi ovviamente più liminari e comunque eclatanti e rumorosi; per la nostra competenza politica, così raramente mitteleuropa-centrica, si perde parecchio. Per chi volesse rimediare, consiglio almeno la lettura delle Lettere a Olga [Santi Quaranta, 2010], circa cento lettere scritte da Havel alla moglie, durante il triennio di ingiusta detenzione sotto comunismo, scritte con funambolismi e dissimulazioni di vario genere (per lo più per non patire ulteriori punizioni, come la cella d’isolamento). Rimane che La corsa indiana è un quaderno di narrativa estremamente leggibile e fluido, nonostante qualche improvviso sbalzo, parecchie (a volte, riconoscibili) omissioni e qualche sconnessione: un quaderno fascinoso dal punto di vista storico-documentaristico, corrosivo e crudo dal punto di vista della rappresentazione della maternità. L’edizione Miraggi, tradotta dalla solita, encomiabile Laura Angeloni, è completa di altri due racconti, accostati alla Corsa indiana per ragioni filologiche e per vicinanze tematiche: si tratta di Křepelice(1993), vale a dire La quaglia e Když milujete muže (1995), cioè Quando ami un uomo. La loro inclusione è una scelta saggia, soprattutto considerando che, ad oggi, niente conoscevamo della Boučková, nel Belpaese; questo pur ammettendo che poco, in fin dei conti, mutano nella profondità dell’esperienza estetica, al limite esasperando forse – soprattutto Quando ami un uomo – la comprensione di quanto allucinante e paranoica sia stata la quotidianità dei cittadini cechi sotto regime sovietico. Questo volume è la quarta uscita della preziosa collana di letteratura ceca «NováVlna», diretta da Alessandro De Vito; è stato pubblicato col sostegno del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca.