di Dario Moalli
Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione non è un libro da leggere con distacco. È un urlo, un pugno allo stomaco, un diario febbrile scritto ai margini di tutto – della società, del corpo, della vita.

Il memoir postumo di David Wojnarowicz, pubblicato da Miraggi e tradotto per la prima volta in italiano da Chiara Correndo, riporta al centro del dibattito culturale una figura chiave dell’underground newyorkese degli anni ’80. Artista visivo, performer, scrittore e attivista, Wojnarowicz è stato tra i primi a raccontare, con una sincerità disarmante, cosa significava essere gay e sieropositivo nell’America reaganiana, dove la comunità LGBTQ+ veniva ignorata, criminalizzata e lasciata morire in silenzio. Sul filo della lama è il racconto frammentario, lirico e rabbioso di una vita vissuta tra la strada e l’arte, tra la marginalità e la bellezza. Wojnarowicz scrive di amori consumati nei porti abbandonati, di amicizie spezzate dalla droga o dall’Aids, di corpi desideranti e vulnerabili, di un’America che promette sogni e restituisce solitudine. La scrittura è ibrida, tra visione poetica e attacco frontale, tra meditazione esistenziale e denuncia politica. È un testo che fonde il personale con il collettivo, la carne con la storia. La struttura è libera, spezzata, a tratti allucinata: non segue una cronologia, ma un flusso emotivo. È un viaggio nella psiche e nella memoria di un uomo che ha trasformato la propria disintegrazione in linguaggio. L’opera è anche un potente atto d’accusa contro l’inerzia istituzionale, un documento politico sull’indifferenza e sull’urgenza della rappresentazione.
