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Chi sono i «Penultimi» di Francesco Forlani?

Un filo fatto di attrazione e compassione sembra legare Francesco Forlani alla metropoli e alle sue dimenticanze, sentimenti che l’autore indaga nel pieno della loro ambivalenza e complessità, attraverso le diverse angolazioni che assume nel suo quotidiano e silenzioso osservare. Se a ogni diversa traiettoria di sguardo corrispondono pari reazioni e sentimenti, Forlani in Penultimi si fa ricettacolo e interprete di un vasto e stratificato sentire.

Penultimi di Francesco Forlani (Miraggi edizioni, acquista) si presenta al lettore come un libello prezioso, una miniatura di grazia estremamente curata nei minimi dettagli. La pubblicazione raccoglie brevi e compiuti momenti narrativi in edizione bilingue: l’originale in francese con striature napoletane a opera dell’autore campano e parigino di adozione, affiancato dalla traduzione in italiano di Christian Abel. I testi di rigorosa brevità – poesie, haiku, pagine di diario strappate, prose poetiche, interstizi – sono intervallati da fotografie in bianco e nero, scatti sbilenchi e accidentali di uno smartphone agli angoli di Parigi. La lingua scelta da Forlani è alta, ricercata ma non per questo meno multiculturale o metropolitana, poiché sa combinare tra loro linguaggi diversi e convogliarli in un andamento lirico coeso, creando così una lingua poetica che trasfigura ed eleva a oggetto poetico anche la materia di cui parla, i Penultimi, al punto da rendere il monte Parnàso, sacro ad Apollo e da cui per tradizione mitica sgorga una fonte sacra alle Muse, il «regno di déi penultimi».

Penultimi, presenze silenziose che persistono lungo i margini, «tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno \ inverno \ di piena neve», sono coloro che appartengono alla dimenticanza, dimenticati dagli altri e dimentichi di sé, «senza memoria alcuna della faccia». Sono coloro che a bordo di un vagone di treno in ritardo mattutino non vengono chiamati dai datori di lavoro, perché nessuno si è accorto della loro presenza «oltre l’assenza». Sono un intatto «specchietto \ da bagno sul marciapiede» destinato allo sgombero, che in silenzio assiste ai nostri ignari passi, sono «due amici sulla strada coricati» o «due amanti sopra un materasso». In relazione ai Penultimi, Forlani si fa cantore del rimosso, essendo insieme spettatore e protagonista, come lo dimostra il repentino passaggio alla prima persona plurale del componimento 25.:«Come penultimi oggi eravamo tanti», per chiudersi «Così ci diamo al mondo anche noi». Allora la runner che corre tra le vie asfaltate è cantata subito dopo i «commessi viaggiatori» e il signore che «a prima vista pare normale» «se non avesse per calze delle buste \ di plastica che dall’orlo sbuffano».

Trovare univocità di messaggio o di sguardo in Penultimi non è possibile né auspicabile: Francesco Forlani in queste brevi opere finite accoglie il lettore al suo fianco e gli mostra quello che lui vede, e soprattutto come lo vede, ogni giorno. Dalla lettura di Penultimi non bisogna aspettarsi una partenza e un approdo, precisi interrogativi e lucide soluzioni, pena la delusione e l’incomprensione; quello che ci richiede il libro è più semplice: un affido viandante e flaneuristico.

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Penultimi sfugge dunque all’univocità, come ne sfugge la realtà che è suscettibile allo sguardo, e quello che si vede oggi, non sarà ciò che ritroviamo domani: una questione di prospettive. Ci sono pieghe dei nostri paesaggi quotidiani che rimuoviamo alla vista, svaniscono dalla nostra realtà oggettiva, con l’eventualità che passi una vita intera senza che si riesca, o semplicemente si possa, vedere quello che si accumula ai lati delle nostre orbite. Ed è qui che interviene la letteratura, e in questo particolar caso la lettura di Penultimi, per togliere il velo e indirizzare fasci di luce su dettagli sfocati. Anche al saper guardare serve un certo esercizio, e alla questione di prospettiva si unisce anche una questione di attenzione:

Ho pensato a tutte quelle volte che mi è capitato di percorrere una spiaggia a sera deserta, fuori stagione, un campo di calcio dimesso, un luogo qualunque abitato dalla compresenza di quello che era in un tempo prima nel pieno e di quello che appariva ora nel dopo.


Francesco Forlani dimostra in questi componimenti due o tre grandi doti di narratore, l’attenzione di osservanza e un senso compassionevole, scevro di patetismi, che ci riporta d’un tratto, oltre la geografia e alla temporalità, al sentimento corale che riempie le vie di Conversazione in Sicilia.

«Basta un sorriso, davvero poca cosa, al penultimo \ incrociato o seduto a una fermata o nel clic-clac \ dei portali dei convogli», riflette Forlani nel suo vagabondaggio crepuscolare casa-lavoro. Di fronte al riconoscimento di esistenze penultime, nasce nell’autore un sentimento collettivo, che accosta all’estraneità la compartecipazione ma anche la gratitudine. In particolare quest’ultima si presenta come una predisposizione peculiare e interessante, che riconosce al penultimo la sua funzione precisa e importante in una metropoli alienante che si sta facendo sempre più desertica: «Fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio, al termine della notte».

In linea con la materia poetica è la scelta dell’ambientazione che fa da cornice ai componimenti. Ogni frangente è ambientato ai margini del giorno in un perenne paesaggio crepuscolare, dall’«alba buia» che si confonde con la «fine del giorno», immersi in un «istante di luce sospeso» che si tinge di «pastello, in un virato seppia» e toglie il colore della differenze che fa la luce del giorno. I luoghi sono i treni, i vagoni vuoti o affollati della metrò, le strade stanche alla fine della giornata, quando capita di incontrare e prestare maggiore attenzione ai penultimi: «Lei dormiva sottocoperta e lui periscopiava il mare d’asfalto come un naufrago perlustra le distese d’acqua in attesa di aiuto».

Libro dalla natura composita, nella forma e nella sostanza, le ultime pagine di Penultimi si allontanano dall’impressione narrativa e si dipanano in una prosa di più ampio respiro, ma che non tralascia l’enigmaticità lirica, in cui trova spazio l’interrogativo – «Quando è cominciato tutto questo?» – e la riflessione ragionata:

Ammettere che la pietra gettata ha scalfito il tratto, ridotto il camminamento, costretto a levare i ponti e ficcato la mente nello specchio d’acqua putrida del fossato che ci separa e unisce a loro dal lembo a lembo delle forze schierate in campo.

Nonostante Forlani ponga lo sguardo diretto sulle atrocità del presente e ne riconosca l’inumanità, «perché inumano non è immaginare la morte ma immaginarsela trascinando con sé altri destini che non ci appartengono», persiste fino in fondo il sentimento di compassione, gratitudine e vitale fiducia nel genere umano che tiene insieme un libro multiforme e irrimediabilmente romantico:

Basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembrano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire: vita, ehi vita mia, urlare: grazie.

QUI l’articolo originale: